GOL! (ovvero quando un numero faceva il giocatore)
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Anteprima del libro
GOL! (ovvero quando un numero faceva il giocatore) - Diego Trentini
1.
Il portiere raccolse la sfera tra le mani, senza troppa difficoltà: il tiro era debole, fiacco, lasco, senza pretese, come il centravanti della squadra avversaria. Ci voleva ben altro per spaventare un pezzo di marcantonio da un metro e novanta per cento chili abbondanti...
Prima di dirigere il pallone verso un compagno o calciarlo il più lontano possibile dalla sua porta, cioè il più vicino possibile a quella dell’omologo antagonista, il portiere lo accarezzò, inconsciamente sedotto dalla sua (del pallone) perfetta sfericità. Gli ricordavano (il pallone e la relativa sfericità) le tette rifatte che aveva manipolato la sera prima: stessa consistenza, stessa grandezza – o giù di lì –, quasi stessa forma, sicuramente stesso materiale e manodopera sottopagata.
La giornata era fresca e soleggiata, ideale per maltrattare un oggetto di plastica – i tempi del cuoio erano ormai un vago ricordo – in compagnia. Voleva godersi l’attimo di indefinito piacere dato dalla consapevolezza di trovarsi in situazioni climatiche ottimali e nel pieno possesso dell’oggetto del desiderio. Non poteva sapere se, quella domenica, avrebbe ancora avuto la possibilità di maneggiare con serenità quell’ideale di perfezione. Forse, la volta successiva, l’avrebbe raccolto nella rete, in fondo al sacco, eventualità che lo rendeva sempre piuttosto triste. Bisognava dunque gioire al massimo per quel momento irripetibile: un inno alla gioia che i compagni non potevano capire, o che, al massimo, riusciva a cogliere solo il giocatore che segnava un gol – ma non era proprio la stessa cosa, a dire il vero.
La solitudine impareggiabile del numero 1. Quando tutti si affaccendavano nella rincorsa e/o conquista della sfera perfetta, lui, di solito, se non era direttamente chiamato in causa, osservava, analizzava, studiava, ponderava, interpretava, a volte prevedeva gli avvenimenti – avvenimenti che sembravano indifferenti alla sua presenza. L’osservatore onnisciente. Vedeva dipanarsi le trame di gioco, le geometrie, le arcane relazioni fra gli individui. E lui giudicava, dall’alto e dalla lontananza della sua posizione privilegiata. Era, se così si poteva azzardare con un certo platonismo di seconda mano, una specie di demiurgo il quale metteva in moto un movimento che poi si autoregolava; oppure, con un certo sartrismo spurio, una fusione inattingibile di soggetto e oggetto, io e altro, utopia esistenziale pura.
Il numero 1 inspirava ed espirava profondamente, svuotando testa e polmoni da ogni pensiero negativo: la crisi economica, la cassa integrazione, l’imminente divorzio e il conseguente dolore dei figli – in rigorosa successione. Fuori tutto, con l’anidride carbonica. Fuori quei bastardi che avevano innescato la crisi planetaria e che ora magari si bevevano un Martini alla facciazza sua. Fuori i politici che pensavano solo ai cazzi (mosci) loro. Fuori quella troia della moglie, che avrebbe dovuto bere molti Martini fino ad affogare con qualcuno di quei bastardi che avevano provocato la crisi economica. Fuori i perché?
delle prime vittime di tutta questa assurda e fin troppo normale situazione: i bambini. E fuori pure tutti i sensi di colpa, archiviati, attuali e potenziali.
Ancora qualche attimo di impagabile vuoto mentale e poi avrebbe deciso se passare il pallone al terzino sinistro o destro, oppure direttamente al centravanti.
Diede un’occhiata al terzino destro, il numero 2, il quale sembrava, come al solito, svanito, disattento alle dinamiche del gioco e assorto in profondi onanismi. Non era il caso di consegnargli il pallone, l’avrebbe perso di certo, aggravando la sua naturale prostrazione. Osservò poi i due centrali difensivi, ma, considerata la scabrosità dei loro piedi, sarebbe stato opportuno non chiamarli in causa – i due erano competenti solo nella scorticatura degli stinchi nemici. Il terzino sinistro invece, podalicamente nobile, era meglio predisposto a ricevere in consegna il testimone del potere, anzi aveva l’aria di non aspettare altro, come se fosse scontato o addirittura obbligatorio cominciare l’azione dai suoi piedi, o meglio, dal suo mancino – il destro non lo usava neppure per salire sull’autobus, come si usava dire fra gli addetti ai lavori con un topos logoro.
Prima di indirizzare la sfera perfetta alla sua sinistra, il portiere si voltò a destra, un po’ controvento, dalla parte degli spettatori. Si irrigidì in una posa plastica, come a voler mostrare che lui era il detentore dello scettro e loro avrebbero dovuto sottomettersi. Il pubblico era in realtà indifferente alle velleità leviataniche e, anzi, sembrava indispettito dalla teatralità del