Che cos'è l'illuminismo
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Accanto ai testi, il libro propone un ampio corredo di apparati, con schede biografiche degli autori e un glossario delle parole chiave.
Nicolao Merker (Trento, 26 marzo 1931 – Roma, 14 febbraio 2016) professore emerito di Storia della filosofia alla Sapienza Università di Roma. Ha curato edizioni italiane di classici dell’età della Riforma, dell’illuminismo e dell’idealismo tedeschi, nonché di Marx, Engels e dell’austromarxismo. Tra le sue opere ricordiamo: L’illuminismo tedesco. Età di Lessing (Bari 1974), Storia della filosofia in tre volumi (Roma 1982, La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar (Roma 1990 e 2016), nonché le ultime pubblicazioni: Il sangue e la terra. Due secoli di idee sulla nazione (Roma 2001), Atlante storico della filosofia (Roma 2004), Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà (Roma 2006), Filosofie del populismo (Roma-Bari 2009), Karl Marx. Vita e opere (Roma-Bari 2010), Il nazionalsocialismo. Storia di un’ideologia (Roma 2013), La guerra di Dio. Religione e nazionalismo nella Grande Guerra (Roma 2015). Tra le pubblicazioni da lui curate ricordiamo: Marx-Engels, La concezione materialistica della storia (Roma 1986 e 2016), Immanuel Kant, Stato di diritto e società civile (Roma 1995 e 2015), Johann Gottlieb Fichte, Lo Stato di tutto il popolo (Roma 1978 e 2016), Otto Bauer, La questione nazionale (Roma 1999 e 2016).
INDICE
Introduzione
Profili biografici degli autori
Bibliografia ragionata
Avvertenza
Che cos’è l’illuminismo?
Gotthold Ephraim Lessing, Sulla verità
II. Una discussione del 1784
Moses Mendelssohn, Sul quesito: che cosa significa rischiarare?
Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo
Johann Georg Hamann, Le contraddizioni dell’illuminismo
III. La pubblicistica illuminista
Anonimo di Gotha, Il secolo felice
Andreas Riem, Sull’illuminismo
Christoph Martin Wieland, Sei domande e risposte
IV. Illuminismo e rivoluzione
Georg Forster, Vedute del basso Reno
Georg Christian Wedekind, Sull’illuminismo
Friedrich Christian Laukhard, L’illuminismo dell’operaio francese
Friedrich Christian Laukhard, L’illuminismo del contadino francese
Johann Gottfried Herder, Sul concetto e la parola di «umanità»
Johann Benjamin Erhard, Rischiaramento e rivoluzione
Friedrich Schiller, Sui limiti della ragione
Apparati
Glossario delle parole chiave
Indice biografico dei personaggi citati
Schede dei periodici d’epoca citati
Immanuel Kant
Immanuel Kant was a German philosopher and is known as one of the foremost thinkers of Enlightenment. He is widely recognized for his contributions to metaphysics, epistemology, ethics, and aesthetics.
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Anteprima del libro
Che cos'è l'illuminismo - Immanuel Kant
CHE COS’È L’ILLUMINISMO?
Immanuel Kant
CHE COS’È
L’ILLUMINISMO?
Con un saggio introduttivo di
Guido Liguori
con altri testi e risposte di:
Erhard, Forster, Hamann, Herder,
Laukhard, Lessing, Mendelssohn, Riem,
Schiller, Wedekind, Wieland
a cura di
Nicolao Merker
Editori Riuniti
***
Prima edizione in versione ebook
dicembre 2019
Il presente testo riprende la III edizione del 1997
ISBN 9788864732879
© 2019 Editori Riuniti Roma
di Gruppo Editoriale Italiano S.r.l. Roma
www.editoririuniti.it
Titolo originale:
Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?
Traduzione di Nicolao Merker
In copertina:
dipinto di Charles Gabriel Lemonnier rappresentante la lettura della tragedia di Voltaire, in quel tempo esiliato, L’orfano della Cina (1755),
nel salotto di madame Geoffrin a Rue Saint-Honoré.
I personaggi più noti riuniti intorno al busto di Voltaire sono Rousseau, Montesquieu, Diderot, d’Alembert, Buffon, Quesnay, Richelieu e Condillac
Tutti i diritti sono riservati
Introduzione
1. Libertà di pensiero e altre libertà
Si chiamasse enlightenment in Inghilterra, les lumières in Francia, o Aufklärung in Germania, l’illummismo o rischiaramento circolava, nella vita pratica, ben prima che nel Settecento se ne inventasse il nome e poi nel quinquennio 1784-89 varie voci di intellettuali tedeschi cercassero di darne una definizione filosofica. Nel secolo XVIII, inoltre, ciò a cui oggi, retrospettivamente e poggiando su quelle definizioni, diamo il nome di illuminismo, veniva di solito identificato addirittura con la filosofia in quanto tale. Spesso e volentieri chi per l’appunto nella filosofia, ovvero nell’uso spregiudicato della ragione umana applicata a tutti i campi, vedeva una minaccia per l’ordine costituito, muoveva contro questi portavoce della ragione l’accusa, per essi assai pericolosa nelle sue conseguenze pratiche, di essere seguaci di un «libero pensiero» che gli avversari equiparavano senz’altro all’ateismo. Una minaccia all’ordine costituito, alla teoria e prassi di una società assolutistico-feudale retta dal dogma della sua immutabilità voluta da Dio, esisteva davvero. Le idee di emancipazione civile e politica elaborate dalla filosofia del Sei e Settecento avevano un contenuto rivoluzionario oggettivo, dovuto al fatto che esse sostanzialmente rispecchiavano gli interessi della borghesia mercantile e manifatturiera che stava sorgendo innanzi tutto in Inghilterra, Olanda e Francia. Il rifiuto di pregiudizi religiosi tradizionali e la difesa della libertà di pensiero andavano di pari passo con l’esigenza molto concreta dei mercanti e produttori borghesi delle città di non subire intralci di natura teologica e confessionale nell’espansione dei traffici e dei commerci.
Già Spinoza, nell’ultimo capitolo del suo Trattato teologicopolitico del 1670, rilevò che la prosperità commerciale della città di Amsterdam derivava dal fatto che vi «convivono in perfetta concordia uomini di tutte le nazioni e di tutte le religioni». I quali «per affidare i propri beni a qualcuno, si preoccupano soltanto di sapere se costui sia ricco o povero, se sia solito agire in buona o mala fede. La religione o la setta cui egli appartiene non li interessa affatto, perché ciò non contribuisce per nulla a far loro vincere o perdere la causa dinnanzi al giudice»¹. Se sono questi gli indubitabili e benefici effetti economici della libertà di pensiero, allora i «veri perturbatori dell’ordine pubblico» saranno, ovviamente, coloro che invece «pretendono di sopprimere quella libertà di pensiero che non può essere repressa»². Voltaire, un sessantennio dopo, diede nelle Lettere inglesi ovvero lettere filosofiche (1733-34) un vivacissimo resoconto della situazione dell’Inghilterra, il «paese delle sètte» dove «un inglese, da uomo libero, va in cielo per la via che preferisce»³. Alla Borsa di Londra «il giudeo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della medesima religione, e non danno l’appellativo d’infedeli se non a coloro che fanno bancarotta [...]. Se in Inghilterra vi fosse una sola religione, ci sarebbe da temere il dispotismo; se ve ne fossero due, si scannerebbero a vicenda; ma ve ne sono trenta, e vivono felici e in pace»⁴.
Questi due testi riassumono, meglio forse di altri, il nocciolo della questione. Per gli intellettuali del Sei e Settecento la conquista della libertà di pensiero fu un cammino certamente lento e difficile; ma sullo sfondo urgevano, spingendo in quella direzione, gli elementi vitali della nuova società borghese, per la quale le discriminazioni religiose e ideologiche dovute alla mancanza di libertà di pensiero costituivano, in primo luogo, una voce in passivo nel libro mastro degli affari.
Il borghese attento al suo libro dei conti stava insomma praticando il rischiaramento già per conto suo, nel proprio campo,senza aspettare che glielo spiegasse la pubblicistica. Questa poi, ed è un dato essenziale a cui commisurare la diffusione delle nuove idee in quanto teorie, poté influenzare solamente un numero assai ristretto di lettori. Ostacolata dall’analfabetismo (piú contenuto nei paesi protestanti grazie alla Bibbia come testo di lettura anche popolare), dal costo dei libri, dall’ostilità del clero e della nobiltà non interessati affatto a far proliferare dottrine contrarie all’ordine costituito, l’incidenza della pubblicistica fu un fenomeno in massima parte urbano. Riguardava semmai quello scarso quarto di popolazione (sui 25 milioni della Francia e i 24 della Germania alla fine del Settecento) che abitava nelle città e nei borghi piú grandi. Ma quanti poi erano veri lettori? Il grande organo dell’illuminismo francese, l’Enciclopedia, contava non piú di 4.000 abbonati. Coloro che alla pubblicistica illuminista rivolgevano un’attenzione culturale costante perché consapevoli ch’essa serviva da strumento quotidiano nella battaglia per l’emancipazione umana, erano comunque e in ogni caso una minoranza.
Certo, un piú capillare canale d’informazione era quello costituito dai circoli di lettura (che nella Francia di dopo il 1789 si trasformeranno quasi sempre, e in Germania in qualche caso, in club politici), dai salotti, dai caffè. Ma accedervi significava aver denaro, che nelle tasche dei ceti popolari non c’era. Chi vi si riuniva a leggere e discutere le nuove idee erano, oltre a qualche nobile di sentimenti filantropici, i borghesi imprenditoriali di buon reddito e i liberi professionisti, dunque avvocati, medici, insegnanti, insomma tutti coloro, ma soltanto essi, che i philosophes illuministi consideravano l’unico vero pubblico a cui rivolgere le loro teorie.
2. La nascita di nuovi concetti
Un supporto alla libertà di pensiero parve venire dall’attività di quei sovrani Federico II, Caterina II, Giuseppe II
che per le loro simpatie verso le nuove idee filosofiche e la vernice paternalistica del loro governo erano chiamati «illuminati». I detti di Federico II in difesa della tolleranza religiosa divennero celebri perché esprimevano la separazione fra la sfera laica della politica e il campo delle opinioni di fede. E per aver ospitato a Berlino alcuni dei maggiori intellettuali della stagione illuministica francese ed essersi interessato alle loro idee, il monarca si fece perfino la fama di re filosofo. In realtà sia lui sia gli altri sovrani «illuminati» tenevano accuratamente distinte le proprie simpatie (o velleità) filosofiche dalla prassi politica, nella quale utilizzavano solo quelle idee della cultura del XVIII secolo che potessero servire ad accrescere e consolidare il loro potere. Al paternalismo «illuminato» e relativo onnipresente regime tutorio esercitato dai sovrani sulla società civile, si adattarono (o rassegnarono) di regola le borghesie nazionali deboli. Non da queste c’era dunque da attendersi che prendessero forma moderna i concetti di «popolo» e di «nazione» storicamente destinati a diventare corollari della libertà di pensiero.
Essi nacquero nei paesi di borghesie forti, protagoniste dell’attività economica produttiva e desiderose di ottenere una posizione politica corrispondente al loro peso nella produzione della ricchezza nazionale. Sebbene il concetto di «nazione intera» come sinonimo di una complessiva società civile contrapposta all’esistente potere politico assolutistico avesse cominciato a delinearsi fin dall’epoca della prima rivoluzione inglese a metà del Seicento, e il concetto di «popolo», limitato però soltanto alla sfera di coloro che hanno una proprietà, avesse sostanziato il pensiero politico di Locke, contemporaneo della seconda rivoluzione inglese di quel secolo, le piú significative definizioni nuove di questi termini, assieme a quelli di «libertà» e di «uguaglianza», apparvero via via che nel Settecento francese ci si avvicinava al 1789. Rintracciare la genesi di ognuna potrebbe essere una ricerca istruttiva e affascinante.
Nell’operazione di definire quella serie di nuovi concetti politici l’atteggiamento mentale fu la combattiva revisione critica della tradizione. Lo stesso avvenne nel XVIII secolo in altri campi: nella teoria della conoscenza e nella storiografia, nella filosofia della religione e nel modo stesso d’intendere la nozione di cultura; e poi nelle scienze particolari, in quelle fisico-naturali non meno che nelle scienze «dell’uomo», le quali ultime, dall’antropologia all’etnografia, hanno nel Settecento il loro luogo di nascita.
I protagonisti di questa vera e propria rivoluzione culturale erano così consapevoli della sua importanza che parecchi di essi, nell’ultimo ventennio del secolo, tentarono di spiegare in che cosa consistesse la forza di quel nuovo atteggiamento mentale. Stava, si accorsero, nel suo essere una precettistica per la prassi, nel fatto che gli intellettuali schierati in favore delle nuove idee vedessero in esse uno strumento concettuale per trasformare la società e la vita degli uomini. Ora, se le forme particolari che l’elaborazione teorica di questa precettistica assunse, dipesero anche dalle diversità storiche, nei vari paesi, dei rispettivi patrimoni culturali nazionali, la misura in cui le nuove idee poterono incidere sulla prassi appare invece intimamente legata al vigore reale, storico-economico, delle forze produttive borghesi, al loro diversificato indice di sviluppo che variava da paese a paese, e al grado di maturità ideologica cui in ognuno di essi il «terzo stato» era pervenuto.
3. L’illuminismo in Germania
Quando nel 1784 pubblicò sulla Rivista mensile di Berlino la sua Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, il sessantenne Kant aveva assistito a piú di un trentennio di cammino di quello che intorno alla metà del secolo i tedeschi avevano cominciato a chiamare Aufklärung o «rischiaramento». Lessing, il massimo rappresentante che l’illuminismo militante abbia avuto in Germania, si era spento tre anni prima nell’esilio letterario di Wolfenbüttel, dove le meschinità e angherie che ebbe a subire come bibliotecario del duca di Brunswick sono forse l’esempio piú clamoroso della sorte che la miseria delle condizioni tedesche riservava agli uomini migliori. Fra i cinquantenni era rimasto Wieland. Il quarantenne Herder apparteneva già alla generazione uscita dallo Sturm und Drang, e attraverso esperienze stürmeriane era passato anche l’allora venticinquenne Schiller.
Che a differenza della Francia, forte di una compagine nazionale unitaria e omogenea, il territorio nazionale tedesco si trovasse dopo la pace di Vestfalia in una condizione di estrema frantumazione politica è cosa nota. Nella Germania delle «trecento patrie» (314 territori sovrani e piú di 1400 feudi imperiali autonomi alla fine del XVIII secolo), un’ottantina delle quali non raggiungeva le dodici miglia quadrate di superficie, era per la nuova classe borghese indubbiamente piú difficile affermarsi che non nell’unitaria monarchia francese. Senza contare che la guerra dei Trent’anni con le sue devastazioni e gli spopolamenti enormi (alla fine della guerra la popolazione era scesa da 18 a 6 milioni, e certi distretti rurali solo nel 1850 ristabiliranno il numero di abitanti del 1617), nonché il generale fenomeno dello spostamento del commercio europeo verso le coste atlantiche, avevano inferto alle stesse radici economiche della borghesia tedesca colpi molto gravi.
Eppure proprio la cultura di questo paese politicamente in ritardo e socialmente meno evoluto dal punto di vista borghese, produrrà a fine secolo una serie di scritti che enunciarono il programma complessivo dell’illuminismo con una pregnanza e concisione che è esemplare e supera quanto, in tema di autocomprensione del rischiaramento, altre culture nazionali seppero dare. La cosa dipese probabilmente dal fatto che l’illuminismo tedesco si era trovato fin dall’inizio a dover precisare la propria posizione in mezzo a un contesto ostile assai piú complicato di quello che esisteva ad esempio in Francia dove fra borghesia e nobiltà e fra borghesia e clero le frontiere ideologiche erano piú nette e meno frastagliate.
Fu intanto, fin dai tempi di Wolff, la necessità di distinguere con precisione i diritti dei lumi di ragione dalle pretese di un altro lume, quello che il pietismo concepiva, contro il rischiaramento laico, come illuminazione sovrannaturale mediata da una fede religiosa mistica. Vi si aggiunse la battaglia che gli illuministi piú coerenti ingaggiarono anche su un altro fronte, contro il protestantesimo ortodosso delle Chiese territoriali luterane alleate al dispotismo politico. Si inseriscono in questo contesto le appassionate dichiarazioni di Lessing sull’emancipazione umana da raggiungere attraverso la conquista di verità laiche. E se Wieland nelle questioni politiche non andò oltre l’ideologia compromissoria dell’assolutismo illuminato, invece nella battaglia razionalistica contro oscurantismo religioso, dogmatismo e superstizione si mosse senza compromessi sotto l’insegna dell’illuminismo impegnato.
Di parecchie sfaccettature la cultura illuminista si arricchí in Germania attraverso i suoi rapporti con il movimento letterario dello Sturm und Drang del decennio 1770-80. Ad esigenze teo riche e pratiche dettate da condizioni sociali oggettive analoghe, Aufklärer e Stürmer diedero risposte diversamente accentuate: gli uni in termini prevalentemente «razionalistici» (ma che non erano astratti, nel senso che non si chiusero né verso i vivi sentimenti né verso le esperienze reali concrete), gli altri con strumenti che avevano sí, venendo esaltata la genialità e libertà da vincoli dell’artista, un’innegabile componente «irrazionale» o almeno extrarazionale, ma usata anch’essa come un’arma di protesta antifeudale, contro l’ordine costituito. L’attenzione dello Sturm und Drang alla prassi umana trasformatrice, talora perfino affidata al concetto di «popolo» e «nazione» che gli esponenti di quel movimento scoprirono almeno come rappresentazione letteraria, costituí indubbiamente un’iniezione di suggestioni rivoluzionarie per parecchi illuministi.
Herder, che era appunto passato attraverso esperienze stürmeriane, già nel 1774 propose una teoria dei mutamenti storici compientisi per salti improvvisi, polemizzando contro il «mansueto filosofo» che simili balzi ha in orrore e preferisce invece il comodo (troppo comodo) progresso quieto e lineare. Conseguenze politiche pratiche, ovvero operative, non seppero tirarne né Herder, né gli Stürmer, né (salvo rarissime eccezioni che si vedranno dopo il 1789) gli Aufklärer in generale. Le ragioni di fondo dipesero ancora una volta dal fatto che il letto di Procuste della miseria tedesca si ripercuoteva con eccezionale pesantezza sulle elaborazioni ideologiche.
La filosofia herderiana della storia non andò al di là di un umanesimo generoso nelle intenzioni, ma intimamente contraddittorio e impotente sul piano della traduzione della teoria in prassi. Dal lato degli strumenti formali, cioè dei concetti che la reggono, è una teoria del progresso umano secondo un immaginario e metafisico ordine delle idee al quale nella stretta finale, quando si tratterebbe di saldare teoria e prassi, la saldatura in direzione di un progresso concreto, ossia di una trasformazione effettiva del reale, non riesce. Non riesce perché al protocollo (pur tutt’altro che assente) dei dati di fatto secondo la loro corposa consistenza specifica viene sovrapposta, e alla valutazione delle forze sociali secondo le loro possibilità storiche cosí come sono determinate dai rapporti di classe viene sostituita, una rarefatta interpretazione idealistica che considera gli uni e le altre come manifestazioni di forze in ultima analisi metastoriche. Nel 1774, ancora influenzato Herder da temi di fideismo religioso che gli provenivano da Hamann, a reggere la storia era la «Provvidenza» o «il cammino di Dio sopra le nazioni». Nelle Lettere per il promuovimento dell’umanità (1793-97) la metastoria sarà diventata laica. A conclusione della Lettera XXV, in cui il concetto di progresso appare condizionato dallo stretto legame fra il singolo individuo e l’«associazione umana» o «genere umano» in quanto tale, i §§ 36 e 37 affermano che «la perfettibilità quindi non è un’illusione», bensí una costruzione storica la quale «si estende a tutti i secoli e a tutte le nazioni» e le cui forze motrici sono la cultura e l’educazione morale. Ma anche così formulato, il punto d’approdo della teoria era pur sempre un’idea metafisica. Di fronte ad altre voci dell’epoca – di un Hamann o di un Mendelssohn, entrambi refrattari alla prospettiva che sede del progresso potesse e dovesse essere il genere umano come collettività – rappresentava sí un buon avanzamento. Ma per un altro verso il ricorso al deus ex machina laico dell’«evoluzione futura» dell’umanità minacciava a ogni passo di demandare a un avvenire indeterminato lo scioglimento dei nodi che si sarebbe trattato di recidere al presente.
4. I nodi dell’89
Le risposte del 1784-89 alla domanda che cosa fosse l’illuminismo avevano tutte, da varia angolatura, sottolineato che il rischiaramento doveva intendersi come un processo dinamico, non certo considerato compiuto nemmeno da chi, all’epoca, ne identificava un punto alto nell’opera di Federico II. E allora non era forse la Rivoluzione francese una risposta nuova che si aggiungeva alle precedenti, di Kant e di Mendelssohn, di Riem e di Wieland? Non era il luglio parigino del 1789 l’esempio di un altro genere di illuminismo, «dal basso» questa volta, dopo il fallimento del modello «dall’alto» dei re filosofi?
Coloro che avevano finito per avvertire l’illusorietà del compromesso fra l’Aufklärung e i sovrani «illuminati», da principio salutarono il 1789 francese come un avvenimento fecondo, liberatore almeno da un punto di vista ideale e in linea con gli auspici di un rischiaramento ininterrotto. Ma dopo la nuova ondata rivoluzionaria del 1792-93 e l’esecuzione di Luigi XVI, la quale «scuote di un brivido d’orrore un’anima che ha la coscienza dei diritti dell’umanità», come scrisse Kant nel ’97⁵ facendosi interprete di vasti strati dell’opinione pubblica borghese moderata, quasi tutti costoro indietreggiarono dinnanzi all’eventualità che la rottura decisiva fra vecchio e nuovo, operata ora in Francia, si estendesse anche alla Germania.
La difesa della soluzione rivoluzionaria restò affidata sul piano teorico all’esigua frangia dei giacobini tedeschi. Quanto costoro scorgessero nella rivoluzione l’attuazione di un coerente rischiaramento «dal basso» risulta dai loro testi. Quelli fra essi che si trovarono gettati nella mischia dovettero misurarsi con la disperante difficoltà di