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La mano nera della giustizia
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E-book234 pagine2 ore

La mano nera della giustizia

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Info su questo ebook

Torino, centro abitato dal fascino unico, dal sapore che oscilla tra la sobrietà e il lusso tipico della città ottocentesca, dove sono passati imperatori e nati regni, è oggi città d’arte malavitosa invasa da immigrati di ogni dove, divisa tra società criminali, bande e mafie, specialmente quella calabrese che con la sua fame inarrestabile sembra non voler lasciare più niente a nessuno. Nella bolgia totale garantisce un po’ di giustizia, a modo suo, uno sbirro spietato e corrotto intrappolato nelle sue dinamiche, tra i pochi che sa davvero in che verso girano le cose, Nazzareno Amendola. Una storia passata ormai da sette anni lo tormenta. Quando ormai sembra essersi rassegnato ecco che qualcosa inaspettatamente comincia a muoversi, si inizia a sentire nuovamente l’odore della verità, che in questo caso è tutt’altro che buono, tornano a galla fatti che puzzano di marcio e rischiano di trascinare il protagonista in un baratro senza via di ritorno.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2019
ISBN9788869632044
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    Anteprima del libro

    La mano nera della giustizia - Alessandro Carta

    PARTE

    Torino non è un luogo che si abbandona

    Friedrich Nietzsche

    Prologo

    L’atmosfera era torbida e l’aria che si respirava era asfissiante per lo smog. I due stavano seduti nella loro macchina, mentre chi stavano aspettando tardava a farsi vedere.

    L’impazienza si era trasformata in nervosismo. Cinque giorni al Nord e il sole non si era visto neanche per sbaglio, era stato inghiottito da quell’ammasso compatto di nuvoloni grigi che neppure il vento era riuscito a dissolvere.

    Il più vecchio picchiettava con le dita sul volante e annuiva con il capo mentre guardava lungo il viale assorto nei suoi pensieri. L’altro meno avanti con l’età tolse una bottiglietta in vetro con dentro della grappa. Avido, mandò giù un bel sorso e la faccia gli si contorse in una smorfia. Sentì il bruciore provocato dall’alcool. Poi un tuffo, un vuoto improvviso allo stomaco.

    Oh Benedè! Dobbiamo rimanere lucidi, metti via quella roba disse l’altro.

    "Ciccio, per questo imbecille siamo cca dall’altro ieri. Stamattina, stasera come due cugghjùni" disse Bendetto.

    Calma disse Ciccio.

    "Francè lo sai che ti puoi fidarema adesso ho i nervi come ‘nu picciuliddru¹" continuò Benedetto.

    Francesco Nisticò detto Ciccio continuava ad annuire finché le lamentele del suo compare, Benedetto De Luca, non si fecero pedanti.

    Stai zitto, per Dio! sbottò.

    Il ragazzo cambiò discorso "‘u Nìgru è con lui?"

    "Indovinasti cumpà, sappiamo che ‘u nìgru è con ‘u verme" rispose Ciccio.

    Calò il silenzio. Un fascio di luce fece breccia tra le nuvole andando a sbattere sulla vettura nera che aveva appena imboccato la discesa. Francesco la intravide.

    "Càppara²! Eccoli! In fondo alla strada! Anche il Signore è dalla nostra" esclamò.

    Benedetto guardò dritto in fondo alla via. La macchina si avvicinava con andatura normale alla loro posizione.

    Sbrighiamoci! esclamò il ragazzo che teneva già in mano la pistola.

    I due piombarono vicino all’A7 che faceva manovra per parcheggiare.

    De Luca bussò al finestrino. Abbassò il vetro un uomo di colore.

    "Crepa bastàrdu nigru!" il ragazzo esplose tre colpi verso l’autista, finendo il caricatore contro gli altri tre seduti dietro, uno era bianco, gli altri due, una donna e un uomo con la pelle nera.

    Si scatenò il panico in Corso Regio Parco. Quello sul posto del passeggero si catapultò fuori dall’abitacolo.

    "Dove scappi Gàdhu³? Imbroglione!" urlò Ciccio con un ghigno stampato in faccia.

    L’uomo completamente nel panico cercò di fuggire. Batteva i pugni sui portoni chiedendo aiuto.

    Alla fine tentò un ultimo ridicolo nascondiglio tra i cassonetti dell’immondizia.

    Nisticò lo raggiunse puntandogli l’arma contro.

    "Strùnzu! Abbòla⁴! Sei solo cìnnara⁵!"

    No! urlò con tutta l’aria che gli era rimasta nei polmoni.

    Il Killer non si fece intenerire, gli crivellò la testa con una scarica di proiettili fino a fargliela esplodere.

    Oh! Muoviti! gridò Benedetto che intanto aveva recuperato l’auto.

    Il suo compare entrò in fretta e furia. In lontananza si sentivano cantare le sirene delle forze dell’ordine.

    Veloce cazzo! I carabinieri! urlò Ciccio.


    ¹                                 Bambino.

    ²                                 Capperi, esclamazione.

    ³                                 Gallo.

    ⁴                                 Vola Via.

    ⁵                                 Cenere.

    Capitolo I

    Fissavo la punta delle mie scarpe. Poi guardai il cielo, si era coperto e aveva assunto una tonalità rossastra. Le nuvole si muovevano lente e c’era una cappa umida che faceva presagire l’arrivo della pioggia. Di certo era il gennaio più caldo dell’ultimo decennio. Con questo tempo non se ne capiva più nulla.

    Le lancette del mio orologio segnavano le sette di sera e i lampioni illuminavano Piazza Statuto a giorno. Il tizio con cui avevo appena finito di parlare era un ex spacciatore di cocaina originario di Sassari. Non era stato un appuntamento programmato, ma avevo avuto la necessità di alleggerirmi la coscienza.

    Quella testa di cazzo, dopo aver combinato un casino era scappato da Torino e si era rifugiato in Asia per qualche anno e adesso che le acque si erano calmate era riapparso come se nulla fosse.

    Camminavo senza una meta precisa.

    "Chissà cosa diavolo vuole" pensai dirigendomi verso i Portici di Via Garibaldi.

    Sentivo di essere arrivato al capolinea. La Disciplinare mi stava con il fiato sul collo da quasi due anni, la questione si era fatta fin troppo seria e probabilmente mi avrebbero buttato fuori dalla polizia. Sarebbe stata la ferita che mai si sarebbe rimarginata, perché io sapevo fare solo una cosa nella vita… il poliziotto.

    L’indomani mattina avrei dovuto incontrare il questore. Quella vecchia volpe mi odiava, definiva i miei metodi poco ortodossi.

    Accesi una sigaretta e lasciai cadere a terra il fiammifero. Avrei passato la sera al solito bar da Angelo, si trovava nel gruppo di vie strette e lastricate racchiuse nel Quadrilatero Romano, in via IV Marzo.

    Lì le case medievali racchiudevano una minuscola piazzetta, una delle zone più antiche. Il Castrum dell’antica città romana Augusta Taurinorum.

    Ciao Ispettore. Che ti servo? domandò Angelino.

    "Dammi una grappa della tua zona" risposi.

    Purtroppo ho finito l’ultima bottiglia ieri. Le altre arrivano domani.

    Allora un whisky.

    Subito! disse riempiendo un bicchiere.

    Era originario della Sicilia Angelo, da quello che mi aveva raccontato l’aveva visitata spesso da bambino. Orami era tanto che non ci andava. Si allontanò per servire due ragazzi. Visto di lato sembrava un foglio di Fabriano tanto era fine e lungo, con degli occhiali spessi tenuti ben fermi dal naso aquilino e dagli zigomi sporgenti. Aveva guance scavate e occhi incavati, se non fosse stato per quel sorriso sempre stampato in faccia, l’avrebbero rinchiuso al museo egizio come controfigura di una mummia.

    Stefano Chiogna mi raggiunse come al solito.

    Facevi prima a bere dalla bottiglia disse.

    Se bevi direttamente dalla bottiglia vuol dire che hai un problema dissi mandando giù tutto d’un fiato. Ero a stomaco vuoto e sentii il bruciore scendere fino in fondo allo stomaco.

    Domani hai l’incontro con Palermi ricordi?

    Certo, come potrei dimenticarlo?.

    Stefano era teso e iniziò a morsicarsi il labbro inferiore. Avrebbe voluto dire tante cose, ma in quel momento non gli venne in mente nulla d’intelligente. Aveva vinto il concorso da viceispettore quasi otto anni prima appena compiuti i ventisei, uno dei più giovani d’Italia a ricoprire quella carica. Era originario di Rovereto. Chiogna era uno di quegli uomini per cui le donne perdono sempre la testa.

    A trent’anni l’avevano trasferito a Torino e inserito nell’Antidroga. Era corrotto, come me aveva deciso che la vita da normale poliziotto era troppo noiosa per uno capace come lui.

    A giorni la giustizia ci avrebbe presentato il conto. Le nostre magagne avevano subito un duro colpo. Altri colleghi erano stati già arrestati o congedati. Non ero pronto per quello. Ero ubriaco. Decisi di prendere la macchina e andare a fare un giro. Pensavo al passato.

    Verso la metà degli anni cinquanta la mia famiglia si era trasferita da San Nazzaro Sesia, in provincia di Novara, a Torino. Ero nato e cresciuto a Mirafiori uno dei quartieri più noti d’Italia, proprio dove sorgeva il complesso FIAT. Negli anni Settanta, impiegava fino a settantamila lavoratori. La mia vecchia casa stava nella zona più a ridosso dell’impianto. Vicino c’era la parrocchia di San Luca, il vero cuore del quartiere.

    La parabola dell’industrializzazione aveva portato un flusso di migranti prima dal Nord Est poi dal Meridione. Le case sorgevano come funghi grazie al sistema di fabbricazione pesante copiato dalla Francia.

    Avevo rischiato di nascere in uno di quei capannoni. Mia madre mi raccontava di essere andata in fabbrica fino all’ultimo.

    Qui mi ero fatto le ossa. Vicino casa mia frequentavano bande di ragazzini che parlavano solo dialetti del Sud Italia. Allora non li capivo e ne avevo timore. Per tornare a casa correvo, loro sentivano la mia paura come fossero lupi, iniziavano a urlare e a sfottermi perché ero un codardo.

    Diventai uomo a quattordici anni. Non avevo mai fatto a botte con nessuno. Mi scontrai per puro caso con due baresi attaccabrighe, non ne potevo più delle loro prese in giro.

    Cosa vuoi terrone di merda?! domandai minaccioso.

    I due si guardarono stupiti. Io ero piemontese, per loro quelli del nord non avevano le palle.

    Non gli diedi il tempo di rispondere. Sferrai due pugni ben assestati a quello più vicino. Cadde in terra senza capire nulla. L’altro si avventò su di me. Rotolammo. Sentivo l’odore dell’asfalto e della polvere nelle narici. Avevo paura. Alla fine un vecchio signore torinese ci divise. Minacciava che avrebbe chiamato la polizia. Zio Luigi, era il fratello più grande di mia madre, era un vecchio pugile che mi aveva spiegato come fare, ma quella era stata la prima volta che mettevo in pratica i suoi insegnamenti. Tornato a casa livido mio padre mi diede il resto. I meridionali iniziarono a temermi. Loro facevano gruppo. Io picchiavo da solo. Il più delle volte le prendevo perché due braccia non potevano nulla contro dieci. Iniziai ad aspettarli uno per uno sotto casa. Li malmenavo prima che arrivassero in piazzetta. Decisero di stipulare una tregua. Capitava anche che mi fermassi a ridere e scherzare con loro. Non ci diventai amico. Il loro modo di fare non mi piaceva. Non mi apparteneva. Altri tempi quelli.

    Dal Sud, arrivavano pure le mele marce, ma erano comunque italiani e i panni sporchi si lavavano in casa.

    A sedici anni diventai amico per la pelle del mio vicino di banco. Gonario Puledda. Era sardo. Il padre aveva trovato lavoro alla FIAT. Si erano trasferiti a Mirafiori con tutta la famiglia. Nove figli. Era un tipo taciturno, timido. Si lasciava andare solo dopo una buona dose di alcool. Io ancora non avevo mai bevuto neanche una birra. Con lui iniziai a fumare le prime sigarette. Le rubavamo al padre assieme ai fiammiferi.

    I sardi li percepivo diversi dagli altri. Non mischiavano il dialetto con l’italiano. La cosa che più mi aveva colpito era la loro semplicità. Il loro tener fede alla parola data. La loro ospitalità. Non c’era quella diffidenza dei paesini alpini. Duri ma allo stesso tempo buoni. Veri. Un popolo fermo in un’epoca sospesa tra passato e presente.

    Maria fu il mio primo amore. La sorella di Gonario, un anno più grande di noi, la ragazza a cui diedi il mio primo bacio. Era bella, lineamenti tipicamente mediterranei, spensierata e affascinante come l’isola dov’era nata.

    Quella sera rise quando le confidai che non avevo mai visto il mare. Qualche giorno dopo facemmo vela a scuola. La mattina presto, prendemmo il treno che da Torino portava a Monterosso sul mare.

    Appena fummo sulla spiaggia mi misi a piangere dall’emozione. Lo ricordo come se fosse ieri. La prima volta che vidi quella grande distesa di acqua blu. Maria mi abbracciò accarezzandomi il viso. Quando mi fui calmato disse che le mancava il paese dov’era nata, Dorgali, sulla collina a ridosso del mare. Tornammo la notte con l’ultimo treno, fummo scoperti, ma ne valse la pena.

    I mafiosi fanno quello che vogliono in questa città. Potremmo fare lo stesso disse Gonario posando una Beretta proprio davanti a me.

    Chi te l’ha data? domandai impaurito.

    Non importa. Domani rapiniamo la farmacia di via Mancuso. Poi torniamo a Mirafiori. Un gioco da ragazzi. disse sorridendo.

    Market, tabaccai e piccoli esercizi. Studiavamo alla perfezione come dovevamo fare.

    Per due anni tutto filò liscio. Ci spingevamo anche fuori Torino nei paesi limitrofi. Riempivamo le nostre tasche di danaro. Frequentavamo locali notturni. Facevamo la bella vita.

    Quella sera di agosto toccò a un distributore di benzina. Facemmo male i calcoli. L’uomo non si fece intimorire e tolse la pistola. Non so neanche come, feci partire un colpo. Lo raggiunse alla spalla. Il sardo gli sparò in pieno petto. Sfrecciammo via sulla moto rubata. Ci nascondemmo in una vecchia casetta vicino al complesso FIAT. Andavamo spesso lì, era il nostro rifugio.

    L’abbiamo ammazzato! urlai iniziando a piangere.

    Gonario stava zitto. Ci ubriacammo. Mi ripromisi che non avrei più fatto sciocchezze. L’uomo non morì, ma rimase invalido a vita.

    Mia madre si ammalò. Il cancro se la portò via nel giro di un anno. Mio padre era depresso. Il mattino lavoro, il resto della giornata beveva o dormiva. Non faceva differenza. Un giorno trovò la Beretta che mi aveva regalato il sardo. Voleva colpirmi ma gli fermai le mani. Avevo le lacrime agli occhi. Giurai che mi sarei arruolato e avrei cambiato vita.

    Con Maria facemmo l’amore prima che partissi. Rimanemmo a lungo abbracciati senza vestiti accarezzandoci, il mio sesso poggiato contro il suo.

    Quell’anno morì anche il padre di Gonario. La madre decise di tornare in Sardegna. Non rividi più nessuno di loro, neanche Maria. Non l’ho mai dimenticata.

    Nell’81 avevo ventuno anni, avevo già fatto il servizio di leva decisi di arruolarmi nella folgore, guarnigione di Livorno. Diventai amico per la pelle di Franco Cavallaro. Un veneto sulle sue, ma con un cuore grande e soprattutto una persona di parola. Dopo due anni in Libano tornammo cambiati. La guerra in quell’inferno mi aveva segnato nel profondo. Urla, spari, violenza insensata e morte. Tra i militari reduci da una missione si era diffuso il disturbo post-traumatico da stress. Così l’aveva chiamato lo psicologo da cui ero andato per qualche tempo. Tanti ne soffrivano mi aveva spiegato. I motivi erano diversi: aver assistito ad eventi agghiaccianti o aver rischiato la vita. Mi disse che ne ero affetto. Mi fece capire l’importanza di sciogliere i nodi scaturiti dalla sindrome che con il passare del tempo avrebbero potuto portarmi ad assumere comportamenti omicidi o alla follia. Riconobbi i problemi e ne parlammo apertamente, ma quando arrivai al punto di dover raccontare tutto al maresciallo capo che avrebbe riferito le mie parole allo Stato Maggiore, con conseguente congedo perché non più idoneo alla detenzione e uso di armi, smisi le sedute di analisi. Tenni tutto dentro, chiusi quel capitolo e decisi di entrare nella Polizia di Stato. Venne preso anche Franco.

    Insieme fino alla fine! esclamò il mio amico guardandomi negli occhi.

    Affiancò il suo avambraccio destro al mio e ci scambiammo una reciproca stretta al di sopra del polso, dopo aver appreso che saremmo diventati entrambi poliziotti. In realtà queste minchiate pseudofasciste poco mi importavano, ma lui era diverso.

    Insieme facemmo carriera abbastanza in fretta. I successivi problemi con la Disciplinare non mi consentirono di accedere al concorso interno per diventare commissario.

    Aprii gli occhi di colpo. Era ancora notte. Il peso dei ricordi

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