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Una cena per due ...
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E-book249 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Un viaggio lungo una vita tra il passato e il presente in un drammatico itinerario tra Sarajevo, nella Bosnia sfregiata dal recente conflitto e l’Albania degli anni ‘70, dilaniata dagli artigli di un regime totalitario.

Vite di innocenti che si incontrano e si intersecano tra disperazione e violenza.

Alcune si interrompono, altre si trascinano ferite e mutilate.

Il buio e la pioggia unico scenario comune. Poi il sangue.

Ai protagonisti non resta che scavare nella propria anima. Affrontare il passato e saldarne il conto.

La verità ha molte facce. L’esito non sempre è quello desiderato e il prezzo da pagare può essere la vita.

LinguaItaliano
Data di uscita19 gen 2017
ISBN9788868272043
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    Anteprima del libro

    Una cena per due ... - Paolo De Angelis

    1. Albania

    Era buio e piovigginava. Ma neanche la sottile nebbia e il fresco autunnale erano la causa del gelo che avvertiva. Un freddo che ti parte dalle ossa e quando arriva alla pelle ti fa rabbrividire in un tremito convulso. Al punto che senti venir meno ogni controllo, mentre l’ondata di gelo t’invade e si impossessa di ogni centimetro del tuo corpo.

    A fatica tentava di aggrapparsi alla realtà, concentrandosi sugli elementi che affioravano da quella marea e giungevano ovattati ai suoi sensi. Per prima fu la musica. Quella indistinta, assordante, inquietante sinfonia che ricordava le note di un’opera wagneriana nelle mani di fanatici nazisti. Pian piano si aggiunse la penombra del vespro che appena filtrava. Poi la robusta grata metallica del lucernaio sopra la porta; da lì entrava come un alito la nebbia umida e fitta. Quindi l’odore di muffa delle pareti e l’olezzo proveniente dall’improvvisata latrina, poco più che un buco nel pavimento.

    Si strinse nel pesante cappotto liso e consunto, unico baluardo di fronte al freddo dell’autunno inoltrato. Il suo, come quello degli altri nove compagni di cella, era esso stesso ormai fonte del tanfo inconfondibile di quei barboni mendicanti incontrati mille volte agli angoli delle strade.

    Un brusio scosse i pensieri di Florian:

    Bene pensò mentre l’onda si ritraeva lentamente.

    Nell’oscurità che aumentava cercò di individuare chi stesse parlando non avendo riconosciuto la voce troppo bassa e indistinta. Questo sforzo lo ricondusse alla realtà. Ma il brusio cessò come allarmato dalla sua improvvisa curiosità. Florian era fuori posto lì fra i detenuti politici e quei religiosi, cristiani o musulmani, che non domati erano stati ritenuti altrettanto pericolosi. Era incappato malauguratamente in una di quelle operazioni della polizia politica tese a perseguitare parenti, amici e anche solo conoscenti dei vari intellettuali o militanti dell’opposizione. Non ne sapeva niente lui: era di fronte a un bar, uno dei pochi rimasti, con uno che aveva appena conosciuto e che forse lo avrebbe raccomandato per un lavoro continuativo. Un amico di un amico di un amico; che poi chi aveva amici ormai, in un posto dove non ti fidi più di nessuno?!

    Lo sapeva solo lui, nessuno lo conosceva per proteggerlo; non gli avevano creduto e nessuno lo aveva scagionato. Ora era lì, insieme ad altri, ma solo più degli altri. Tutti destinati a una galera eterna, la morte sociale.

    Sì. Molti tra loro, come lui del resto, erano stati dati per morti. Era successo quattro anni prima, quando da tempo era internato nel carcere di Tirana. Lì dopo due lunghi anni fatti di interrogatori, maltrattamenti e privazioni si era deciso di trasferirlo a nord, nel carcere di sicurezza di Scutari, con altri politici, per più approfonditi accertamenti e successivi provvedimenti.

    Il primo di questi provvedimenti era stato quello di dichiararli deceduti per malattie contagiose e cremati in loco; tanto da non dover più rispondere né giustificare l’assenza dei cadaveri. Loro però lo avevano saputo dopo. Molto tempo dopo.

    Con il passare delle stagioni la frequenza e la brutalità delle torture alle quali quasi tutti erano stati sottoposti, si era via via allentata. Sembrava che l’attenzione dei carcerieri si fosse orientata solo su alcuni di loro e l’accanimento degli interrogatori diretto progressivamente verso i nuovi arrivati.

    Per molti prigionieri tutto ciò poteva significare solo che le sofferenze e la lunga detenzione sarebbero presto finite. Specie quei pochi, come Florian, che neanche i tormenti delle violenze subite avevano potuto sancirne la sicura colpevolezza. Questi si aggrappavano all’unica speranza rimasta: veder riconosciuta la totale estraneità ad attività contro il regime e liberati.

    Quando poi la notizia della loro morte era trapelata, diffusa dallo scarno passaparola tra le mura, lui era stato travolto come nello schianto di un’auto in corsa. In un istante si era sentito sprofondare nel panico: nessuno avrebbe mai più chiesto sue notizie. Nessuno lo avrebbe più cercato. Anche le persone più care avrebbero lasciato che il suo ricordo si fosse allontanato cercando nuovi affetti e nuovi motivi per sopravvivere; e il suo ricordo sarebbe stato cancellato: troppo doloroso da sopportare.

    Ora era lì, in una di quelle celle esterne, al pianterreno del vecchio convento. Una delle celle di ‘attesa’, l’orecchio attento a cogliere i passi ritmati delle guardie che, di lì a poco, sarebbero venute a prenderli: a due a due, come in passato. Un passato che improvvisamente si ripresentava orrifico e tragico.

    Qualcosa che non doveva accadere era successo. Lo avevano capito in molti. Sapevano anche che prima o poi sarebbero stati scoperti.

    Ma chi era stato? Chi di loro? Ed ora quali conseguenze? Ma che importava ormai. Erano già morti.

    Cos’altro può uccidere a qualcuno che da molto non è più in vita?

    Quando la morte è la tua compagna più intima arrivi a sentirti immune ad ogni sofferenza. Ogni patimento ti arriva ovattato come se dentro di te qualcosa o qualcuno ridesse del grottesco indaffararsi degli aguzzini.

    2. Bosnia-Erzegovina

    La ragazza sporse il capo dal portone della scuola di musica e scrutò il buio della sera a verificare l’entità della pioggia. L’autunno era arrivato da poco ma a Sarajevo questo significava che il soprabito non era già più sufficiente. Con un brivido allungò in avanti le braccia e aprì veloce l’ombrello verde intonato al suo piumino lungo fin sotto le ginocchia. Fece per dirigersi a destra per passare poi a fianco del mercato delle verdure, ma il buio e la via deserta e desolata la scoraggiarono. Andò allora dritta davanti a sé per raggiungere, attraverso stradine disseminate di bar e localini variopinti, la piazzetta degli scacchi. Le alte pareti ancora crivellate dai proiettili o i resti degli edifici bombardati e mai ricostruiti vegliavano a perenne ricordo di una guerra fratricida, ma l’illuminazione stradale e le luci di nuove attività commerciali nel buio attraevano lo sguardo sulle vetrine più disparate. Scopriva inaspettati negozi di abbigliamento alla moda alternati ad american bar; la coloratissima vetrina del negozio Lego e le profumerie dagli smaglianti poster, per il turista appena arrivato, creavano l’illusione di una capitale europea in pieno sviluppo. Ma dietro l’angolo bastava un’occhiata veloce per mettere a fuoco vecchi mendicanti che si trascinavano nel buio e sfuggire al controllo della severa polizia. Così come nel piccolo mercato delle erbe frotte di umili casalinghe, disadorne e malvestite all’approssimarsi della stagione fredda, si soffermavano fino al tramonto in una lenta processione alla ricerca degli ortaggi più economici.

    La giovane poteva avere sui trenta, trentadue, anni; slanciata, forse un po’ magra; i capelli castani tirati indietro e legati in una corta coda. Ai piedi portava scarpe con il tacco più utili a passeggiare che a camminare per ore; e lei camminava da molto ormai. Dopo l’uscita dalla scuola di musica la sua andatura era lievemente diventata incerta e appena claudicante nell’oscurità di quel tratto.

    Lui se ne era accorto. Allora, teso e con le mascelle serrate, aveva accelerato il passo avvicinandosi. Quando lei, frugando nella borsetta di pelle aveva estratto il cellulare era a meno di tre metri; aveva anche capito che la scarpetta destra le aveva lacerato la calza a rete, che si stava smagliando, e certamente il cuoio ora premeva nella carne segnata. Per un istante si concesse di immaginare se indossasse un collant o se fossero delle autoreggenti.

    Ma non era il momento. E del resto era irrilevante.

    Ora però aveva preso a camminare più spedita. E lui aveva perso l’attimo propizio prima della traversa che conduceva alla passeggiata centrale.

    Sembrava soddisfatta; eppure era stata pochissimo tempo nell’edificio per poter avere incontrato qualcuno. Era tardi per le lezioni: le finestre in alto erano tutte accuratamente chiuse e le luci spente. Meglio così. Ora la calma di lei pareva trasmettersi anche a lui. Magari cominciava solo ad essere stanca. Se solo si fosse diretta verso una zona meno frequentata, un parco, o una delle strade solitarie oltre il boulevard Maresciallo Tito, dopo il grande incrocio.

    La seguiva da quando aveva lasciato l’albergo, e se non fosse stato per la decisione che aveva dovuto prendere, ora si sarebbe rintanato volentieri a scolarsi un buon bicchiere, anche due. Se li permetteva di rado ed ora ne sentiva proprio il bisogno.

    Lei prestando una distratta attenzione alle vetrine parlava al microfono del cellulare; lui l’aveva vista indossare la sottile cuffia bianca ed ora poteva ascoltare le parole di una lingua che appena conosceva.

    «Ciao! Sapessi dove sono! Mi sembra un’eternità da quando sono partita. Quante cose!»

    Sembrava entusiasta e divertita: ma con chi parlava?

    «Non avrei mai immaginato che a Tirana trovassi una traccia allo Sheraton. Sì, sì, proprio lo Sheraton!» Una pausa, in ascolto «All’ambasciata non hanno saputo dirmi nulla ma lo immaginavo. Invece eccomi qua a Sarajevo, sotto l’acqua. Vedessi come viene giù! E sono emozionata e commossa: Dio quante cose! Poi può anche essere un buco nell’acqua» e rise guardando in alto le pesanti nuvole che si svuotavano sulla città «ma lo sai che sono fatalista e sento che è la strada giusta. Quando arriverai avremo già guadagnato tempo…» e dopo un istante «… sì, sì! Appena in albergo ti chiamo e ti racconto. Tieniti forte. Ciao tesoro! Ciao».

    Ripose l’apparecchio in tasca e raggiunto il vivacissimo viale Mula Mustafe Baseskije voltò a destra proseguendo fin dove poi prendeva il nome di Marsala Tita.

    Lui la seguiva dieci metri più indietro. Il consumato giaccone di vecchia stoffa verde e il berretto imbottito con i paraorecchie abbassati gli davano un aspetto anonimo, quasi sgradevole alla vista; anche gli scarponi consunti e macchiati testimoniavano una vita ormai allo sbando. Eppure, benché la pioggia fine accentuasse l’effetto dell’oscurità, lui camminava curvo e rasente i muri nel timore di essere notato. Quando una pattuglia in auto lo aveva affiancato era stato quasi per cedere alla tentazione di gettare il coltello che impugnava nella tasca destra e scappare. Poi invece, a capo chino, aveva visto allontanarsi dal marciapiede il riflesso del lampeggiante. Lentamente il suo respiro si era fatto di nuovo regolare; la mano allentare la presa. Si accorse solo allora di essere nella zona forse più illuminata del boulevard. Alla sua sinistra, infatti, una corta traversa raggiungeva il viale creando uno stretto angolo ove era stato eretto uno spartano ma imponente monumento ai caduti illuminato da terra da una fiaccola sempre accesa. Alcuni giovani posavano per riportare a casa una foto ricordo. Tra loro anche una giovanissima coppia, forse in luna di miele, che indugiava nel farsi immortalare in più pose. Dagli abiti, dignitosi ma semplici, s’intuiva venisse da una provincia distante. L’insieme della scena era quanto meno bizzarro se non grottesco. Infatti al di là della strada un american bar molto elegante, dalle interminabili vetrine illuminate e con dei piccoli alti tavoli disposti ancora sul marciapiede, faceva da sfondo alla fiaccola perenne. Dal suo lato invece gli enormi occhi di ghiaccio e il volto sensuale e gocciolante di una modella della pubblicità Armani osservavano gelidi i protagonisti di quello spettacolo irreale. La vetrina abbagliante riempiva per intero quella che doveva essere stata una grande porta dalla cornice intarsiata. L’elemento grottesco, in quella particolare atmosfera, tra storia e modernità, era la miriade di fori di proiettili intorno al volto glaciale e impassibile della ragazza. Ma era anche l’emblema di un presente ancora fin troppo inseguito dal passato.

    Lui cominciava ad aver freddo, ed aveva anche fretta. Non poteva rischiare di aspettare ancora. La donna non doveva assolutamente incontrare più nessuno ma adesso si era presentato un nuovo problema: imbecille a non averci pensato. Stupido imbecille! Non doveva permetterle di contattare neanche telefonicamente. Doveva agire ora.

    3. Albania

    Dio aiutami a resistere.

    O Signore dammi la forza.

    Le lettere erano incise sul muro dove Florian si era appoggiato da non poter resistere al conato che l’aveva pervaso nel lungo brivido. Erano graffiate sull’intonaco più che incise: alcune lettere slabbrate come ferite aperte, nella semioscurità della prigione. Risollevato il capo quasi si spaventò della scoperta. Fece per togliere la mano ma scoprì soltanto un’altra frase che suonava come un epitaffio: Solo la morte mi darà sollievo.

    Ormai non era più padrone di se stesso, proprio come alcuni degli altri che, all’angolo opposto, si rannicchiavano in terra come bambini impauriti e disperati; oppure singhiozzavano in silenzio, rivolti verso il muro con il capo appoggiato in un disilluso tentativo di difendere l’orgoglio. La dignità calpestata dall’angoscia, mentre l’umidità della notte penetrando dall’inferriata li avvolgeva in una nebbia spettrale. In alto, appeso al muro, l’altoparlante in dotazione ad ogni cella cominciò a gracchiare e poco dopo tacque. Sembrava un banale guasto elettrico, ma tutti i prigionieri sapevano tristemente che era un espediente strategico. L’interruzione improvvisa avrebbe messo a tacere quella musica, fino ad allora assordante, voluta per stordirli ed impedire di comunicare anche tra loro. Ora invece, isolati dalle altre celle rumorose, lentamente si riabituavano alla percezione fine dei rumori. E infatti presto ebbero l’acuzie di avvertire, seppur appena distinguibili ma ugualmente terrificanti, i gemiti e le urla soffocate dei loro predecessori nelle stanze delle torture alcuni piani sopra. I lamenti ora chiari ora impercettibili, confusi nella musica, avrebbero segnato il definitivo tracollo di ogni resistenza psicologica.

    Sobbalzò quando avvertì una mano leggera sulla spalla. Sussultò senza però retrarsi. Sollevò il capo girandosi verso il volto affettuoso che da poco aveva conosciuto; da troppo poco tempo purtroppo. Incontrò occhi pazienti, confortanti. Forse in un altro posto, in un’altra epoca avrebbero potuto essere amici.

    «Non ti vergognare di aver paura Florian, tu sei nel giusto. Credi in te. Apri il cuore affinché possa guardare oltre».

    «Grazie,» con un lieve sorriso, poi «non so come faccia a mantenere la calma. Sembra quasi che lei sia immune da questa tragedia».

    L’uomo lo guardò in silenzio. Era più alto di poco e forse della stessa età, la barba lasciata incolta da tempo, eppure dimostrava una calma e una forza interiore che parevano renderlo ancora più alto e fiero.

    «Non sono diverso da te Florian, e ho paura anch’io. E ti dico anche che non è solo la preghiera a sostenermi. Io so, perché lo so, che tutta questa violenza rappresenta solo l’entità della loro paura. Sanno che per quanto male faranno, per quanta sofferenza riusciranno ad infliggere, dimostreranno soltanto quanto sia vicina la loro fine. Essi sono già sconfitti, davanti a Dio e davanti agli uomini: anche i più umili e indifesi come noi qui dentro».

    Dall’altro angolo il parlottio era ripreso nervoso e frenetico per l’angoscia crescente.

    «Hanno scoperto Adan; l’ha detto Qetim prima di essere portato via anche lui».

    Era l’uomo accovacciato, con le mani si teneva le tempie quasi a bloccare i pensieri suscitati dai lamenti lontani.

    L’interlocutore, stretto nel suo lungo cappotto ormai liso, fumava nervosamente l’ultima mezza sigaretta rimasta nel pacchetto. Ascoltava e pensava, il capo rivolto alla porta:

    «L’ho sentito anch’io Fatmir. Nell’ultima raccolta c’era troppa roba o, ed è l’ipotesi più probabile, già sapevano e hanno aspettato per gettare una rete più grande».

    «A che ti riferisci? Solo per prendere messaggi di poveri disgraziati alle famiglie?» in un singhiozzo disperato «Ti rendi conto che mio figlio è nato quasi due anni fa ed io non l’ho mai visto? Me l’aveva detto proprio Adan. Mia moglie conosce la sorella del fornaio che porta il pane al convento. Ma Adan era già stato diffidato e minacciato, perché Loro lo sapevano. Allora gli hanno fatto dire che ero morto di polmonite. Maledetti!»

    «Sì, capisco, ma se hanno fatto così vuol dire allora che non ci sono state rappresaglie nella tua famiglia. Evidentemente tra gli intellettuali dissidenti non ti considerano un ideologo fomentatore. Con altri le cose sono andate diversamente: sono state perseguitate e anche deportate intere famiglie, imprigionati gli amici o semplici conoscenti, magari colleghi di lavoro».

    «Io non sono né ideologo né uno dei sacerdoti arrestati per non voler collaborare. Sono passati anni da quando presero il vescovo di Scutari e l’imam musulmano rinchiudendoli proprio qua. Quelli avevano molte ragioni per opporsi, erano un simbolo loro, ma noi?»

    Un altro prigioniero rimasto in disparte con altri lo interruppe:

    «Io credo solo che si è esagerato e alla fine è successo quello che doveva succedere. La stupidità di qualcuno ha messo nei guai tutti».

    L’uomo con il cappotto gli si scagliò contro afferrandolo per il bavero della giacca di panno, diventata troppo grande e troppo larga:

    «Che ne sai tu! Vigliacco! Faresti qualsiasi cosa pur di sopravvivere; ma è vita questa? Ce l’hai un po’ di dignità ? Lo capisci che non è libera neanche la nostra merda?»

    Fatmir non ce la faceva ad alzarsi ma altri si mossero e li divisero. Un vecchio irsuto e dai folti capelli bianchi parlò, calmo ma con voce imponente:

    «Non peggiorare le cose Rrezag. Loro vogliono proprio questo: dividerci; metterci l’uno contro l’altro. Il controllo della latrina è solo l’ultima trovata. Un ennesimo stratagemma per fiaccare la nostra solidarietà piuttosto che la resistenza».

    «Sarmin ha ragione…» disse un altro «… andiamo, è evidente. Che messaggi potranno mai uscire da qui?»

    «È esattamente il fatto che escano messaggi!» replicò con veemenza Rrezag «È la prova che molti morti non sono affatto deceduti. Una cosa del genere, se venisse scoperta, li farebbe considerare alla stregua dei nazisti. E questo non se lo possono permettere neanche loro e i loro nuovi alleati;» ora era furibondo «per questo dobbiamo continuare. Anche a costo di essere torturati».

    Florian era rimasto al suo angolo con il giovane uomo. Sapeva che, da tempo, i prigionieri avevano escogitato un metodo per far filtrare notizie all’esterno ma non c’era mai stata certezza che la cosa funzionasse.

    Periodicamente, ogni due mesi circa, le latrine dell’ex convento francescano si intasavano per l’enorme quantità di escrementi prodotta dai carcerati. Troppi detenuti in confronto ai pochi frati a cui il regime, dopo la seconda guerra mondiale, aveva requisito l’antico convento

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