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Le notti gotiche di Triora
Le notti gotiche di Triora
Le notti gotiche di Triora
E-book318 pagine4 ore

Le notti gotiche di Triora

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Info su questo ebook

Triora, borgo medioevale fortificato nell’entroterra di Sanremo, è conosciuto per il processo alle streghe avvenuto nel 1587. Sulla nomea di “paese delle streghe” Triora ha costruito la sua fama e la sua fortuna turistica.
Esiste però una Triora completamente sconosciuta, fatta di antiche cisterne, acquedotti, passaggi sotterranei e antichi sepolcreti. Nessuno fino ad oggi aveva mai condotto uno studio su queste secolari cavità artificiali che nascondono segreti che tali sarebbero dovuti rimanere. Una forza oscura e terribile che affonda la propria origine nella storia del paese e nel suo sottosuolo sta per essere liberata.
Spetterà a Leonardo Fiorentini rivestire, suo malgrado, i panni di sgangherato e approssimativo investigatore e speleologo per affrontare la grande calamità che rischia di travolgere il borgo.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2013
ISBN9788875638672
Le notti gotiche di Triora

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    Anteprima del libro

    Le notti gotiche di Triora - Ippolito Edmondo Ferrario

    Capitolo I

    La Milano da bere

    Milano, 23 agosto 2008.

    Un pomeriggio di un giorno da cani.

    Rico il Fico alle fiche preferiva i fichi. Una questione di gusti che viveva in clandestinità, visto il suo ruolo di capo branco. Benché fosse alla guida di un branco di idioti non poteva permettersi di essere scambiato per un frocio, come li chiamava lui. Rico il Fico impennava il suo scooter nel traffico di Milano come e meglio di Valentino Rossi. Vendeva la bamba a moltitudini di bamba. I suoi pugni stendevano gente più grossa di lui. I froci invece erano dei buoni a nulla. Gente da eliminare nelle camere a gas. Questa era la sua filosofia. Semplice, ma efficace.

    – Ai froci spaccherei la testa a calci – inveiva come un ossesso quando di giorno li vedeva fuori dai locali di via Sammartini, la gay street milanese. La sera vi tornava di nascosto in cerca di forti emozioni.

    Rico il Fico, al secolo Riccardo Lo Bianco, si era fatto una nomea di sciupafemmine fra le ragazze di Brera. Alto, magro, secco come un legno, con quadrelli al posto degli addominali, aveva la faccia d’angelo. Un angelo però decaduto dal paradiso e per questo ancora più fascinoso. Gli occhi color smeraldo, i capelli color della notte e una fronte spaziosa lo facevano assomigliare a un moderno etrusco cresciuto a pesi, Winstroll e Playstation. Il portamento era spavaldo, i modi di fare strafottenti, degni di uno che aveva provato tutto. Si considerava un uomo vissuto. Il pupillo ventenne del dottor Lo Bianco, commercialista milanese di grido, spadroneggiava nella Milano da bere che ormai era ridotta alla frutta. Rico era una calamita per le adolescenti in calore. Il suo territorio di caccia erano i locali patinati di corso Como, quelli di corso Sempione, l’Armani Nobu, ma anche le feste private. Le ragazze si mettevano in fila per stare con lui. Rico le rimorchiava, le incantava e se le faceva. Poi le gettava. Tanti erano i cuori sciupati, un po’ meno i setti nasali fratturati. Le mani le sapeva usare, soprattutto quando reclamava ciò che a detta sua gli spettava. O quando era annoiato.

    – Che hai da guardare? Hai un problema? – esordiva quando era in vena di attaccare briga con chiunque. E giù botte. Rabbiose, incontrollabili.

    L’ultima conquista in ordine di tempo se l’era fatta sulla macchina del padre di lei, nel garage di casa della ragazza. Tre piani sotto l’elegante via dell’Orso, Rico il Fico aveva cavalcato la bella milanesina sui sedili in pelle della Bmw X5 del paparino avvocato. Durante la monta il prode stallone aveva sfoggiato tutta la sua bravura nell’immortalare la nuova amichetta. Con pochi, ma significativi scatti, si sarebbe assicurato nuove cavalcate a perdifiato. Il ricatto era una delle sue più recenti passioni. Già immaginava la faccia abbronzata del principe del foro milanese sbiancarsi di fronte alle pose artistiche della sua cocca neppure maggiorenne. D’altronde, se la sua bambina adorava la polvere bianca non era colpa sua. Rico la riforniva come un fornitore di fiducia proponendole merce di primissima qualità. Quando i soldi le mancavano si faceva pagare in natura, pur senza essere iscritto al partito dei Verdi.

    Bionda, una terza di seno e un fondoschiena degno dello scalpello del defunto Canova, Silvia era la cliente ideale. Consumava bamba come una fuoriserie ciuccia benzina e al pari di una quattroruote offriva curve da capogiro. Ultimamente però le fantasie di Rico il Fico erano tutte per i glutei implumi e palestrati dei suoi coetanei. E così la sera tardi vagava nei pressi della Stazione Centrale. Aveva un occhio clinico da spietato quanto allenato adescatore. Prediligeva i ragazzi stranieri. In cambio di una pista o di una pasta si comprava pura trasgressione.

    Quel pomeriggio di fine agosto il suo chiodo fisso era lo stesso di sempre. Fottere chiunque e dovunque. In piazza del Carmine, di fronte alla secolare chiesa dell’omonimo santo, l’asfalto esalava bollori da inferno dantesco. Di prede da fottere nemmeno una. Solo la chiesa deserta e lo sferragliare dei tram vuoti.

    – Città di merda. È tutto chiuso – esordì Rico arrivando in una nuvola di miscela bruciata che sapeva di fritto misto andato a male. Fermò lo scooter con una stridente sgommata.

    – Non c’è un cazzo di bar aperto dove bere qualcosa – disse ai due compari che lo aspettavano boccheggiando sui relativi destrieri di latta parcheggiati in mezzo al marciapiede. Abitavano tutti in Brera. Da lì partivano tutte le loro miserabili scorribande; partivano, colpivano e poi si ritiravano nei loro nidi di bambagia con attico, super attico e televisori al plasma piazzati anche di fronte alla tazza del cesso.

    La divisa estiva della banda consisteva in canotta nera aderente Dolce e Gabbana, jeans a vita bassa con mutande in vista, catene al collo da rapper e parata di tatuaggi. Rico appoggiò il mezzo al chiosco del fiorista chiuso e si scambiò delle strette di mano con i suoi compari. Gianluigi Sforza e Pierluigi Crespi seguivano Rico a ruota libera come due ruote di scorta. Il terzetto era sorto sui banchi del liceo Parini consolidandosi nel tempo. Frequentavano gli stessi locali, avevano gli stessi scooter, sniffavano la stessa bamba. I fantastici tre. Così erano soprannominati quando giravano insieme. Un trio che faceva fuoco e fiamme tranne che a scuola. Lì facevano acqua da tutte le parti.

    – Che cazzo facciamo? – chiese Gianluigi, grondante come un grondaia bucata. Dispensava sudore da ogni poro della pelle. Il gel sui capelli neri a spazzola sembrava collante liquefatto per parrucchini.

    – Ce ne andiamo al parco? – propose Pierluigi, dondolandosi sulla sella del motorino come un tarantolato all’ultimo stadio. La roba che si era fatto prima di uscire gli scatenava il diavolo in corpo. Al parco sperava di trovare qualche ragazzino da rapinare e da menare. I due compari di Rico gli assomigliavano in tutto e per tutto. Due cloni minorati che si differenziavano dal primo per il colore dei capelli. Gianluigi biondo, Pierluigi castano. Cicli di Winstroll e di Ganaboll avevano poi modellato i loro fisici anonimi trasformandoli in perfetti agglomerati di muscoli. Tesi, striati, con una percentuale di grasso vicina a quella dei prodotti Vitasnella e ricoperti da una pelle trasformata in carta velina.

    Rico marchiò il territorio con uno sputo di catarro. Si accese una sigaretta. I suoi boys fremevano per una qualche impresa, ma lui era a corto di idee.

    Il sole rendeva roventi le tre teste calde. I cervelli, o quello che ne rimaneva, rischiavano un processo di evaporazione. Un rischio che i tre erano disposti a correre. Rico si controllò i bicipiti gonfi di testosterone compiacendosi della cura ormonale abbinata a ore di palestra. Occorreva un diversivo per propiziarsi la giornata.

    – Ho voglia di scopare – confessò Gianluigi in preda ancora alle mirabolanti immagini di un porno casalingo che si era visto prima di uscire.

    – Andiamo a puttane allora – ordinò Rico, accogliendo prontamente la richiesta del suo accolito. Un vero leader doveva saper rispondere ai bisogni dei propri uomini in ogni momento.

    Misero in moto all’unisono. La sinfonia di ferraglia prese a pugni il surreale silenzio del primo pomeriggio. Milano pareva una città fantasma, pronta ad animarsi con le prime luci della sera.

    Rico aprì lo sparuto corteo su una ruota sola e tagliando la strada a una macchina. Mandò a fare in culo l’autista. La precedenza era sempre e comunque sua.

    Gli altri due gli furono dietro. Si sentivano i padroni incontrastati della strada. Quello che volevano se lo prendevano. Milano era una giungla dove vigeva la legge del più forte. La loro. Attraversarono il centro. Tagliarono in due la città per arrivare alla periferia sud. San Donato, strada Paullese. Rico il Fico era sempre in testa. Presero una strada secondaria che lambiva discariche, orti abusivi, baraccopoli. Viaggiavano in formazione, suonando il clacson e cercando di superarsi a vicenda. Una dimostrazione di abilità alla quale non si sottraevano mai.

    Accostarono quando la videro. Olga era da più di un’ora che aspettava sul ciglio della strada l’ombra di un cliente. La minigonna bianca le arrivava al pelo nero spudoratamente esposto. La pubblicità è l’anima del commercio. Era una finta bionda. I tre aspiranti clienti l’accerchiarono sghignazzanti. Lei si fece indietro. Avevano le facce da bravi ragazzi. Facce però da studenti senza soldi.

    – Quanto vuoi? – si fece avanti Rico il Fico.

    – Cinquanta bocca e fica – rispose lei come un automa.

    – Ok. Monta su – la invitò lui che voleva collaudarla per primo.

    Olga tentennò.

    – Fammi vedere i soldi.

    Rico sfilò una mazzetta di cinquanta euro.

    – Bastano?

    Olga non se lo fece ripetere. Montò in sella. Gianluigi e Pierluigi persero i loro bulbi oculari sulle natiche aperte che andavano a posarsi sulla sella rovente. Il filo del tanga bianco di pizzo vi scompariva all’interno.

    – Di qua – gli indicò lei guidandoli verso un sentiero che si perdeva tra i cespugli. Parcheggiarono. Rico il Fico la fece scendere porgendole la mano. Un autentico gentiluomo.

    – Ragazzi, voi aspettate qui – disse ai due facendo l’occhiolino.

    Seguì la ragazza che aveva fatto di quei pochi metri quadri il suo pied-à-terre dove soddisfare i clienti. Un angolo di paradiso fatto da una vecchia coperta. Sempre meglio del tugurio di appartamento dove era stata tenuta segregata un mese quando era giunta dalla Romania. Olga pensò che fosse il suo giorno fortunato. Rico e i suoi amici erano giovani e bellocci. Forse avevano la sua stessa età. Glielo avrebbe voluto chiedere. Ci provò. Vinse un pugno in un occhio. L’azzurro del cielo si scolorì e si fece nero. Barcollò. Poi un altro. Un altro ancora. Cadde a terra. Rico rideva mentre le legava i polsi dietro la schiena con la sua cintura. Il match era già finito al primo round. Olga non aveva lacrime per piangere. Non urlò. Sentì il sapore della terra in bocca misto a sangue. Subì. Da tutta la vita subiva. Forse era il destino. Sarebbe passato anche quello.

    – Avevi voglia di scopare, Gianluigi?! Scopatela a morte! – urlò Rico nel suo delirio di onnipotenza. La cavalcata durò mezz’ora. I tre cow boy in mezz’ora esaurirono le loro cartucce. Rinfoderate le pistole ancora fumanti, rimasero a guardarla come un rifiuto.

    I rifiuti vanno eliminati. Fanno schifo. Rico le regalò un calcio in faccia. Un secondo giunse da Gianluigi allo stomaco. Non c’è due senza tre. Il trattamento della Milano da bere la ridusse un frullato color rosso fragola. Adios puttana. Se ne andarono fischiettando.

    – Periferia di merda – disse Rico con il vento in faccia, tornando verso il centro di Milano. I fantastici tre stavano per tornare a respirare l’aria pulita dei quartieri eleganti di Milano dove non c’erano puttane che battevano e immondizia ai lati della strada. Quel giorno però non avevano fatto i conti con un incallito e assiduo cliente di ragazze a pagamento che s’approssimava ad appartarsi con una collega di Olga nello stesso posto del misfatto: il sottoscritto, Leonardo Fiorentini. Quando arrivai con la mia nuova amica ci ritrovammo di fronte allo scempio appena avvenuto. Olga era una macchia di sangue dolorante e immobile gettata fra i rifiuti. I tre bandidos pieni di bamba in fuga evitarono il muso della mia vecchia Zagato zigzagando con lo scooter e appellandomi testa di cazzo. Agii lestamente come un qualsiasi cittadino coscienzioso avrebbe fatto, tirando fuori dal cruscotto la mia Colt con la matricola abrasa e tenendola a portata di mano. Sapevo di avere pochissimo tempo. Invitai la mia bella a scendere dalla macchina e a chiamare un’ambulanza, prima ancora degli sbirri. Partii all’inseguimento delle tre canaglie pronto a neutralizzare la loro fuga. Il motore dell’Alfa rantolò facendomi temere che fosse giunta la fine. Sfortunatamente per loro il mio mezzo resistette e li raggiunsi attraversando la nuvola dei gas di scarico scoreggiata fuori dai loro motorini. Viaggiavano in formazione, ma la mia comparsa scompigliò le loro fila come una manciata di pallini calibro dodici sparata in uno stormo di passeri. Il loro capo, non si perse d’animo mettendo mano in un baleno a una catena che iniziò a menare sul cofano della Zagato. Il tipo doveva essere un cultore di film medievali pieni di cavalieri armati di mazze ferrate. Per sua sfortuna lo riportai dai secoli bui alla bella realtà del ventunesimo secolo con una semplice manovra.

    – Ops! – gli dissi, rammaricandomi mentre sterzavo a destra e lo facevo uscire di strada. Il capo dei pirla piroettò nel fossato laterale seguito dal suo destriero di latta che parve disintegrarsi. Ebbi l’impressione di essere al circo di fronte a un autentico artista dell’arte circense. Peccato che quello fosse stato il suo ultimo spettacolo. Gli altri due compari, alla vista del boss piroettante nell’aria, sbiancarono come due capi lavati in candeggina. Perseverarono nella fuga, ma il giustiziere della notte che era in me, pur essendo impegnato in un lavoro diurno, non ebbe pietà.

    – Perdonate, ho perso il controllo della macchina – dissi loro dal finestrino, mentre con due colpi di sterzo li sistemavo rispettivamente contro un cartello stradale e sui carciofi dell’orto abusivo di un pensionato. Mi fermai dopo un centinaio di metri per ridare fiato al motore. Rimisi la pistola nel cruscotto contento di non essere ricorso alle maniere forti. Detestavo la vista del sangue. Mi incazzai per il fatto di non essere riuscito ad approfondire l’amicizia con la simpatica e scollata ragazza dell’Est conosciuta qualche chilometro prima sul ciglio della strada. La sirena di un’ambulanza mi rincuorò. Sperai solo che non arrivasse troppo tardi. A quel punto, fatto il mio dovere, optai per un repentino allontanamento dalla zona per non rischiare un incontro ravvicinato con i tutori dell’ordine che mi avrebbero certamente condotto al cospetto di qualche giudice togato e malcagato.

    Capitolo II

    L’uomo talpa

    Finale Ligure, una domenica di agosto del 1987.

    Frazione di Perti.

    Le spiagge le sfiorò appena guardandole con una certa invidia. Si chiese se non fosse davvero un coglione come gli aveva detto il giorno prima Barbara dandogli un ultimatum. O me o la speleologia. Peccato che la ragazza non avesse fatto i conti con la durezza granitica di lui che aveva fatto di geologia, storia antica e discese in grotta la sua passione. Gianluca conosceva le rocce meglio di chiunque. Lui stesso col tempo si era indurito come una roccia. Una sorta di processo di osmosi tra uomo e ambiente. Dunque era normale per lui ricongiungersi con quell’elemento naturale di cui era fatto.

    La domenica era l’occasione per riempire la macchina di moschettoni, corde, caschi. Tutto l’occorrente per andare alla ricerca di antri sotterranei da esplorare. Non c’erano pomeriggi al cinema o gite sul lago che tenessero. L’avventura e il senso della scoperta valevano per lui più di ogni altra cosa. Che cosa cercasse nessuno lo sapeva. Neppure lui. Era la ricerca in se stessa a bastargli. Un po’ come quei cavalieri erranti che nel medioevo partivano senza una meta, ma saldi nel loro usbergo di ferro e in pochi semplici principi. Il mettersi alla prova in rischi e pericoli era il fine del loro cammino. Gianluca era diventato speleologo all’età di nove anni, a casa dei suoi genitori, a Verona. Quel pozzetto presente in giardino prometteva incredibili segreti. In realtà ci guadagnò solo l’alluce schiacciato. Di segreti non ne trovò, ma la passione per scoperchiare tombini cominciò a perseguitarlo. Gli anni passarono e in breve ne fece la sua seconda professione. A vent’anni, il sabato sera andava a caccia di tombini per Milano. Li sollevava di nascosto e vi spariva dentro. In settimana studiava vecchie piantine, libri, e formulava ipotesi su cosa ci potesse essere nel sottosuolo. Ora di anni ne aveva ventotto. Negli ultimi otto aveva esplorato clandestinamente buona parte dei navigli milanesi coperti, i passaggi sotterranei di chiese, palazzi e ricoveri antiaerei. Di giorno invece, munito delle debite autorizzazioni, il Comune lo spediva al massimo a fare la planimetria di qualche pozzo di epoca medioevale o di qualche cantina fatiscente sotto i lustri palazzi dell’amministrazione. Quel passato e presente di ricerche sotterranee gli si era incollato addosso. Gianluca si trovava quasi perso alla luce del sole. Anche quella domenica di fine agosto si era digerito quasi duecento chilometri per scendere sotto terra. La sua Lancia Thema, da lui ribattezzata Speleomobil, esalò il penultimo respiro all’ombra della chiesa dei cinque campanili. Era a Perti, una frazione di Finale Ligure. Vi era già stato qualche anno prima quando aveva passato al setaccio Castel Govone, un imponente castello in parte crollato che dominava la costa. A Perti si respirava un’aria desolata. La sola trattoria del posto era chiusa. Intorno, poche case coloniche dai cui muri fessurati facevano capolino le lucertole. Le cicale frinivano nel sole d’agosto. Il primo pomeriggio in posti come quello era pura solitudine.

    Lo speleologo si trascinò fuori dalla macchina. Annusò l’aria. Silenzio. La lamiera del cofano bolliva ticchettando come una sveglia da tavolo. Non c’era ombra sotto la quale ripararsi. Lui se ne fregò. Si caricò in spalla l’attrezzatura sorridendo. Era nel suo habitat naturale: nessuno scocciatore intorno e la possibilità di scovare un buco inesplorato da secoli. I suoi capelli argentei a spazzola, nonostante la sua giovane età, rilucevano al sole conferendogli un’aria da guerriero nordico. Vestiva come un perfetto boy-scout, aria paciosa a parte. Era di corporatura snella, con i muscoli che guizzavano sotto la pelle tesa. Non era bello, ma aveva il fascino dell’uomo avventuroso. Sul suo cammino non incrociò anima viva. Solo sassi e polvere. Il sentiero s’arrampicava tra muri a secco dirupi, terreni inariditi, ulivi contorti e secolari. Questa era l’essenza della montagna ligure, quella evitata dai turisti e abbandonata dai contadini. Pochi ne rimanevano ad abitarla, ancor meno quelli che la coltivavano tra fatica, sudore e bestemmie, lottando contro l’avarizia dei raccolti e la perenne siccità. Gianluca avanzava in quel moncone di Liguria arso e dimenticato. Risaliva a testa alta, imprecando di tanto in tanto. Neppure un alito di vento. La strada era un reticolo di rughe, segno di remote e scarse precipitazioni. Pensò che l’avarizia dei liguri fosse proporzionale a quella della loro terra e dunque giustificata. Un fruscio e un tonfo. Un cinghiale sbucò da un anfratto avvolto dai rovi. Il lanuto quadrupede scartò il bipede, tagliandogli la strada. In pochi secondi scomparve tra gli ulivi. Gian bestemmiò per lo spavento. Poi rise. Si sentì un pirla. Avanzò verso il Castrum Perti con il sole che gli bombardava la testa come una fortezza volante statunitense sull’Europa hitleriana. Lui resisteva indomito, sperando di arrivare a destinazione prima di fare la fine di Dresda. Iniziò a inerpicarsi lungo il fianco brullo della montagna.

    Dopo una mezz’ora di scalata in cui pensò a tutto fuorché a tornare indietro, arrivò al fantasma di una cinta muraria. Ci voleva un occhio clinico da archeologo per riconoscerla. Qualche pietra qua e là in mezzo a cespugli di mirto. Subito dopo ne rinvenne un’altra. Pietre accatastate diventate buone per ospitare serpenti e scorpioni. Ecco cosa rimaneva della secolare fortezza. Il mozzicone di una torre d’avvistamento, una chiesa romanica ancora in piedi e un’altra ridotta a rudere.

    Le sue intuizioni erano esatte.

    Ora doveva solo cercare un buco, anche solo una semplice fessura nella quale calarsi. Una parola. Iniziò a vagare a testa bassa. Cercò d’immaginarsi come potesse essere quel luogo secoli prima, chi lo abitasse, com’era la vita tra quei sassi erosi dal sole e dal vento. Le sue considerazioni s’interruppero bruscamente. La chiesa in rovina conservava ancora uno spettro d’altare. Vi s’inginocchiò. Non era certo andato fin lassù per officiare messa.

    – Eccolo – sussurrò come se temesse di essere sentito. Intorno a lui il nulla. Non riusciva a staccare gli occhi da quel buco che s’infilava dritto nella montagna. Che fosse il preludio a una grotta? Ci sperò intensamente. Mollò lo zaino all’ingresso dell’anfratto. Si munì solo di una torcia elettrica. Un’ultima occhiata intorno prima di scomparire dentro. Il passaggio era stretto, ma recava ancora le tracce dell’uomo. Affioravano tratti di muratura, segno che quel passaggio non fosse naturale, bensì scavato dall’uomo. Dopo qualche metro, sulla sinistra, intravide un ambiente più ampio, ingombro di terra dal quale spuntavano resti umani. Pensò all’antico ossario della chiesa. Tirò dritto. Non voleva aver a che fare con i morti. Nella sua carriera di speleologo aveva sempre preferito evitare posti come quello. Non per paura, ma per precauzione. I morti vanno lasciati riposare o possono risultare decisamente incazzosi e vendicativi. Il passaggio portava dritto a un pozzo. Gianluca vi si affacciò. Era sgombro da macerie. Azzardò. Vi scese senza difficoltà sempre solo con la torcia elettrica. Il materiale calcareo di cui erano fatte le pareti si sbriciolava come un biscotto. Il fascio di luce illuminò un dente fossile di squalo. Gianluca lo esaminò. Doveva essere il primo a mettere il piede in quel posto da tempo. Si chiese dove sarebbe arrivato. La risposta giunse dopo quattro metri. L’accolse una sala terminale ricca di concrezioni frutto del lavoro dell’acqua piovana filtrata durante i secoli. Gianluca si rannicchiò. Rimase a studiare l’ambiente che aveva di fronte. Si sentiva incredibilmente bene. Sollevato nello spirito, quasi rilassato. Gli accadeva raramente. Era come se quel posto emanasse un’energia positiva. Individuò una condotta ormai fossile. Un tempo vi doveva essere scesa parecchia acqua: era evidente una colata calcitica a forma di dorso di balena punteggiata da numerose vaschette. Una zona attirò l’attenzione dello speleologo. Rispetto alle altre risultava completamente liscia come se qualcuno ci avesse dormito per lungo tempo. Vi si avvicinò. In prossimità della colata calcitica era stata scavata una vasca per raccogliere l’acqua che vi colava. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Ora tutto esulava le sue ricerche. Aveva raggiunto il suo scopo. Di quel luogo aveva letto in un vecchio libro. Vi si narrava la presenza di un eremita che in epoche remote era vissuto nella chiesa di Castrum Perti. Quello era certamente l’anfratto che aveva accolto il mistico per anni. Lo speleologo si distese nell’incavo calcareo sentendo il contatto con la nuda roccia. Chiuse gli occhi. Nel silenzio sentiva solo il battito del suo cuore. Lento. Cadenzato. Regolare. Pensò a se stesso, ma non vi riuscì. Milano, il lavoro, la sua donna. E ancora lo stipendio, la fatica di guadagnare. Tutto gli scivolò di dosso. Come un vestito. Si sentì galleggiare in acque calme dominate dal crepuscolo. Non si chiese dove fosse perché non aveva alcuna importanza. Una barca immaginaria guidata da uno sconosciuto nocchiero. Lui sopra. Intorno il nulla. Si sentì sempre più piccolo fino a diventare minuscolo. Forse stava morendo. O forse nascendo. In entrambi i casi non era importante, trattandosi di un passaggio da uno stato all’altro. Lo speleologo aveva sempre pensato alla morte così. Una semplice trasformazione. Come l’acqua che aveva eroso quel rifugio sotterraneo: piovuta dal cielo, infiltratasi nella roccia per raggiungere le profondità fino a una sorgente sotterranea. E poi il ciclo sarebbe ricominciato. Cielo, terra, mare. Un ciclo continuo, eterno. Tutto scorre, la vita scorre. E noi con essa.

    Capitolo III

    Sacro e profano

    Milano, venerdì 12 settembre 2008, ore 7.00 am.

    Alle sette della mattina aprii gli occhi svegliato da un energico calcio nel culo assestatomi dal prevosto più grosso che si fosse mai visto nella storia della curia milanese. Ero un assiduo frequentatore della chiesa di San Bernardino alle Ossa, ma mai prima di quel momento avevo avuto il dispiacere di incontrare un culturista travestito da seminarista. Di travestiti ne avevo incrociati molti sul mio cammino, ma mai nessuno così pregno di testosterone e di sermoni: un mix micidiale.

    – Pace e pene, fratello – biascicai tentando di mettere a fuoco l’uomo nero che per tutta risposta mi stava trascinando lungo la navata dell’ossario per sbattermi fuori.

    – Barboni di merda. Fate schifo! E puzzate d’alcool da fare venire il voltastomaco! – ringhiò il buttafuori della parrocchia propinandomi il suo anatema salutista e dimenticando ogni forma di creanza. Effettivamente avevo scolato una bottiglia di Campari per sostenere la riunione serale che era diventata notturna. Colpa del silenzio serrato del mio interlocutore e della minchiaggine dell’energumeno in sottana che all’ora di chiusura della chiesa non si era accorto della mia presenza. Il tutto era cominciato la sera prima. Dopo un’estenuante giornata trascorsa in galleria a risolvere alcune beghe precipitatemi addosso come guano riversato in caduta libera da un piccione incontinente, mi ero diretto verso il Verziere, il vecchio quartiere all’ombra della Madonnina, dove sorgeva la mia chiesa preferita. Avevo un bar preferito dove fare l’aperitivo: Princi di via Ponte Vetero. Avevo un aperitivo preferito: il Bitter Campari spruzzato di soda.

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