La luce e la tenebra
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Anteprima del libro
La luce e la tenebra - Carpegna Massimo
PERSONAGGI
Giovanni Calleri - clown Trippetta
Sofia - trapezista
Sissi - nipote di Calleri e acrobata
Cristina - trapezista, madre di Sissi
Libero Gualtieri - commissario di Polizia
Carlo Lovadina - il rapitore
Otto Riefenstall - domatore
Dimer Accardi - direttore del circo
Elke - cassiera, moglie di Otto
Jafar - illusionista
Amin - inserviente del circo
Elide - venditrice zucchero filato
Vittorio Lovadina - padre di Carlo
Steffani - comandante Polizia
Scognamiglio - assistente capo di Polizia
Matilde Giordano - sensitiva
Leo Masi - primario psichiatria
Dominique - trapezista, padre di Sissi
Giuseppe Maffai - ex maresciallo dell’Arma
Michela Sorvino - barista
Maria Addolorata - moglie di Scognamiglio
Cioni - responsabile Polizia Postale
Carboni - medico legale
Teofilo Ventura - scrittore, esperto grafologo
Grigolon - agente di Polizia
Santi - magistrato
Antonio Giancana - presidente tribunale
Arditti - commissario di Polizia
Draco Soloduhin - inserviente del circo
Abeeku - ladro
ANTEFATTO
«No, non dovete ammazzarlo subito. Non vi ho pagato per dargli una morte rapida e priva di dolore, ma per farlo soffrire. E a lungo!»
I due uomini afferrarono per le braccia il malcapitato e lo sbatterono con violenza contro la parete del garage facendolo svenire. Un fiotto di sangue imbrattò il bianco dell’intonaco e gli intrise i capelli, rendendoli compatti e appiccicosi.
Uno dei due, quello più robusto, lo rimise in piedi sollevandolo dalle ascelle e l’altro, sghignazzando eccitato, gli slacciò la cintura dei pantaloni e con un colpo secco lo denudò. Un paio di gambe bianche e scheletriche, tra le quali pendeva il membro flaccido, strappò una risata a chi aveva pagato per quello spettacolo.
«Ecco… Così… Fate provare anche a lui il piacere di essere stuprati. E poi uccidetelo!»
Il condannato fu messo in ginocchio con la faccia schiacciata a terra da uno scarpone militare, e nel momento in cui il suo corpo era profanato, riprese i sensi urlando per l’atrocità che subiva.
«Ti scongiuro… Perdonami…» implorò rivolgendosi a chi aveva ordinato quello scempio e, divertito, assisteva alla scena, seduto su una Guzzi America. Non ottenne alcuna risposta.
Fu il turno del carnefice più corpulento, mentre il primo cercava un cacciavite tra gli attrezzi appesi alla parete. Trovatolo in uno dei cassetti del bancone, e con la lama abbastanza lunga per lo scopo che aveva in mente, attese il momento in cui il compagno urlasse per il piacere e lo conficcò nel cranio della vittima, brandendolo a due mani.
CAPITOLO PRIMO
Giovedì 22 dicembre
Alcune luci, che circondavano il grande specchio rettangolare, non erano schermate dal bianco lattiginoso della lampadina e si mostravano piuttosto irritanti. Trovare un negozio d’articoli per la casa, in una delle città della tournée, non avrebbe rubato molto tempo, ma c’era sempre qualcosa di più urgente da fare. Così, il disegno della maschera inventata da Joseph Grimaldi continuava a essere difficile da eseguire, per colpa di quei punti luminosi e accecanti e di una vista che andava perdendosi.
Ogni giorno, salvo quando la carovana si metteva in viaggio, Giovanni Calleri si trasformava nel clown Trippetta, nome inventato dal direttore del circo per porre l’accento sul suo addome sporgente e renderlo motivo d’ilarità.
Mancavano ormai pochi minuti all’inizio dello spettacolo serale e Calleri aprì il cassetto del piccolo ripiano sotto lo specchio, iniziando a mettervi sopra il necessario per il trucco: le quattro scatole di cerone bianco, rosso, rosa e nero, la matita per gli occhi, la cipria, tre pennelli da trucco, il naso di plastica rossa e la gomma arabica. Calzò la cuffia aderente di un improbabile verde ospedaliero, che lo faceva rassomigliare più a uno strano legume che a un chirurgo, e attese di veder arrivare la nipote. Lei non rinunciava mai ad assistere al rito della sua trasformazione.
Come tutti i giorni, salvo quando la carovana si metteva in viaggio, lo sguardo si diresse verso alcune fotografie pizzicate tra lo specchio e la parete della roulotte. In quel poco spazio era raccontata la sua vita, il tempo della pienezza e della forza, il tempo in cui aveva un futuro da immaginare e costruire nel quale nulla era impossibile.
La foto più grande, in bianco e nero, lo ritraeva in costume da eroe greco, mentre serrava tra i denti una fune e trascinava un elefante indiano su un carrello. Ormai erano trascorsi molti anni da quando s’era spogliato degli abiti di Hercules, l’uomo più forte del mondo e, a quasi settant’anni, intratteneva i bambini vestendo i panni di un clown corpulento che, tuttavia, possedeva ancora un vigore straordinario. Quando il circo smontava il tendone per raggiungere un’altra città, toccavano ancora a lui i lavori più faticosi e tutti continuavano a domandarsi come riuscisse a trasportare otto inferriate della gabbia per le tigri, quattro per spalla e senza uno sforzo particolare, che pesavano non meno di cento chili.
Sotto la sua foto si trovava quella della bellissima Sofia, mentre volteggiava lanciata dal trapezio nel punto più alto del tendone. S’erano amati immediatamente e un anno dopo, in una piccola chiesa romanica, avevano celebrato il matrimonio, festeggiati da tutto il circo. Erano una coppia curiosa: lui, alto e gigantesco, e lei piccola e minuta, come una ragazzina dal viso sempre sorridente. Ricordavano John Nicholas Ringling, il proprietario del Circo Barnum degli anni d’oro, e l’esile Mable Burton, il suo grande amore. Al culmine del successo, l’impresario americano aveva fatto costruire a Sarasota un palazzo con più di trenta sale stracolme d’oggetti d’arte, soprattutto d’origine italiana, perché Mable Burton amava questi oggetti e trascorreva ore a osservare la Venezia di Giovanni Antonio Canal o i quadri di Gaspar van Wittel. Durante la Grande Depressione del ’29, Ringling non volle intaccare la collezione, perché ogni opera era stata acquistata per la sua Mable, prematuramente morta di cancro a cinquantaquattro anni. Riuscì a salvare il circo dalla bancarotta, ma morì solo e in miseria con 311 dollari in banca. Eppure, per continuare a vivere nel lusso, gli sarebbe bastato vendere un’opera di Tiziano o del Tintoretto, ma decise diversamente. Nel testamento, fece dono di tutto il patrimonio artistico, valutato circa duecento milioni di dollari dell’epoca, allo Stato della Florida, affinché conservasse le opere e, tramite esse, la memoria della sua Mable. La vita di Calleri non poteva paragonarsi a quella del celebre proprietario del Circo Americano, ma il suo amore per Sofia era stato ugualmente intenso e unico. Finalmente la porta della roulotte si spalancò e uno scricciolo vestito di rosso corse verso di lui. Calleri cercò d’assumere un’espressione burbera, pur sapendo che con quella cuffietta in testa sarebbe stata un’impresa ardua.
«Ma dov’eri finita?» chiese con tono di rimprovero e sforzandosi d’apparire severo.
Non credendogli affatto, la bimba gli regalò un sorriso disarmante e gli saltò al collo tempestandolo di baci. Calleri fece finta d’opporsi a quel tripudio d’affetto e si dispose ad ascoltare benevolmente la spiegazione della bambina.
«Ero andata a consolare Raja. Lo sai che ormai è quasi cieca?» si giustificò sgranando gli occhi scuri e assumendo un’espressione di grande sorpresa. Muovendo il capo, il clown segnalò d’essere a conoscenza di quella notizia.
«Lo so… Ma ricordati che è sempre una tigre e devi essere prudente. Basta una sua carezza, anche amichevole, per combinare un grosso guaio!»
Atteggiando il viso in un’espressione seria e adulta, la bambina approvò il consiglio e prese uno sgabello, sedendosi accanto al nonno. Appoggiando il viso sulle mani poste a coppa, si mise a osservare attentamente e in silenzio la prima fase del trucco, anche se l’aveva già vista mille volte. Dopo qualche istante, confidò ciò che la tormentava.
«Otto è molto preoccupato per questo fatto e lo sono anch’io! Che fine farà Raja, se non potrà più lavorare?»
Il clown si voltò verso di lei e l’accarezzò dolcemente, ricordando quanto la bambina avesse sofferto il giorno in cui Iris, una cavalla lipizzana, era stata venduta al macello. Per giorni aveva continuato a ripetergli che negli occhi grandi e scuri dell’animale aveva visto la consapevolezza della condanna, vissuta con lo stupore di un’ingiustizia inattesa. Decise di rassicurarla.
«Quando non potrà più lavorare, andrà in pensione e rimarrà nella gabbia, ma Otto ha ragione a essere preoccupato. L’anno scorso ha perso Sultano e ora… Se continua così, fra non molto toccherà a lui saltare nel cerchio infuocato!» concluse scherzosamente, per allontanare in modo definitivo qualsiasi nube.
Immaginando la scena del domatore, che in quanto a stazza nulla aveva da invidiare a Calleri, la bambina iniziò a ridere coprendosi la bocca con la mano e con un suono che, a tratti, ricordava il grufolare dei maialini.
«Ci rimarrà incastrato con quella pancia!» fu la sua conclusione, quando riuscì a interrompere quella sorta di singhiozzo ripetuto e nasale.
«Eh sì!» confermò Calleri. «È spessa quasi quanto la mia. Auguriamo a Raja di vivere ancora a lungo, altrimenti Otto dovrà mettersi a dieta e far sparire questa!»
Con gesto plateale, il clown afferrò lo strato di grasso che l’avvolgeva, dove un tempo spiccavano gli addominali, e iniziò a scuotere vigorosamente quella ciambella, conseguenza del troppo cibo. Poi, repentinamente, cambiò discorso e affrontò l’argomento che certo non sarebbe piaciuto alla bambina.
«Che cosa devi studiare per domani? Matematica?»
Anche Sissi mutò espressione all’istante, innalzando un sopracciglio e abbozzando un sorriso tra l’ironico e la meraviglia.
«Ma nonno: domani è il ventitrè dicembre!» Improvvisamente assorto, il clown ripeté quella data.
«Il ventitrè dicembre…»
Il tempo, considerò, si svolgeva ormai in modo troppo rapido, come se la vita precipitasse verso la fine. Un altro granello di sabbia era caduto nell’ampolla della clessidra, non rivelando quanti altri ne restavano. Cacciò via quel pensiero e, spalancando gli occhi, tentò d’esibire entusiasmo per ciò che voleva proporre.
«Allora potremmo fare uno dei nostri giretti!»
Sissi batté le mani e iniziò a saltellare con lo stesso ritmo. Il circo era un bel posto dove vivere, ma fuori c’erano tante cose da vedere!
«Dove andiamo?» domandò eccitata.
«Potremmo visitare il Palazzo Ducale. Dimer, che l’ha visto lo scorso anno, mi ha detto che è bellissimo e con centinaia di sale arredate magnificamente. Una di esse è rivestita d’oro zecchino e vi si svolgevano feste con principesse e cavalieri.»
Calleri credeva ancora che la fantasia dei bambini s’accendesse alle storie della sua infanzia, alle leggende di draghi e streghe cattive, di damigelle da salvare e nobili guerrieri, dimenticando che i mezzi di comunicazione, con i suoi eroi moderni e cinici, avevano spazzato via quel mondo incantato.
Arricciando il naso, Sissi segnalò che quell’idea non l’appassionava quanto una passeggiata nel centro della città a guardare le vetrine che, nel periodo natalizio, si offrivano colme di luci e addobbi.
«Preferirei quei negozi con tantissime bambole…» suggerì timidamente.
Il clown non poteva darle torto: una rivendita di giocattoli era sicuramente più interessante di un palazzo storico.
«Ci penserò. Ora lasciami finire il trucco e vai all’ingresso del circo. Lo spettacolo inizierà fra poco» le disse immergendo due dita nel cerone bianco e tornando a guardarsi allo specchio.
Con il viso imbronciato ad arte e lo sguardo diretto al pavimento, la bambina s’avviò lentamente verso l’uscita, ma fu fermata dalla voce del nonno, così come s’attendeva e sperava.
«Va bene!» sbottò il clown. «Ti porterò a vedere i giocattoli. Ma la prossima volta non riuscirai a farmi fare quello che vuoi tu!»
Sissi si voltò di scatto, rivolgendogli un largo sorriso con qualche spazio vuoto tra i piccoli denti, e Calleri glielo restituì, pensando che mai sarebbe riuscito a mantenere i suoi propositi. Nello stesso istante, Dimer bussò alla porta con tre colpi decisi. Indossando la stessa giacca della bambina, sopra un paio di pantaloni da cavallerizzo bianchi e aderenti, il direttore del circo fece qualche passo all’interno della roulotte e si arrestò al centro di essa, appoggiando la mano sinistra sul fianco, simile ad una teiera.
«Non sei ancora pronto! Sbrigati Giovanni e tu – apostrofò Sissi con un tono forse troppo deciso – corri all’ingresso: fra poco arriverà il pubblico e ci sono i cuscini da offrire!»
Il direttore aveva lavorato per le due grandi famiglie circensi italiane e s’attendeva sempre una folla immensa a gremire la platea e le gradinate cosa che, in verità, accadeva assai raramente. Governava i vari numeri con polso e la precisione di un orologiaio svizzero ed esigeva sempre il massimo impegno. Ci fosse anche un solo spettatore – ripeteva ogni volta – quella persona ha pagato il biglietto e noi abbiamo il dovere di stupirlo e di farlo divertire.
Salutando il nonno con un cenno della mano, che lasciava intendere quanto fosse contenta d’abbandonare il campo, Sissi sgattaiolò fuori e Dimer si avvicinò al clown per tentare ancora una volta di convincerlo su quella che riteneva una necessità ormai irrinunciabile.
«Ho notato che fai sempre più fatica a lanciarla in aria a chiusura del numero» attaccò impensierito.
Come se quel commento non lo turbasse affatto, Calleri proseguì a imbiancarsi il viso.
«È naturale» gli rispose. «Lei cresce mentre io invecchio e la mia forza svanisce.»
Dimer posò il cappello vicino alle scatole del trucco e assunse un atteggiamento serio.
«Che ne diresti se iniziasse a fare qualche semplice esercizio al trapezio? È nata per volare e gioverebbe allo spettacolo: ormai sono tre anni che ripetiamo gli stessi numeri e non possiamo permetterci il lusso di un nuovo acquisto.»
Trafiggendolo con lo sguardo, il clown smise di truccarsi.
«Te l’ho già detto: ho perso una figlia sul trapezio e Sissi non vi salirà mai! Hai capito? MAI!»
La voce di Calleri aveva assunto un tono che non lasciava spazio a trattative e Dimer, sollevando le mani nel gesto di resa immediata e facendo un passo indietro, cambiò discorso. Il clown era un pezzo di pane, ma non era consigliabile farlo arrabbiare.
«Va bene… Inventeremo un nuovo numero: ho già qualche cosa in mente… Ora preparati» lo salutò, guadagnando l’uscita e indicandogli per l’ultima volta l’orologio.
Calleri restò ancora alcuni istanti a fissare il fondo della roulotte, pensieroso. Sissi era fatta per volare: possedeva una struttura leggera e al contempo forte, ereditata dalla madre, e tante volte l’aveva sorpresa a esercitarsi di nascosto al trapezio.
Guardò le fotografie della figlia Cristina, mentre eseguiva il triplo salto mortale senza rete. Un giorno, non afferrò le mani del compagno e precipitò sulla pista, agitandosi disperatamente nell’inutile tentativo d’evitare lo schianto.
Chiuse gli occhi per non rivedere quella scena agghiacciante, e poi tornò a volgerli allo specchio, al viso graffiato da mille rughe che testimoniavano la fatica di vivere. Pochi fortunati hanno l’occasione di vestire i panni dell’eroe per un solo giorno e di riceverne il giusto plauso; ai più, tocca esserlo tutti i giorni e nel silenzio.
Immerse nuovamente l’indice nella scatola metallica del cerone bianco e ancora una volta si trasformò in Trippetta, il clown ciccione dalla forza straordinaria. Doveva sbrigarsi: il pubblico stava per arrivare.
CAPITOLO SECONDO
Stesso giorno
«Platea, settore centrale.»
«Quanti?»
«Uno.»
«Uno solo?»
«Sì.»
«Ecco a lei e buon divertimento!»
Elke, la cassiera, fu sorpresa nel vedere un uomo da solo: il Circo è per tradizione un luogo di divertimento per famiglie. Lo seguì con lo sguardo per alcuni istanti, notandone il portamento signorile e l’eleganza dell’abbigliamento. Immaginò fosse un professionista arrivato in città per lavoro o per chissà quale ragione, senza impegni e progetti per il pomeriggio. La richiesta di tre ingressi, da parte di una mamma serafica e pressata da due ragazzini scalmanati, interruppe le sue considerazioni per ricondurla a quei piccoli rettangoli di carta colorata che doveva consegnare. Le piaceva osservare le persone, provare a comprenderne il lavoro, la vita e alcune volte le sue intuizioni erano state corrette.
L’uomo s’avviò verso l’ingresso, dove alcuni inservienti, con la divisa in pannetto rosso e disposti su due file come soldati in parata, accompagnavano le persone al loro posto. Accogliendo tutti con un saluto di benvenuto e un sorriso, Sissi aveva l’incarico d’offrire loro dei cuscini – le panche d’alluminio erano piuttosto scomode – e Calleri stuzzicava l’appetito con il profumo del popcorn appena sfornato. Muovendosi tra le poltroncine, la mole del clown non poteva passare inosservata e attirava la curiosità dei bambini, invogliati dal fotografo ufficiale a farsi ritrarre accanto al gigante.
La musica registrata di una piccola orchestra di fiati suonava a tutto volume le classiche fanfare del circo, quelle che erano già conosciute ai tempi di John Nicholas Ringling, e Dimer, con un’ultima e rapida panoramica sui vari artisti nell’attesa d’entrare in pista, si preparò a dare inizio allo spettacolo. Dopo pochi istanti, diede l’ordine di aprire il sipario e un applauso liberatorio accompagnò l’ingresso dei giocolieri, dell’illusionista, dei contorsionisti, del domatore Otto con i cavalli lipizzani e, in chiusura, del clown Trippetta e Sissi. La sua voce, metallica e diffusa dagli altoparlanti, superò il frastuono della musica e degli applausi e annunciò l’inizio delle esibizioni con la tipica enfasi circense.
«Signore e signori, cari bambini, ecco la parata del circo con i suoi artisti e gli animali d’ogni parte del mondo! Accoglieteli con il vostro calore, con il vostro sorriso. Vi faranno divertire e stupire. Questo è il circo!»
Al centro della pista, e dritto come un generale in battaglia, Dimer nominava ogni artista e la sua specialità, indicandone anche la nazione d’origine, spesso inventata di sana pianta. Otto non aveva neppure visitato la Germania come turista, così come Jafar non era nato sulle rive del Gange. Entrambi avevano avuto i natali nel cuore della Romagna, poco distante da Rimini e mai avevano superato il confine dell’Italia.
Nonostante replicasse quel rito da più di trent’anni, per Dimer rappresentava sempre un’emozione intensa: era nato nel circo e viveva per esso. Non poteva immaginarsi in nessun altro luogo o con persone che non fossero gli amici con i quali aveva condiviso gran parte della vita e che ora salutavano il pubblico nelle loro divise sgargianti.
A dispetto dell’esplosione di suoni, luci e colori, l’uomo solitario seguiva distrattamente la processione di funamboli e animali e lo sguardo s’accese solo alla vista del gigantesco clown e della piccola acrobata, che chiudevano il corteo salutando il pubblico e lanciando caramelle. Quel viso minuto e infantile, nel quale già traspariva la bellezza della donna adulta, gli ricordò sua madre. L’aveva amata e poi implorata di non abbandonarlo per seguire un altro uomo. Nulla di terribile gli sarebbe accaduto, se non avesse deciso di ricostruirsi una vita altrove.
Evocando immagini d’avventure salgariane e le gesta di Tremal-Naik e Kammamuri, Dimer annunciò il primo numero: quello del Mago Jafar che riusciva a paralizzare coccodrilli e cobra con la potenza del fluido magnetico. A nessuno era chiaro come riuscisse a fermare i rettili dall’aspetto terribile e preistorico con le fauci spalancate, imponendo solo le mani. Probabilmente gli animali erano stati addestrati a immobilizzarsi quando assumeva una certa posizione, ma il mago restava un tipo strano, inquietante con quello sguardo acquoso che, tuttavia, sembrava penetrare la mente. Qualcuno degli inservienti, e in modo particolare l’egiziano Amin, credeva davvero nei suoi poteri straordinari. Jafar rispondeva sempre con ironia alle domande sui suoi numeri illusionistici e taceva su certe strane cantilene che a volte, e in piena notte, si diffondevano dalla sua roulotte. Nessuno aveva mai compreso se quel silenzio aveva lo scopo di celare un segreto o accrescere l’alone di mistero che circondava la sua figura. Amin era convinto che il mago sapesse chiamare i morti e comunicare con loro, ma non ne aveva mai avuto prova e tanto meno voleva averla.
A I misteri della jungla neradi Jafar, seguì la strabiliante performance dei contorsionisti e dei giocolieri. Ogni esercizio era preceduto dall’intervento del clown, che tentava d’imitare i vari artisti con risultati disastrosi e regolarmente era cacciato dal direttore dello spettacolo. Il suo ruolo era quella di mantenere l’attenzione del pubblico nei momenti in cui gli inservienti portavano via gli attrezzi del numero precedente e preparavano la pista per il successivo, così che lo spettacolo non presentasse mai pause e scorresse via veloce e appassionante.
L’uomo si domandava che fine avesse fatto la bambina che accompagnava il gigante e, quando vide il clown entrare in pista reggendo un bauletto abbastanza grande da poterla contenere, intuì cosa sarebbe accaduto.
Preceduto da alcuni inservienti, che subito si misero a montare la gabbia, Dimer annunciò il numero che anticipava quello di Otto e le sue tigri, prima dell’intervallo.
«E ora, cari bambini, il clown Trippetta e la bambola Sissi: una ballerina dispettosa e strabiliante!»
Il pubblico accolse l’annuncio con un applauso di benvenuto e il clown, incrociando le gambe e distendendo gli ampi pantaloni, ringraziò con un doppio inchino. Posò a terra il baule colorato, lo aprì e dal bordo s’affacciò una bimba con le trecce, il viso imbiancato e due pomelli rossi e perfettamente tondi sulle guance, uguale alle bambole di pezza del Settecento con il volto in porcellana.
Sollevandola delicatamente, la mise a sedere sul coperchio richiuso. Indossava un vestito con tanti piccoli fiori colorati, come quei tessuti caratteristici della Provenza, ed era veramente deliziosa. Lo sguardo di tutti era per lei.
Il numero iniziò con il clown che s’adoperava per mantenerla con il busto eretto, ma la bambola si piegava sempre su se stessa e rotolava sulla pista, drizzandosi in piedi alla fine della corsa. I bambini ridevano a ogni azione e ancor più quando Trippetta la sedeva sul baule, le afferrava le gambe per piegarle e queste, inspiegabilmente e improvvisamente, si tendevano, colpendolo sulla fronte e facendolo ruzzolare a terra. Ogni volta che il clown era percosso, il colpo era enfatizzato dalla grancassa e dai piatti, con quella tecnica di sottolineatura musicale così cara a Walt Disney che, proprio dal circo, l’aveva appresa e voluta nei suoi cartoon.
Intanto, gli inservienti proseguivano nel montare la gabbia di protezione per il numero delle tigri, sotto l’occhio vigile di Otto che controllava la saldezza delle inferriate agganciate l’una all’altra.
Stanco dei lazzi subiti, il clown decise di richiudere la bambola nel baule, ma Sissi, come per magia, iniziò a compiere semplici passi di danza al suono di un carillon. Rapito da quei movimenti aggraziati, Trippetta tentò d’imitare la bambola, ma con risultati esilaranti. I bambini lo seguivano piroettare goffamente, sempre in bilico sull’inciampare e schiantarsi a terra, mentre Sissi era l’immagine dell’armonia, dell’eleganza e di una magica leggerezza.
Alcuni inservienti misero al centro della pista un tappeto elastico e la bambina iniziò a librarsi in alto, avvitandosi su se stessa. Trippetta la raggiunse e, afferrandola dopo l’ultimo salto, la lanciò ancora in aria e a una maggiore altezza, per aiutarla a compiere il triplo salto mortale che chiudeva il numero.
Uno. Due. Tre! Distendendo le braccia, il clown accompagnò la discesa della bambola sulla sabbia della pista, in coincidenza con l’aggancio dell’ultima inferriata. Dopo l’inchino di ringraziamento, Sissi scappò verso il sipario e il pubblico s’apprestò ad accogliere l’avanzare calmo, elegante e nel contempo minaccioso delle tigri, non accorgendosi assolutamente che Raja appoggiava il muso sulla coscia dell’animale che la precedeva, così da potersi muovere in quella che, ormai, era una semioscurità.
L’uomo solitario seguì con lo sguardo il correre della bambina, attratto da quel corpo acerbo, ma già così femminile e sensuale. Ne fu turbato e rapito.
Molte volte s’era domandato la ragione di quelle pulsioni che non dovevano appartenergli, non riuscendo mai a trovare una risposta che lo calmasse. Gli piacevano le donne, ma lo inquietavano e gli era impossibile avere una relazione con loro.
L’altro aspetto, che non sapeva spiegarsi nonostante le innumerevoli analisi introspettive e le decine di volumi letti sull’argomento, interessava l’attrazione sessuale, il desiderio morboso che spalancava la porta a un altro e spaventoso se stesso. In lui, a volte, si realizzava una netta separazione tra la luce e le tenebre e, nella ricerca di una spiegazione che lo rasserenasse, lo aveva affascinato l’interpretazione filosofica della Riforma Calvinista. Questa affermava che gli Uomini non compivano il male perché lo desideravano e lo sceglievano. Dio, nella sua imperscrutabile prescienza, a ciò li aveva predestinati e si serviva delle loro azioni per confondere i reprobi e rassicurare i virtuosi. Lui poteva essere uno strumento di Dio, scelto crudelmente per lastricare la sua vita di dolore e mostruosità. Sulla contrapposizione tra il Bene e il Male, tra la luce e le tenebre, aveva scritto una poesia in italiano e in inglese – amava leggere le opere del Bardo in lingua originale – nel tentativo di raccontarsi e di assolversi.
Governate dal secco schiocco di frusta, le tigri entrarono, ma lui non prestò attenzione al loro incedere maestoso e ferino: ancora turbato dalle movenze aggraziate e sensuali dell’acrobata bambina, il ricordo di un pomeriggio dei suoi 13 anni lo allontanò dal presente.
Era un giorno di metà luglio. L’aria appiccicosa toglieva il respiro e il sole non dava tregua in una città che pareva abbandonata. La scuola aveva chiuso i battenti da alcune settimane e quasi tutti i suoi compagni s’erano trasferiti al mare con le loro famiglie. Non era mai stato coinvolto in uno di quei gruppi numerosi di ragazzi che si radunavano nella Piazzetta delle Ova per decidere come trascorrere il sabato sera o la domenica pomeriggio, ma il termine delle lezioni gli sottraeva l’occasione di godere della loro compagnia e le giornate sprofondavano in una noia insopportabile. Un amico di famiglia e collega del padre, che sovente si occupava di lui, lo invitò a casa e gli propose di seguirlo in garage per vedere l’ultimo acquisto: la Guzzi America. Si sarebbero inerpicati lungo la collina, per provarne la tenuta di strada e trovare un po’ di refrigerio. Aveva sempre avuto la passione per le due ruote e con impazienza attendeva il compleanno successivo, che gli avrebbe regalato un Morini Corsaro.Guidandolo, non sarebbe stato più considerato il figlio impacciato di Vittorio Lovadina, quello che non usciva mai di casa per non interrompere gli studi, ma che alle interrogazioni balbettava solo qualche risposta.
Arrivati nei pressi dell’abitazione, e seguendo un piano già sperimentato altre volte con successo, gli aveva chiesto di restare nascosto dietro un grosso platano, accampando la scusa che in quella zona i vicini non gradivano la presenza d’estranei e, dopo aver aperto la porta nella bascula del garage e controllato che non ci fosse nessuno nei paraggi, gli aveva fatto segno di raggiungerlo rapidamente. Aveva così superato di corsa lo stretto passaggio, sicuro di trovarsi davanti la sagoma imponente della motocicletta con il serbatoio a goccia, il grosso faro centrale e il parabrezza di plastica trasparente. Non aveva assolutamente percepito il pericolo che l’aspettava, mentre la porta del garage si richiudeva alle sue spalle, imprigionandolo.
L’uomo aveva giustificato l’assenza della Guzzi dicendogli che l’aveva parcheggiata nel cortile, pronta per la loro escursione in collina, ma prima voleva mostrargli qualcosa di diverso. Guardando sorpreso gli occhi lucidi e l’espressione eccitata di quell’amico del padre, che gli parlava con un tono strano e sussurrato, aveva compreso d’essere in pericolo, in una situazione a lui sconosciuta e dalla quale non sapeva cosa attendersi e come sottrarsi.
Dal cassetto di una scrivania, l’uomo estrasse alcune foto che ritraevano adolescenti durante approcci sessuali. La presenza nell’inquadratura di fogliame e di soggetti non sempre a fuoco, forse ripresi da lontano e furtivamente, rivelava che probabilmente era stato lui stesso a scattare quelle foto, sorprendendo i ragazzi che, nella boscaglia della collina, cercavano un riparo da occhi indiscreti. La paura l’aveva ormai completamente paralizzato, al pari di quei veleni che aggrediscono il sistema nervoso e consentono ad alcuni serpenti di divorare le loro vittime ancora vive, ma incapaci di reagire. Il cuore pulsava all’impazzata, assordandolo. Non aveva una goccia di saliva in bocca e la lingua, spessa e ruvida, s’era incollata al palato, imprigionata e impedita di svolgersi nel più piccolo fremito.
Vide l’uomo, in preda a un impulso incontrollabile, abbassare la cerniera dei pantaloni e mostrargli un membro gonfio e turgido, che iniziò ad accarezzare con un vigore sempre maggiore e accompagnando quel gesto con gemiti di piacere. Dopo averlo toccato nelle parti