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Domani gli uccellini canteranno
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E-book308 pagine3 ore

Domani gli uccellini canteranno

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Info su questo ebook

Una storia strampalata, gioiosa e irresistibile

Dopo la morte contemporanea in un incidente stradale di tutti e nove i suoi familiari, mentre erano in viaggio per assistere a suo esame di laurea, Mirko eredita una gruzzolo notevole. Rimasto completamente solo e incapace di adeguarsi alle regole non scritte della convivenza sociale, decide di non lasciare l'impiego nella libreria-edicola in cui lavora e di vivere di un magro stipendio, nonostante Vanni, avvocato di famiglia nonché esecutore testamentario, insista in ogni modo per spingerlo a investire l'eredità, che con gli interessi ammonta ormai a quasi un milione di euro. Ma Mirko ha programmi diversi per quel denaro, e inoltre ha strane abitudini. Ogni tanto si diverte a piantare bandierine della Sicilia negli escrementi di cane che trova per strada. Un'azione simbolica che, poiché siamo nel 2006, alla vigilia del G8 di Siracusa, attira su di lui le ire delle autorità e dei mass media locali. La vita di Mirko subisce però una svolta decisiva il giorno in cui, ritornando a casa, salva dal suicidio Andrea, che si rivelerà essere nientemeno che Mastro Ianni, guru internautico delle tecniche di seduzione. Fra clienti odiosi, messaggi lasciati nella segreteria telefonica di una delle sorelle morte, cani che si chiamano come attori impegnati, partecipazioni a seminari su come abbordare le ragazze e inseguimenti di polizia, una storia che si dipana, strampalata, gioiosa e irresistibile, sino al suo inevitabile finale.

L'autore
Stefano Amato vive a Siracusa, dove è nato nel 1977. Ha pubblicato racconti sulle riviste Linus, Fernandel e Maltese narrazioni, e su antologie edite da Zandegù e Diabasis. Ha tradotto i racconti del sito di "McSweeney's". Nel 2007 ha pubblicato il racconto lungo Soggetti del verbo perdere (VerbaVolant ed.). Insieme a Franz Krauspenhaar e a Fabio Genovesi ha scritto la Guida letteraria alla sopravvivenza in tempo di crisi (Transeuropa, 2009). A novembre del 2009 ha pubblicato per Transeuropa il suo romanzo d'esordio, Le sirene di Rotterdam (o di come ho sbaragliato i miei miti in XXIV round).
LinguaItaliano
EditoreNulla Die
Data di uscita7 lug 2011
ISBN9788897364078
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    Domani gli uccellini canteranno - Stefano Amato

    Stefano Amato

    Domani gli uccellini canteranno

    lego - narrativa 3 

    © 2011 – Nulla die di Massimiliano Giordano

    Via Libero Grassi, 10 - 94015 Piazza Armerina (En)

    www.nulladie.altervista.org

    www.nulladie.wordpress.com

    edizioninulladie@gmail.com 

    nulladie@altervista.org

    ISBN:978-88-97364-07-8

    Progetto grafico digitale: Ivan Tiziano

    In copertina: foto di Massimiliano Giordano

    I fatti e i personaggi del romanzo sono frutto della mia fantasia. Le idee e le opinioni di mastro Ianni sono un misto delle idee e delle opinioni di diversi dating couch realmente esistenti; troppi, per citarli tutti. Ma una menzione particolare merita sicuramente David Deangelo.

    A Claudia.

    9.991° giorno

    (15 aprile)

    Bandierine

    Il ragazzo si chiamava Mirko, e se ne andava in giro con un mucchio di bandierine nelle tasche del suo giubbetto da quattro soldi. Erano di quelle bandierine che di solito si usano per tenere insieme un tramezzino o guarnire un cocktail, ma che lui aveva modificato perché rispondessero alle sue esigenze. Se prima infatti riproducevano in piccolo le bandiere ufficiali di una dozzina di nazioni, adesso una diagonale divideva ognuna a metà, una gialla e l’altra rossa. Il centro era dominato dalla testa di una creatura che il ragazzo sapeva a malapena illustrare ai turisti quando glielo chiedevano nell’edicola/libreria dove lavorava. Era una figura mitologica singolare che, a fissarla più del dovuto, secondo Mirko assumeva un che di inquietante e apocalittico, come se si corresse il rischio di restare pietrificati — forse perché al posto dei capelli aveva delle serpi. Dalla sua testa spuntavano alcune spighe di grano e tre gambe tornite e piegate ad angolo retto, i cui piedi erano diretti verso i tre vertici di un triangolo equilatero ideale. Il nome della figura mitologica, questo Mirko lo sapeva, era Trinacria e da secoli era il simbolo informale — e da qualche anno quello ufficiale — dell’isola dove Mirko era nato e cresciuto.

    Ehi, eccoti qua.

    Il ragazzo si fermò accanto a una delle tante merde canine che affollavano le strade e i marciapiedi di Siracusa. In tasca, la sua mano sinistra passò in rassegna le aste appuntite. Non fu precipitoso però. Nonostante alle nove di sera i vicoli del centro storico fossero di solito poco frequentati, preferì aspettare qualche secondo appoggiato al muro accanto alla merda. Fu un bene, perché venne fuori che una coppia di mezza età lo stava seguendo a breve distanza. Attese paziente che i due svoltassero l’angolo. Poi, accertato che non ci fosse nessun altro in avvicinamento o affacciato alla finestra, tirò fuori una bandierina, si sedette sui talloni e la ficcò per metà della lunghezza nell’escremento.

    Il ragazzo notò con soddisfazione che non l’aveva sopravvalutata. Era fresca al punto giusto, deposta forse meno di un’ora prima. Questo voleva dire che, complice la temperatura mite, si sarebbe seccata lentamente, come una roccia intrusiva, incastonando al suo interno la bandierina che così non sarebbe volata via. E, cosa più importante, pensò Mirko allontanandosi di pochi passi, non sarebbe stato facile calciarla via per uno di quegli esaltati che lo sabotavano.

    Il ragazzo si portò al viso la Polaroid ereditata dalla madre buonanima che indossava a tracolla sotto al giubbetto, e scattò una foto della sbandierata.

    Erano i media locali a chiamare così le sue gesta, ma lui trovava quel termine inappropriato: le bandierine erano troppo piccole e di un cartoncino troppo spesso per potere realmente sbandierare.

    Nove giorni al G8

    Mirko andò a recuperare la bicicletta che quel pomeriggio aveva legato a un palo della luce vicino a piazza del Duomo. Indossò gli auricolari e, dopo avere scartato nell’ordine Combat rock dei Clash, Recipe for hate dei Bad religion e It’s alive dei Ramones, decise di ascoltare l’ultimo album dei Manges. Quindi salì in sella nel suo classico modo all’olandese — cioè prima spingendo la bici come un monopattino per poi, una volta raggiunta la velocità di crociera, saltare in sella — e cominciò a pedalare verso le Nazioni Unite, come lui chiamava il condominio adiacente alla stazione dei treni dove abitava.

    Procedendo nella tiepida sera di metà aprile, si chiese se la sbandierata appena fatta sarebbe finita sui quotidiani del giorno dopo. Era abbastanza tardi, il sito era nascosto, e poi c’era anche la possibilità concreta che uno spazzino annoiato e/o ostile ripulisse l’opera prima che un cittadino spinto dall’indignazione si sentisse in dovere di segnalarla alle autorità. Però mancavano pur sempre solo nove giorni al G8 per l’ambiente che quell’anno si sarebbe svolto a Siracusa, e le autorità, e non solo loro, sembravano in preda a una strana eccitazione. Come se volessero assicurarsi che il salotto buono della città — in quel caso l’isolotto di Ortigia, il centro storico di Siracusa — fosse in ottimo stato per ricevere degli ospiti illustri. E infatti strade che versavano in condizioni pietose da generazioni venivano riparate a tempo di record. I marciapiedi si allargavano a vista d’occhio. Una quantità abnorme di asfalto eruttata da chissà dove sembrava ricoprire gradualmente le vie principali della città come una glassa grigio scuro di provenienza aliena. No, dopo tutti questi sforzi il Comune non poteva permettersi il lusso di lasciare lo sbandieratore libero di operare. Per questo negli ultimi tempi i giornali e le televisioni locali, pressati dalla questura, facevano a gara a chi condannava più sbandierate. E per questo il ragazzo, pedalando verso ovest su quella bici da donna ereditata da una delle sue sorelle buonanima — la numero 3, se interessa — concluse che l’indomani la stampa avrebbe sicuramente riportato la sbandierata di poco prima, se non altro nell’edizione della sera.

    Domani

    Per strada Mirko decise di fare una sosta al molo Sant’Antonio. Lo faceva spesso dopo un pomeriggio pesante nell’edicola/libreria, o quando voleva parlare al telefono con la sorella morta. Gli piaceva quello che secondo lui era il posto più sottovalutato di Siracusa. Il molo si trovava infatti sul lato settentrionale del porto, da dove si godeva una vista eccezionale della città. La sera era quasi completamente al buio, e a parte qualche raro passante che portava in giro il proprio cane, per il resto era sempre deserto. Per questo Mirko quando era di un certo umore amava passarci del tempo. Appoggiava la bicicletta per terra e se ne stava seduto su uno degli ormeggi in disuso a contemplare la superficie del mare, ad ascoltare gli scampanellii delle imbarcazioni del porto, e a osservare la città che si estendeva di fronte a lui.

    La sera del suo 9.991° giorno di vita il piano era proprio questo. Quel pomeriggio due signore gli avevano fatto vedere i sorci verdi nell’edicola/libreria, e una sosta al molo in compagnia dei Manges sarebbe stato un ottimo calmante, prima di tornare alle Nazioni Unite. Solo che a quanto pareva qualcun altro aveva avuto la stessa idea. Nonostante il buio Mirko riuscì a mettere a fuoco, appollaiato sul suo ormeggio preferito, una figura maschile.

    Disse addio al programma calmante. Aveva già cominciato una svolta a U quando qualcosa in quell’uomo lo spinse a fermarsi. Nell’oscurità e da quella distanza — una cinquantina di metri — il ragazzo non poteva distinguere un granché, ma a quanto pareva il tizio, un biondo sulla trentina e dalla chioma fluente, aveva qualcosa in grembo, una sorta di scatola per scarpe. Mirko mise in pausa i Manges e si tolse gli auricolari.

    Ma che...?

    Il ragazzo realizzò che la scatola per scarpe era circondata da una fune, come il nastro in una delle confezioni natalizie che lui tanto odiava fare in negozio. Non solo: quella stessa fune risaliva verso l’alto fino a passare intorno al collo dell’uomo. Spingendo piano sui pedali si avvicinò quanto bastava a confermargli che quello che aveva scambiato per una scatola per scarpe era in realtà un mattone. La fune invece, pensò avanzando un altro po’, era senza dubbio il tratto di cima rimasto legato all’ormeggio da chissà quanti anni. Lo riconobbe perché lo aveva preso tante volte a calci, magari mentre cercava una ragione nell’odio insano che provava per la maggior parte dei clienti dell’edicola/libreria, oppure ripensava al sorprendente numero di lutti che caratterizzavano la sua storia personale.

    Il rumore del pignone della bici fece voltare l’uomo seduto sull’ormeggio. Aveva gli occhi lucidi e a Mirko ricordò l’attore inglese interprete dell’ultimo James Bond. Il ragazzo si accorse anche della bottiglia di vodka quasi vuota che sostava ai piedi dell’ormeggio, e si fermò.

    Che guardi? disse l’uomo, prima di tirare su col naso e tornare a fissare la superficie del mare.

    Il silenzio che seguì fu rotto da una risata di narici di Mirko. Il ragazzo se ne pentì immediatamente, ma non era colpa sua se trovava tutta la situazione a suo modo comica. Gli ricordava una scena di Luci della città, di Chaplin; quella in cui il miliardario ubriaco, per una ragione che al momento a Mirko sfuggiva, tentava il suicidio in quello stesso modo, con un mattone appeso al collo.

    Il tizio raccolse la bottiglia e prese un sorso di vodka, poi un altro più lungo, quindi gettò la bottiglia sull’asfalto senza però riuscire a romperla. Mirko vide il volto del biondo farsi ancora più torvo mentre sollevava il mattone e lo teneva in sospeso ad altezza del viso, pronto a scagliarlo nell’acqua che in quel lato del porto doveva essere, pensò il ragazzo, sui sette metri. La cima non sembrava più lunga di un paio di metri, quindi l’uomo non avrebbe avuto speranza.

    Con il volto arrossato dall’alcol e dalla fatica prolungata di reggere il mattone, l’uomo si voltò a guardare Mirko.

    Fermo, scappò detto al ragazzo.

    Con un sospiro, James Bond poggiò il mattone sulle sue cosce.

    Come?

    Ho detto ‘fermo’. Ma alle orecchie del ragazzo suonò più come una domanda rivolta a se stesso. Ho detto fermo?

    Il biondo ridacchiò e scosse la testa incredulo. Poi tornò serio.

    Vattene, disse, sollevando di nuovo il mattone all’altezza delle spalle.

    No, sul serio, dài, disse Mirko. Poggiò la bici sull’asfalto e fece un paio di passi in direzione dell’aspirante suicida. Adesso li dividevano cinque metri scarsi.

    Come ti chiami? chiese. Fu l’unica cosa che gli venne in mente di dire. Non aveva ancora capito se l’uomo facesse sul serio o se quella fosse solo una stranezza da ubriachi. Di sicuro c’era che il mattone gli sarebbe potuto cadere dalle mani in qualunque momento, e in quel caso addio James Bond.

    Andrea, perché? disse l’uomo con un grugnito.

    Dài, Andrea. Lascia perdere.

    Il biondo si limitò a fissarlo con quei suoi occhi azzurri e lucidi.

    Ah sì? Per quale motivo.

    Eh?

    Perché dovrei lasciare perdere?

    Mirko lo odiò per questo. Lo stava aiutando, non gli bastava? Fu tentato di andarsene e abbandonarlo al proprio destino, anche perché sapeva che lui una ragione, a livello razionale, anche volendo non sarebbe riuscito a trovarla. Questa era una delle cose che aveva imparato col tempo meditando sul giorno del Transit.

    Vuoi una ragione per non farlo?

    Andrea annuì. Per lo sforzo la sua faccia stava virando dal rosso al viola.

    Okay, disse Mirko avanzando un altro po’. Adesso era a un passo dall’uomo, poteva sentire il profumo costoso che lo circondava come un alone. Non farlo, perché...

    Sì? disse il biondo sporgendo di qualche centimetro il mattone verso l’acqua.

    Mirko ripensò a Luci della città.

    Perché domani gli uccellini canteranno.

    Il biondo lo fissò perplesso, mentre rimetteva il mattone al sicuro sulle sue gambe.

    E questo che accidenti vorrebbe dire?

    Mirko non ne aveva la più pallida idea. Quando aveva visto Chaplin dire la stessa cosa al miliardario per convincerlo a non suicidarsi, lui per primo si era chiesto perché mai uno dovrebbe rinunciare ad ammazzarsi al pensiero che il giorno dopo degli stupidi uccelli avrebbero cinguettato.

    Non sai neanche di che cosa parli, disse Andrea, e di colpo sollevò il mattone e lo lanciò in acqua.

    Merda. Il ragazzo si sporse a vedere il masso scavare un cratere sulla superficie del mare — PLLLOMMM — e cominciare la sua inesorabile discesa verso il fondo.

    Andrea però era ancora lì, accanto a lui, seduto sull’ormeggio. Stava osservando diradarsi la schiuma creata dalla caduta del masso come se la cosa non lo riguardasse minimamente. Mirko vide la cima pendere inerte dal collo dell’uomo, e spostò lo sguardo un paio di volte da lì all’acqua.

    Rilassati, bello, mormorò con voce da ubriaco Andrea. Tirò su la cima e mostrò al ragazzo l’estremità libera dal mattone. Sorpresa, aggiunse, ridacchiando.

    Mirko archiviò tutta la faccenda con un gesto insofferente della mano. Salì sulla bici e caricò una pedalata.

    Com’era quella cosa? gli chiese Andrea. Domani gli uccellacci canteranno?

    Sei ubriaco, disse il ragazzo.

    Devo ricordarmelo la prossima volta che uno dei miei studenti mi fa la lagna. Anzi. Andrea tirò su col naso e prese da una tasca della giacca scamosciata un taccuino e una penna stilografica. Scrivendo, mormorò: domani... gli uccellacci...

    Bah. Mirko si chiese cosa ci facesse ancora lì. Doveva dare da mangiare a Gianmariavolonté, il cane che abitava con lui. Premette sul pedale e si lasciò alle spalle Andrea che ancora scriveva — o tentava di, visto la sbronza — la frase di Chaplin.

    Ehi, aspetta.

    Il ragazzo frenò.

    Apprezzo molto quello che hai fatto, Mirko, biascicò James Bond fissando gli occhi socchiusi su un punto imprecisato fra la faccia e la spalla del ragazzo. Poi, barcollando, si avvicinò e trattenne la bici per il manubrio e il sellino. No, sul serio, tutta la faccenda degli uccellini che domani cantano eccetera eccetera è forte, complimenti.

    Senti, non...

    Aspetta.

    "E mollami," disse Mirko premendo sul petto di Andrea, che finì a sedere sull’asfalto.

    I due si scambiarono una lunga occhiata. Mirko caricò di nuovo la pedalata ma non si mosse. Andrea sembrava sul punto di dire qualcosa e lui aspettò che trovasse le parole per dirglielo.

    Di’, ce l’hai un posto per dormire, solo per stanotte?

    Non cosa, ma come

    Secondo il ragazzo, il lato positivo di possedere uno spettro limitato di emozioni da cui pescare è che spesso ci si ritrova ad assentire a richieste apparentemente insensate come quella di Andrea. Certo non subito. Mirko oppose un po’ di resistenza e cedette solo gradualmente prima ad accompagnarlo fuori dal molo, poi fino a casa sua, e solo dopo a concedergli di dormire sul suo divano.

    Che cosa intendevi prima quando hai detto ‘i miei studenti’? Cosa sei, un insegnante?

    Andrea si ravviò i capelli. Era più lucido adesso. Prima erano passati davanti a una fontanella, e dietro consiglio di Mirko aveva messo la testa sotto l’acqua.

    In un certo senso, rispose trascinando i piedi accanto a Mirko che intanto spingeva la sua bicicletta. "Ma io preferisco definirmi un consulente.

    "Mirko annuì.

    Ma in materia di donne, aggiunse Andrea.

    Il ragazzo gli chiese che cosa intendesse di preciso.

    Andrea si schiarì la gola. Alcuni tizi hanno un talento naturale con le ragazze. Altri un po’ meno. Be’, diciamo che io aiuto i secondi a diventare come i primi. Manca ancora molto a casa tua?

    Oltrepassata la stazione dei treni i due proseguirono per viale Ermocrate, una strada poco illuminata e dall’asfalto dissestato. Passarono davanti a un parcheggio dove un gruppo di prostitute di colore stavano bivaccando attorno a un fuoco. In quel momento si fermò una macchina, un’utilitaria giapponese. I due ragazzi a bordo abbassarono un finestrino e si misero a chiacchierare con le ragazze. Andrea li indicò e disse a Mirko che all’occorrenza aiutava gente del genere ad avere gratis quello per cui pagava.

    Quei disperati? Sei sicuro? chiese il ragazzo.

    Eccome. Tanto per cominciare basta presentarsi nel modo giusto.

    Nel dire questo, Andrea lanciò un’occhiata alle scarpe di tela e ai pantaloni lisi di Mirko. E non mi riferisco solo all’abbigliamento, si affrettò ad aggiungere con la voce ancora impastata dall’alcol. Ma anche all’igiene personale, alla cura del corpo eccetera. E poi ovviamente c’è dell’altro. Molto altro.

    Vuoi dire che tu sei uno di quelli che insegna alla gente, tipo, le frasi da dire per attraccare le ragazze eccetera?

    Andrea fece ondeggiare la testa ed emise uno strano gemito prima di dire: "più o meno. Il fatto è che al contrario di quello che pensano tutti non è importante ciò che dici, quanto come lo dici, non so se mi spiego. Ma per dire le cose nel modo giusto devi prima sistemare qualcosa che non va dentro di te. Ed è lì che di solito intervengo io. Il resto poi viene naturale. Di’ un po’, abiti fuori città?"

    Mirko disse che mancava poco, e gli chiese di fargli un esempio di quello che aveva appena detto. Il biondo all’inizio si rifiutò, disse che il suo metodo non funzionava così, ma alla fine cedette.

    Va bene, mettiamo che sei alla cassa di un negozio e la cassiera è molto carina, okay?

    A-ha.

    Tu paghi, e lei nel darti il resto fa cadere le monetine o qualcosa del genere. Sentiamo, tu che faresti in quel caso?

    Mirko non capiva che cosa c’entrassero le monetine con il saperci fare con le ragazze. Niente, disse. Le raccolgo. Che altro dovrei fare?

    Andrea scosse la testa. "Nossignore, se lei fa cadere le monetine — e ti piace — tu pianti un casino. Fai schioccare la lingua, sbuffi, ti lamenti. Ma ovviamente in modo divertente. Provocandola. Chiaro?"

    Mirko disse di sì. In realtà pensò che doveva avere sottovalutato la quantità di alcol che aveva ingerito l’altro."

    Nazioni Unite

    Benvenuto alle Nazioni Unite, disse Mirko quando a metà di via Ermocrate salirono i tre scalini che conducevano a un complesso condominiale. Questo era quasi completamente al buio, se si escludeva la luce proveniente dai lampioni che illuminavano i binari della stazione, con cui il complesso confinava alle spalle. Era formato da tre palazzine a due piani che avevano visto giorni migliori. L’intonaco era caduto lasciando scoperte intere facciate, i portoni erano arrugginiti, e l’amianto ricopriva ancora certe baracche che passavano per garage, almeno sugli annunci immobiliari.

    Andrea gli chiese il motivo di quel nome, Nazioni Unite, e Mirko glielo spiegò. Disse che a parte lui e pochi altri, la maggior parte degli inquilini del complesso erano stranieri. Sopra di lui per esempio abitavano i cinesi Chang. Nella palazzina di fronte, gli Starsky, polacchi. Accanto a loro vivevano gli Hopkins, due vecchi hyppie inglesi che non mettevano mai il naso fuori di casa. Mentre al piano terra della terza palazzina abitavano i Ravanomamana, scappati dallo Sri Lanka a causa della guerra civile.

    Credo perché sostenessero le Tigri Tamil, ma non ne sono sicuro.

    Sono animalisti, nel senso? chiese Andrea seguendo Mirko nel suo appartamento.

    Lungo il corridoio gli si avvicinò lentamente, scodinzolante, un cane di razza imprecisata. Il ragazzo lo accarezzò e disse: questo è Gianmariavolonté.

    Il cane accettò una dose di carezze anche da Andrea, mentre inseriva le scarpe dell’uomo nella sua memoria olfattiva.

    Mirko aveva pensato di fare dormire l’ospite sul divano di quello che passava per il soggiorno, ma un istante prima di lasciarlo entrare lo abbandonò in corridoio e si chiuse la porta alle spalle.

    Non preoccuparti per il disordine, disse Andrea attraverso la porta.

    Non era il disordine a preoccupare il ragazzo. In realtà temeva di avere lasciato in giro, quella mattina, qualcosa di compromettente. Perlustrò con lo sguardo il piccolo soggiorno, e infatti lo trovò. Sul divano faceva bella mostra di sé l’estratto conto della banca. Scorse velocemente le sei cifre in fondo al foglio, lo appallottolò e lo gettò nel cestino. Stava per fare entrare Andrea, ma ci ripensò. Recuperò l’estratto conto

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