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Umano, troppo umano
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E-book722 pagine7 ore

Umano, troppo umano

Valutazione: 4 su 5 stelle

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Info su questo ebook

Un libro per spiriti liberi

Introduzione di Giovanni Maria Bertin
Traduzione di Mirella Ulivieri
Edizione integrale

«Dedicato alla memoria di Voltaire nell’anniversario della sua morte avvenuta il 30 maggio 1778» volle scrivere Nietzsche sul frontespizio della prima edizione di Umano, troppo umano, quasi a sottolineare il carattere “illuministico” di questa sua opera. Scritto tra il 1876 e il 1879, il libro, nella sua forma definitiva, comprende due volumi, nel secondo dei quali Nietzsche raccolse Opinioni e detti diversi e Il viandante e la sua ombra, già pubblicati separatamente. Circola in quest’opera, che rifiuta la tentazione metafisica e le sue cristallizzazioni dogmatiche di un conoscere separato dalla vita, una sorta di sottile e spregiudicata ebbrezza intellettuale che cattura il lettore per la ritmica felicità espressiva, perfettamente aderente al gusto della conquista interiore.

«Come può qualcosa nascere dal suo contrario, ad esempio il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall’illogicità, una contemplazione disinteressata da una volontà bramosa, un vivere altruistico dall’egoismo, la verità dall’errore?»


Friedrich Wilhelm Nietzsche

nacque a Röcken, in Germania, nel 1844, e morì a Weimar nel 1900. Appassionato di musica, compì i suoi primi studi nel campo della filologia classica, pubblicando nel 1872 La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Le sue opere esercitano ancora oggi una profonda influenza sul pensiero filosofico occidentale. La Newton Compton ha pubblicato L’Anticristo – Crepuscolo degli idoli – Ecce homo, Al di là del bene e del male, Aurora, La gaia scienza, Umano troppo umano, Verità e menzogna, La volontà di potenza e il volume Le grandi opere (1870/95).
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854126077
Umano, troppo umano
Autore

Friedrich Nietzsche

Friedrich Nietzsche (1844–1900) was an acclaimed German philosopher who rose to prominence during the late nineteenth century. His work provides a thorough examination of societal norms often rooted in religion and politics. As a cultural critic, Nietzsche is affiliated with nihilism and individualism with a primary focus on personal development. His most notable books include The Birth of Tragedy, Thus Spoke Zarathustra. and Beyond Good and Evil. Nietzsche is frequently credited with contemporary teachings of psychology and sociology.

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4/5

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  • Valutazione: 5 su 5 stelle
    5/5
    This is the first work of philosophy I read, having been advised to begin with Nietzsche as a beginner reader. Beginner philosophy or not, I think this book was terrific and I related with Nietzsche on many of the things he was saying. In it, Nietzsche discusses his views on Christianity, the creation of a free thinker, his concept of a higher culture, among many other things. I would recommend this book to anyone looking to get into philosophy. It certainly served to cement my interest in it and to pursue further works of his.
  • Valutazione: 4 su 5 stelle
    4/5
    A very contradictory, scathing, and surprisingly witty book. Goes on about 'free spirits'. Almost all of the remarkss are only too relevent now. Unconventional, but brilliant in its own way.
  • Valutazione: 3 su 5 stelle
    3/5
    Not going to lie did have to look up what an aphorism was. I think you may need a deeper appreciation of philosophy than I have to be able to appreciate this piece of work.

Anteprima del libro

Umano, troppo umano - Friedrich Nietzsche

Umano, troppo umano

Un libro per spiriti liberi

Dedicato alla memoria di Voltaire

nell'anniversario della sua morte

avvenuta il 30 maggio 1778

Volume primo

Prefazione

1.

Mi è stato detto abbastanza spesso, e sempre con gran meraviglia, che in tutti i miei scritti, dalla «Nascita della tragedia» sino al recente «Preludio di una filosofia del futuro», ci sarebbe qualcosa di comune e di caratteristico: essi conterrebbero tutti, mi si è detto, lacci e reti per uccelli imprudenti e quasi una costante, nascosta istigazione a sovvertire consueti apprezzamenti e apprezzate consuetudini. Come? Tutto sarebbe solo umano, troppo umano? Con un tal sospiro si uscirebbe dai miei scritti, non senza una sorta di orrore e di sfiducia persino contro la morale, anzi parecchio tentati e spronati a fare per una volta i patrocinatori delle cose peggiori, come se esse fossero forse solo le meglio calunniate. I miei scritti sono stati definiti una scuola del sospetto, anzi del disprezzo, ma fortunatamente anche del coraggio, anzi dell'audacia. In effetti, io stesso non credo che qualcuno abbia mai guardato nel mondo con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio: e chi indovini solo alcune delle conseguenze insite in ogni profondo sospetto, qualcosa dei brividi e delle paure dell'isolamento cui è condannato chiunque sia affetto da una assoluta diversità di sguardo, capirà anche quanto spesso io, per riposarmi di me stesso, quasi per dimenticare anche solo brevemente me stesso, abbia cercato un rifugio qualunque — in una qualche ammirazione, o ostilità, o scientificità o leggerezza o stupidità; e anche perché io, quando non trovavo ciò di cui avevo bisogno, dovessi per forza procurarmelo artificialmente, falsificandolo, inventandolo (e che altro hanno fatto mai i poeti? e a che scopo esisterebbe un'arte nel mondo?). Ma ciò che mi è sempre stato estremamente necessario, per curarmi e ristabilirmi, era credere di non essere solo a tal punto, di non vedere da solo — un incantevole sospetto di affinità e di uguaglianza nel vedere e nel desiderare, un acquietarmi nella fiducia di un'amicizia, una cecità a due senza sospetti e punti interrogativi, un godere dei primi piani, delle superfici, di quanto è vicino, vicinissimo, di tutto ciò che ha colore, pelle e appariscenza. Forse a tal riguardo si potrebbe accusarmi di «artificiosità», di raffinata abilità a batter moneta falsa: ad esempio, che io abbia scientemente e volutamente chiuso gli occhi di fronte alla cieca volontà di morale di Schopenhauer, in un tempo in cui avevo già una visione abbastanza chiara della morale; e ancora, che mi sia ingannato sull'incurabile romanticismo di Richard Wagner, come se esso fosse un principio e non una fine; e così pure per i greci, e così per i tedeschi e il loro futuro - e non ci sarebbe ancora un'intera lunga lista di questi «così pure?». Ma ammesso anche che tutto ciò sia vero e mi venga rinfacciato a buon motivo, che ne sapete voi, che cosa ne potete sapere, quanta astuzia dell'istinto di conservazione, quanta ragionevolezza e superiore precauzione siano contenuti in questo auto-inganno — e quanta falsità mi sia ancora necessaria per poter continuare a permettermi il lusso della veridicità? Basta, io sono ancora vivo, e la vita non è un'invenzione della morale: essa vuole inganno, essa vive di quello... ma, non è vero?, ecco che ricomincio da capo a fare quel che ho sempre fatto, io vecchio immoralista e uccellatore, e faccio discorsi immorali, extra-morali, «al di là del bene e del male».

2.

Così una volta, quando ne ebbi bisogno, mi inventai anche gli «spiriti liberi», ai quali è dedicato questo libro malinconico e coraggioso che si intitola «Umano, troppo umano»: simili «spiriti liberi» non esistono, non esistevano — ma allora avevo bisogno, come ho detto, della loro compagnia per restare di buon umore in mezzo a cose cattive (malattia, solitudine, estraneità, acedia, inattività), come buoni compagni e fantasmi, coi quali si parla e si ride quando si ha voglia di parlare e di ridere, ma che si mandano al diavolo quando diventano noiosi; come risarcimento per la mancanza di amici. Che, prima o poi, tali spiriti liberi possano esistere realmente, che la nostra Europa possa avere, tra i suoi figli di domani e dopo, tali compagni intrepidi e allegri, corporei e tangibili e non solo, come nel mio caso, schemi e giochi d'ombre da romiti, di questo vorrei essere l'ultimo a dubitare. Li vedo già venire, lentamente, lentamente; e potrò forse contribuire ad accelerarne l'avvento descrivendo in anticipo sotto quali destini li vedo nascere, per quali vie li vedo giungere?

3.

Si può presumere che uno spirito nel quale il tipo del «libero spirito» sia destinato a giungere a piena e dolcissima maturazione, abbia avuto il suo evento decisivo in una grande separazione, e che esso prima apparisse uno spirito tanto più legato e costretto per sempre al suo cantuccio e alla sua colonna. Che cosa lega più saldamente? Quali vincoli è quasi impossibile infrangere? Per uomini di specie alta ed eletta saranno i doveri: il rispetto, che è proprio della gioventù, il timore e la sensibilità per tutto ciò che è da sempre venerato e ritenuto degno, la gratitudine per il terreno da cui sono cresciuti, per la mano che li ha guidati, per il santuario dove hanno imparato a pregare — i loro stessi momenti più alti li legheranno nel modo più saldo, li obbligheranno nel modo più duraturo. Per simili incatenati la grande liberazione giunge improvvisa, come una scossa di terremoto: a un tratto la giovane anima viene scossa, strappata via, divelta — né capisce essa stessa che cosa stia accadendo. Un impulso e un impeto la dominano e divengono per lei come l'ordine di un padrone; si destano una volontà, un desiderio di andar via, non importa dove, ad ogni costo; una prepotente, pericolosa avidità di conoscere un mondo mai scoperto arde e divampa in tutti i suoi sensi. «Piuttosto morire che vivere qui», dice una voce imperiosa e seducente: e questo «qui», questo «a casa» è tutto quello che sinora la giovane anima aveva amato! Una paura e una diffidenza improvvisa verso ciò che essa amava, un lampo di disprezzo verso quel che per essa significava «dovere», un desiderio ribelle, arbitrario, vulcanicamente irruente di partire, allontanarsi, straniarsi, raffreddarsi, rinsavire, gelarsi, un odio per l'amore, forse un gesto e uno sguardo sacrileghi indietro, verso ciò che essa sinora aveva venerato e amato, forse un rossore di vergogna per quel che ha appena fatto, e insieme un'esultanza per averlo fatto, un ebbro, esultante brivido interiore nel quale si rivela una vittoria — una vittoria? su che cosa? su chi? una vittoria enigmatica, ricca di domande, problematica, ma pur sempre la prima vittoria: simili cose brutte e dolorose appartengono alla storia della grande liberazione. Questa prima esplosione di forza e di volontà di autodeterminazione, di auto-posizione di valori, questo volere una volontà libera, è allo stesso tempo anche una malattia che può distruggere l'uomo: e questa malattia si esprime nei selvaggi tentativi e bizzarrie con cui l'affrancato, il liberato cerca ora di dimostrare a se stesso la propria signoria sulle cose! Si aggira intorno con animo crudele, con inappagata bramosia; ciò che egli rapina, deve scontare su di sé la pericolosa tensione del suo orgoglio; egli distrugge ciò che lo affascina. Con un riso cattivo egli rovescia ciò che scopre e trova protetto da un qualche pudore; vuol sperimentare come appaiono queste cose quando le si rovescia. C'è arbitrio, e gusto dell'arbitrio, quando talvolta egli volge il suo favore a ciò che sino allora godeva di cattiva fama — quando, curioso e tentatore, striscia attorno a quanto c'è di più proibito. Sullo sfondo dei suoi sforzi e del suo vagabondare—perché egli gira inquieto e senza meta come in un deserto — si erge il punto interrogativo di una curiosità sempre più rischiosa. «Non si possono sovvertire tutti i valori? e il bene, non è forse il male? e dio non è una raffinata invenzione del diavolo? In fondo, forse, non è tutto falso? E se noi siamo ingannati, non siamo forse, appunto per questo, anche ingannatori? non dobbiamo essere anche degli ingannatori?» — tali sono i pensieri che lo conducono e lo seducono, sempre più in là, sempre più lontano. Lo circonda e lo stringe la solitudine, sempre più minacciosa, soffocante, angosciosa, dea terribile e mater saeva cupidinum — ma oggi, chi sa cosa sia la solitudine?...

4.

Da questo morboso isolamento, dal deserto di tali anni di esperimenti, ancor lungo è il cammino per giungere a quella enorme e dirompente sicurezza e salute, che non può fare a meno della stessa malattia, come strumento ed esca della conoscenza; per giungere a quella matura libertà dello spirito che è dominio di sé e disciplina del cuore e insieme la via per molti e opposti modi di pensare — a quella interiore amplitudine e incontentabilità che deriva dall'eccessiva ricchezza ed esclude il pericolo che lo spirito si perda, invaghendosene, nei suoi propri sentieri e, inebriato, resti fermo in un qualche angolo; sino a quella sovrabbondanza di forze plasmatrici, risanatrici, ricostitutrici che è appunto il segno della grande salute, sovrabbondanza che conferisce allo spirito libero il pericoloso privilegio di poter vivere dell'esperimento e di potersi dare all'avventura: il privilegio dello spirito libero che si fa maestro! In mezzo vi saranno lunghi anni di convalescenza, anni pieni di variopinte trasformazioni, dall'incanto doloroso, dominati e guidati da una tenace volontà di guarigione che spesso già osa prender l'abito della salute. C'è in essi uno stato intermedio, che un uomo di tal destino ricorderà più tardi non senza commozione: gli sono propri una pallida delicata luce e una solare felicità, un sentimento di aver acquisito libertà e fierezza d'uccello, e anche una visione aerea delle cose; qualcosa di diverso, che nasce dalla combinazione di curiosità e di lieve disprezzo. Uno «spirito libero»: questa fredda parola fa bene a chi è in quello stato, quasi riscalda. Si vive, sciolti ormai dalle catene dell'amore e dell'odio, senza sì e senza no, liberamente avvicinandosi e allontanandosi, ma preferendo sgusciar via, sottrarsi, sfarfalleggiare, volando ancora via, ancora in alto; si è viziati, come chiunque abbia visto una volta sotto di sé una varietà immensa di cose — e ci si viene a contrapporre a chi si preoccupa di cose che non lo riguardano. In realtà, riguardano lo spirito libero ormai solo quelle cose — e quante! — che non lo preoccupano più...

5.

Un passo avanti nella guarigione: e lo spirito libero si accosta di nuovo alla vita, anche se lentamente, quasi a malincuore, con diffidenza. Intorno a lui tutto torna ad essere più caldo, più solare; il sentimento di sé e degli altri si acuisce, e brezze di ogni sorta spirano intorno a lui. Ha quasi la sensazione che solo ora i suoi occhi si aprano a ciò che è vicino. È stupito, e siede in silenzio: dov'era dunque? Queste cose vicine e vicinissime, come gli appaiono mutate! di quale lanugine e incanto si sono rivestite nel frattempo! Egli volge indietro lo sguardo con riconoscenza — riconoscenza per le sue peregrinazioni, per la sua durezza ed autoestraneamento, per il suo guardar lontano e i suoi voli d'uccello nelle fredde altezze. Quanto è bene che non sia rimasto sempre «a casa», sempre «presso di sé», come un timido e ottuso perdigiorno! Egli è stato fuori di sé: non v'è dubbio. Solo ora egli vede se stesso, e quali sorprese non vi scopre! quali brividi mai provati! Quale felicità, persino nella stanchezza della vecchia malattia, nelle ricadute del convalescente! Che piacere prova, a sedere in silenziosa sofferenza, a intessere una trama di pazienza, a giacere al sole! Chi può capire meglio di lui la gioia dell'inverno, di una macchia di sole sul muro? Sono gli animali più riconoscenti del mondo, e anche i più umili, questi convalescenti e lucertole già mezzo rivolti alla vita: — tra essi v'è chi non lascia passar giorno senza appendere alla sua scia un piccolo inno di sole. E, parlando seriamente: è una cura radicale contro ogni pessimismo (che, com'è noto, è il cancro dei vecchi idealisti e dei bugiardi) ammalarsi al modo di questi spiriti liberi, restar lungamente malati e poi, ancor più lentamente, più lentamente, ritornar sani, o meglio «più sani». V'è saggezza, saggezza di vita, nel prescriversi a lungo la salute stessa a piccole dosi.

6.

In quel periodo può infine accadere, tra i bagliori improvvisi di una salute ancora irruente e capricciosa, che allo spirito libero, sempre più libero, si cominci a svelare il mistero di quella grande liberazione, che sino a quel momento aveva atteso, oscuro, problematico e quasi intoccabile, nella sua memoria. Se a lungo egli quasi non aveva osato chiedersi: «Perché così isolato, così solo? rinunciando a tutto quanto veneravo, persino alla disperazione? perché questa durezza, questa diffidenza, questo odio per le mie stesse virtù?» — ora osa, e interroga a voce spiegata, e già ode qualcosa di simile a una risposta. «Dovevi diventare signore di te, signore anche delle tue virtù. Prima esse ti dominavano: ora possono solo essere uno strumento in mano tua, accanto ad altri strumenti. Dovevi acquistar potere sui tuoi pro e contro, e imparare a innestarli e disinnestarli a seconda del tuo scopo superiore. Dovevi imparare a capire quanto c'è di prospettico in ogni definizione di valore — lo spostamento, la distorsione, e l'apparente teleologia degli orizzonti e quanto altro fa parte del prospettico; e anche quel tanto di stupidità che si riferisce a ogni contrapposizione di valori, e tutto lo scapito intellettuale con cui si paga ogni pro e ogni contro. Dovevi imparare a capire la necessaria ingiustizia insita in ogni pro e contro, l'ingiustizia come elemento inscindibile della vita, e la vita stessa come condizionata dalla visione prospettica, e dalla sua ingiustizia. Dovevi soprattutto vedere con i tuoi occhi dove l'ingiustizia raggiunge il massimo grado: ossia là, dove la vita è meno sviluppata, più angusta, manchevole, rozza, e ciononostante non può fare a meno di porsi a scopo e misura delle cose e, per amore di sopravvivenza, di sbriciolare in segreto, minutamente e senza posa, mettendolo in questione, tutto quanto è più elevato, più grande e ricco; dovevi vedere con i tuoi occhi il problema della gerarchia, e come la forza, il diritto e l'ampiezza della prospettiva si sviluppino insieme. Dovevi...» basta, ormai lo spirito libero sa a quale «dovere» ha obbedito, e anche di che cosa ora è capace, e che cosa solo ora gli è consentito...

7.

In siffatto modo lo spirito libero dà risposta circa l'enigma di quella liberazione e, generalizzando il suo caso, finisce per dare di questa sua esperienza il seguente giudizio. «Come è successo a me, egli si dice, dovrà succedere a ogni uomo nel quale un compito voglia prender corpo e venire al mondo.» La segreta forza e necessità di quel compito governerà sopra ed entro i suoi destini particolari, come una gravidanza insospettata — molto prima che egli ne abbia preso coscienza e ne conosca il nome. La nostra destinazione dispone di noi anche se ancora non la conosciamo; è il futuro che stabilisce la regola del nostro presente. Posto che sia quello della gerarchia, il problema di cui noi spiriti liberi possiamo dire: è il nostro problema, solo ora, giunti al mezzodì della vita, noi comprendiamo quanti preparativi, vie indirette, prove, tentazioni e travestimenti il problema abbia richiesto, prima di poter salire sino a noi, e come noi abbiamo dovuto sperimentare nell'anima e nel corpo i più molteplici e contraddittori stati di miseria e di felicità, come avventurieri e circumnavigatori di quel mondo interiore che si chiama «uomo», come misuratori di ogni essere «più in alto» e di ogni «sovrapporsi» reciproco che ugualmente caratterizza P«uomo», penetrando ovunque, quasi senza paura, nulla disdegnando, nulla perdendo, assaporando tutto, tutto purificando e per così dire filtrando dal casuale — prima di poter finalmente dire, noi spiriti liberi: «Ecco, un nuovo problema! Ecco una lunga scala sui cui pioli noi stessi siamo stati seduti e siamo saliti — che una volta noi stessi siamo stati ! Ecco un più alto, un più profondo, un sotto di noi, un ordinamento lunghissimo, una gerarchia, che noi vediamo: ecco — il nostro problema!».

8.

A nessuno psicologo e indovino resterà celato nemmeno per un istante a qual punto dell'evoluzione qui sopra descritta questo libro appartenga (o sia collocato). Ma oggi, dove sono gli psicologi? In Francia, certo; forse in Russia; ma in Germania no davvero. Non mancano motivi per cui i tedeschi di oggi potrebbero ascriversi tale assenza ad onore: cosa abbastanza triste per uno che, a questo proposito, è non-tedesco per indole e per educazione! Questo libro tedesco, che ha saputo trovar lettori in una vasta cerchia di paesi e di popoli — è in giro da quasi dieci anni — e deve intendersi in qualche modo di musica e arte del flauto, se ha potuto sedurre all'ascolto anche il più scontroso orecchio straniero, ebbene, proprio in Germania questo libro è stato letto con maggior distrazione, e ascoltato nel modo peggiore: perché questo? «Esso esige troppo, mi è stato risposto, si rivolge a uomini non pungolati da pesanti doveri, vuole sensi sottili e raffinati, ha bisogno del sovrappiù, sovrappiù di tempo, di serenità di cielo e di cuore, di otium nel senso più audace: tutte belle cose che noi tedeschi di oggi non possediamo, e che quindi non possiamo neanche dare.» A una risposta del genere, la mia filosofia mi consiglia di tacere e non domandare oltre; giacché in certi casi, dice il proverbio, si rimane filosofi solo a patto di tacere.

Nizza, primavera del 1886

PARTE PRIMA

Delle prime e ultime cose

1.

Chimica dei concetti e dei sentimenti. — I problemi filosofici assumono, oggi, quasi sotto ogni aspetto, la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo contrario, ad esempio il razionale dall'irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall'illogicità, una contemplazione disinteressata da una volontà bramosa, un vivere altruistico dall'egoismo, la verità dall'errore? La filosofia metafìsica ha cercato finora di superare questa difficoltà negando che l'una cosa potesse nascere dall'altra e supponendo, per le cose considerate superiori, un'origine magica, direttamente dal nucleo essenziale della «cosa in sé». Di contro la filosofia storica, che ormai non si può più pensare separata dalla scienza naturale ed è il più recente di tutti i metodi filosofici, ha stabilito in singoli casi (ed è da supporre che tale sarà la sua conclusione per tutti i casi) che non si tratta di opposti, se non nell'usuale esagerazione delle concezioni popolari o metafìsiche, e che questa contrapposizione si fonda su un errore della ragione: stando ad essa non esiste, a rigor di termini, né un agire non egoistico, né una contemplazione affatto disinteressata; l'uno e l'altra sono soltanto sublimazioni, nelle quali l'elemento di base appare quasi volatilizzato, e rivela la sua presenza solo ad una osservazione più sottile. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e che allo stadio attuale delle singole scienze può esserci concesso, è una chimica delle idee e dei sentimenti, morali, religiosi, estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimentiamo in noi nel grande e piccolo commercio con la cultura e la società e persino nella solitudine: ma che accadrebbe, se questa chimica finisse per concludere che anche in questo campo i colori più belli sono quelli che si ricavano da una materia umile, e persino spregiata? Quanti avranno voglia di seguire tali indagini? L'umanità ama fugare dalla propria mente gli interrogativi sull'origine e sugli inizi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l'inclinazione contraria?

2.

Difetti ereditari dei filosofi. — Tutti i filosofi hanno in comune il difetto di partire dall'uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso la sua analisi. «L'uomo» si delinea automaticamente ai loro occhi come una aeterna veritas, come un essere sempre uguale a se stesso in ogni vortice, come una sicura misura delle cose. Ma tutto quello che il filosofo enuncia sull'uomo non è altro che una testimonianza sull'uomo di un periodo quanto mai limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi: alcuni di essi arrivano persino a prendere di punto in bianco la più recente configurazione dell'uomo, quale è venuta delineandosi sotto l'influsso di determinate religioni e di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si deve partire. Non vogliono imparare che l'uomo si è fatto, che anche la capacità di conoscere si è fatta: mentre alcuni di loro da questa capacità di conoscere si fanno addirittura inventare il mondo intero. Ora, tutto l'essenziale del progredire umano è avvenuto in tempi remoti, molto precedenti a quei quattromila anni che noi approssimativamente conosciamo e nei quali l'uomo non può essersi cambiato di molto. Ma il filosofo vede nell'uomo attuale «istinti», e presume che questi faccian parte dei fatti immutabili dell'uomo e possano pertanto fornire una chiave per la comprensione del mondo in generale; l'intera teleologia si basa sul fatto che si parla dell'uomo degli ultimi quattromila anni come di un uomo eterno, verso il quale convergono naturalmente, sin dal loro inizio, tutte le cose del mondo. Ma tutto si è fatto: non esistono fatti eterni, come non esistono verità assolute. Perciò, da ora in poi, è necessario il filosofare storico, e, con esso, la virtù della modestia.

3.

Valutazione delle verità non appariscenti. — È segno distintivo di una cultura superiore valutare le verità piccole, non appariscenti, scoperte con metodo rigoroso, più degli errori gratificanti e abbaglianti nati da epoche e uomini metafìsici e artistici. Sulle prime si ha per esse un moto di scherno, come se non stessero a fronte cose di ugual legittimità: quanto modeste, semplici, sobrie, anzi apparentemente avvilenti si pongono quelle, tanto belli, fastosi, esaltanti, forse persino beatificanti stanno questi. Ma ciò che è conquistato con fatica, ciò che è durevole, e perciò stesso anche ricco di conseguenze per ogni ulteriore conoscenza, è tuttavia superiore: attenersi ad esso è virile e indica coraggio, schiettezza, sobrietà. A poco a poco non solo il singolo, ma l'intera umanità sarà elevata a questa virilità, quando finalmente si sarà avvezza a considerare superiori le conoscenze solide, durevoli, e avrà perduto ogni fede nell'ispirazione e nelle prodigiose rivelazioni della verità. A tutta prima gli adoratori delle forme, con il loro criterio del bello e del sublime, avranno senz'altro buoni motivi di scherno, non appena la valutazione delle verità non appariscenti e lo spirito scientifico cominceranno a imporsi: ma solo perché i loro occhi non si sono ancora aperti all'incanto della forma più semplice, oppure perché gli uomini educati in quello spirito non ne saranno, ancora per lungo tempo, intimamente e pienamente compenetrati, così da continuare inconsciamente a imitare forme vecchie (e abbastanza male, come chi faccia una cosa di cui non gli importi più tanto). Una volta lo spirito non era preso da un pensiero rigoroso, e la sua serietà consisteva nell'escogitare simboli e forme. Ora è diverso: quella serietà del simbolico è divenuta il contrassegno della cultura inferiore. Come le nostre stesse arti vanno facendosi sempre più intellettuali, i nostri sensi più spirituali e come, ad esempio, oggi si giudica in modo affatto diverso da cent'anni fa che cosa suoni bene ai sensi: così anche le fonile della nostra vita diventano sempre più spirituali, per un occhio del tempo antico forse più brutte, ma solo perché questo non è in grado di vedere come il regno della bellezza interiore, spirituale, si faccia sempre più vasto e profondo, e sino a che punto lo sguardo intelligente oggi possa per tutti noi valere più della più bella struttura fìsica e della più sublime architettura.

4.

Astrologia e affini. — È verosimile che gli oggetti del sentire religioso, morale ed estetico appartengano tutti soltanto alla superficie delle cose, mentre l'uomo ama credere di toccare, con essi, quanto meno il cuore del mondo; s'inganna per il fatto che quelle cose lo rendono tanto beato o tanto infelice, e mostra dunque qui la stessa presunzione che nell'astrologia. Questa infatti sostiene che le costellazioni ruotino intorno al destino dell'uomo; ma l'uomo morale parte dal presupposto che ciò che gli sta più profondamente a cuore debba anche formare l'essenza e il cuore delle cose.

5.

Fraintendimento del sogno. — Ai tempi di una cultura rozza e primordiale l'uomo credeva di conoscere nel sogno un secondo mondo reale; qui sta l'origine di ogni metafisica. Senza il sogno non si sarebbe trovato alcun motivo per scindere il mondo. Anche la scomposizione in corpo e anima è connessa a questa antichissima concezione del sogno, e così pure l'ipotesi di un'apparente corporeità dell'anima, dunque l'origine di ogni credenza negli spiriti e verosimilmente anche della fede negli dèi. «Il morto continua a vivere, giacché appare in sogno al vivo»: così si concluse allora, per molti millenni.

6.

Lo spirito della scienza potente solo nella parte, non nel tutto. — I campi separati, più piccoli, della scienza vengono trattati in modo affatto oggettivo: le grandi scienze generali invece, considerate come un tutto, fan salire alle labbra una domanda, invero assai poco oggettiva: a che scopo? per quale utilità? Per questa preoccupazione dell'utilità esse, intese come un tutto, vengono trattate meno impersonalmente che non nelle loro singole parti. Nella filosofia addirittura, in quanto vertice dell'intera piramide del sapere, viene involontariamente posta la questione dell'utilità della conoscenza in generale, e ogni filosofia tende inconsciamente ad ascriverle la massima utilità. Per questo esistono in tutte le filosofie tanti voli metafisici e tanto orrore per i risultati apparentemente irrilevanti della fisica; infatti l'importanza della conoscenza per la vita deve apparire quanto più grande possibile. Qui sta l'antagonismo tra i singoli campi della scienza e la filosofia. Quest'ultima si prefigge lo stesso scopo dell'arte: dare alla vita e alle azioni la massima profondità e il massimo significato; per prima cosa si cerca nient'altro che la conoscenza, qualunque cosa possa derivarne. Non c'è stato ancora filosofo, nelle cui mani la filosofìa non sia diventata un'apologia della conoscenza; su questo punto almeno sono tutti ottimisti, che ad essa cioè debba venir attribuita la massima utilità. Tutti loro vengono tiranneggiati dalla logica: e questa è, per sua natura, ottimismo.

7.

I guastafeste nella scienza. — La filosofia si separò dalla scienza quando pose la domanda: qual è quella conoscenza del mondo e della vita nella quale l'uomo vive più felice? Questo accadeva nelle scuole socratiche: con il punto di vista della felicità si legarono le vene alla ricerca scientifica - e lo si fa ancor oggi.

8.

Spiegazione pneumatica della natura. — La metafisica spiega la scrittura della natura in modo per così dire pneumatico, come la chiesa e i suoi dottori facevano una volta con la Bibbia. Occorre molta intelligenza per applicare alla natura lo stesso genere di severa esegesi che oggi i filologi hanno creato per tutti i libri: con l'intento semplicemente di capire quel che il testo vuol dire, ma non di intuire o addirittura presupporre un doppio senso. Ma come, persino per i libri, la cattiva esegesi non è affatto superata del tutto e nella migliore società colta ci si continua a imbattere in residui di interpretazioni allegoriche o mistiche, così è anche nei riguardi della natura — anzi molto peggio.

9.

Mondo metafisico. — È vero, potrebbe esistere un mondo metafisico: l'assoluta possibilità di esso non può essere negata. Noi vediamo tutte le cose con la testa dell'uomo, né questa possiamo tagliarla; ma resta pur sempre la domanda: che cosa resterebbe del mondo, se tuttavia l'avessimo tagliata? Questo è un problema squisitamente scientifico e non molto atto a preoccupare gli uomini; ma tutto ciò che sinora ha reso loro preziose, terrificanti, piacevoli le ipotesi metafisiche, ciò che le ha generate, è passione, errore e autoinganno; i peggiori metodi di conoscenza, non i migliori, hanno insegnato a credere in esse. Una volta scoperti questi metodi come fondamento di tutte le metafisiche e le religioni esistenti, le si è anche confutate. Allora rimane pur sempre quella possibilità; ma con essa non si può far nulla, per non dire poi che dal filo sottilissimo di essa si dovrebbero far dipendere felicità, salute e vita. Non si potrebbe infatti dire del mondo metafisico, se non che esso è un essere-Altro, a noi inaccessibile, inafferrabile; sarebbe una cosa con proprietà negative. Anche se l'esistenza di un tale mondo fosse ben dimostrata, una cosa sarebbe pur sempre certa, che la conoscenza di esso sarebbe la più indifferente di tutte le conoscenze: ancor più indifferente di quanto non debba essere, per chi naviga in un mare tempestoso, la conoscenza dell'analisi chimica dell'acqua.

10.

Innocuità della metafisica nel futuro. — Una volta che religione, arte e morale saranno descritte nel loro sorgere in modo che le si possa perfettamente spiegare senza ricorrere, all'inizio e nel corso di questo processo, all'ipotesi di interventi metafisici, cesserà il fortissimo interesse per il problema puramente teoretico della «cosa in sé» e dell'«apparenza». Infatti, comunque stiano le cose, con religione, arte e morale non tocchiamo l'«essenza del mondo in sé»; noi siamo nell'ambito della rappresentazione, né alcuna «intuizione» può portarci oltre. In tutta tranquillità si rimetterà alla fisiologia e alla storia dell'evoluzione degli organismi e delle idee il problema di come la nostra immagine del mondo possa essere tanto diversa dalla dischiusa essenza del mondo.

11.

La lingua come presunta scienza. — Il significato della lingua per l'evoluzione della cultura consiste nel fatto che in essa l'uomo pose un proprio mondo accanto all'altro, un luogo che egli riteneva tanto solido da potere, appoggiandosi ad esso, scardinare il resto del mondo e farsene signore. In quanto l'uomo ha creduto, per lungo tempo, ai concetti e ai nomi delle cose come ad aeternae veritates, ha acquisito quell'orgoglio con il quale si è elevato al di sopra della bestia: nella lingua egli riteneva di possedere veramente la coscienza del mondo. Il plasmatore del linguaggio non era così modesto da credere di dare semplicemente designazioni alle cose, egli immaginava piuttosto di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose; in effetti la lingua è il primo gradino dello sforzo verso la scienza. Anche qui, è là fede nella verità trovata quella da cui sono sgorgate le più poderose sorgenti di energia. Molto più tardi — soltanto ora — agli uomini comincia a balenare l'idea di aver propagato, con la loro fede nel linguaggio, un errore mostruoso. Fortunatamente è troppo tardi perché ciò possa far regredire lo sviluppo della ragione, che si fonda appunto su quella fede. Anche la logica si basa su premesse che non trovano corrispondenza alcuna nel mondo reale, ad esempio sulla premessa dell'uguaglianza delle cose, dell'identità della stessa cosa in momenti diversi: ma tale scienza è nata dalla fede opposta (che cioè nel mondo reale esistano comunque cose simili). Lo stesso accade anche per la matematica, che certo non sarebbe nata se si fosse saputo sin dall'inizio che in natura non esiste una linea esattamente dritta, né un vero cerchio, né una assoluta misura di grandezza.

12.

Sogno e cultura. — La funzione cerebrale più compromessa dal sonno è la memoria: non già che essa si interrompa, ma è riportata a quello stato di incompletezza nel quale, in tempi remotissimi dell'umanità, ciascun uomo doveva trovarsi di giorno e da sveglio. Capricciosa e confusa qual è, essa scambia continuamente le cose in base alle più fuggevoli analogie: ma è lo stesso capriccio e la stessa confusione con i quali i popoli antichi inventarono le loro mitologie, e ancor oggi i viaggiatori non mancano di osservare quanto il selvaggio sia incline alla dimenticanza e come il suo spirito, dopo un breve sforzo della memoria, cominci a vacillare e, per mera stanchezza, pronunci menzogne e assurdità. Ma, nel sogno, siamo tutti come quel selvaggio; il cattivo riconoscere e l'erroneo indentificare sono la causa del cattivo dedurre di cui ci rendiamo colpevoli nel sogno: sicché, se ci richiamiamo alla mente un sogno con chiarezza, ci spaventiamo di noi stessi, tanta è la pazzia che si nasconde in noi. La perfetta chiarezza di tutte le rappresentazioni oniriche, la quale ha come presupposto la fede incondizionata nella loro realtà, ci riporta ad antichi stati dell'umanità, quando l'allucinazione era oltremodo frequente e prendeva intere comunità, interi popoli. Dunque, nel sonno e nel sogno, noi eseguiamo ancora una volta il compito dell'umanità primitiva.

13.

Logica del sogno. — Nel sonno il nostro sistema nervoso è continuamente stimolato da molteplici cause interne, quasi tutti gli organi secernono e sono in attività, il sangue percorre impetuoso il suo circolo, la posizione del dormiente preme su singole membra, le coperte influenzano in vari modi la sensazione, lo stomaco digerisce e con i suoi movimenti agita altri organi, gli intestini si torcono, la posizione del capo produce insolite situazioni muscolari, i piedi che, scalzi, non premono il suolo, provocano il sentimento dell'insolito come il diverso abbigliamento del corpo: tutto ciò, secondo gradi e mutamenti quotidiani, eccita con la sua eccezionalità l'intero sistema, sino alla funzione cerebrale; lo spirito ha così cento occasioni di stupirsi e di cercare le cause di questa eccitazione: ma il sogno è ricerca e rappresentazione delle cause di quelle sensazioni eccitate, ossia delle cause presunte. Chi ad esempio si cinge i piedi con due strisce di cuoio, può benissimo sognare che attorno ai suoi piedi siano avvolti due serpenti: ciò sarà dapprima una ipotesi, ma subito dopo una fede, accompagnata da una rappresentazione fantastica: «Questi serpenti debbono essere la causa delle sensazioni che io, dormiente, provo», così giudica lo spirito del dormiente. Il passato prossimo, così dedotto, tramite la fantasia eccitata gli diventa presente. Così ognuno sa per esperienza con quanta rapidità colui che sogna intrecci nel suo sogno un suono penetrante che giunga sino a lui, ad esempio un rintocco di campane, il rombo di un cannone, ossia lo spiega a posteriori, cosicché crede di vivere prima le circostanze che producono quel suono, e poi il suono stesso. Ma come accade che lo spirito di chi sogna s'inganna sempre, quello stesso spirito che, durante la veglia, è così freddo, prudente e così scettico circa le ipotesi? al punto che gli basta una prima ipotesi qualsiasi capace di spiegare una sensazione, per credere subito alla sua verità? (Infatti quando sogniamo noi crediamo al sogno come fosse realtà, consideriamo cioè la nostra ipotesi come pienamente dimostrata). — Come, ancora oggi, l'uomo deduce nel sogno, così l'umanità, molti millenni or sono, deduceva anche durante la veglia: la prima causa che si presentava allo spirito per spiegare un qualcosa, che richiedeva una spiegazione, gli bastava e aveva per esso valore di verità. (In modo simile si comportano ancor oggi, a detta dei viaggiatori, i selvaggi). Nel sogno continua ad agire in noi questo antichissimo frammento di umanità, poiché esso è la base sulla quale si è sviluppata, e ancora si sviluppa in ogni uomo, la ragione: il sogno ci riporta a lontani stati della cultura umana e ci fornisce un mezzo per comprenderla meglio. Il pensiero onirico ci è ora così facile per il fatto che noi, durante tratti immensi dello sviluppo umano, siamo stati così bene addestrati a questa forma, fantastica e facile, di trovare una spiegazione nella prima idea che ci venisse in mente. In questo senso il sogno è un riposo per il cervello, il quale durante il giorno deve far fronte alle più severe esigenze di pensiero che una cultura più elevata pone. Anche durante la veglia possiamo osservare un processo affine addirittura come porta e atrio del sogno. Se chiudiamo gli occhi, il nostro cervello produce una quantità di impressioni luminose e di colori, probabilmente come strascico ed eco di tutti quegli effetti di luce che di giorno vi penetrano. Ora, però, l'intelletto (in lega con la fantasia) si affretta ad elaborare quei giochi cromatici, di per sé informi, in determinate figure, forme, paesaggi, gruppi animati. Il vero processo è qui, ancora una volta, una sorta di deduzione dall'effetto alla causa; nel momento in cui lo spirito chiede donde provengano quelle impressioni luminose e quei colori, suppone come cause quelle figure e quelle forme; queste sono per esso il motivo di quei colori e di quelle luci dal momento che, di giorno, ad occhi aperti, è avvezzo a trovare la causa determinante di ogni colore, di ogni impressione luminosa. In questo caso dunque la fantasia gli propone senza sosta delle immagini, appoggiandosi, nel produrle, alle impressioni visive del giorno, e la stessa cosa fa la fantasia onirica: ossia la causa presunta viene dedotta dall'effetto e immaginata dopo l'effetto: tutto ciò con eccezionale rapidità, cosicché in questa circostanza, come in un gioco di prestigio, può generarsi una confusione del giudizio e la successione presentarsi come contemporaneità, anzi come una contemporaneità rovesciata. Da questi processi possiamo rilevare quanto tardi si siano sviluppati un pensiero logico di maggiore acutezza e la rigorosa deduzione di causa ed effetto, se ancor oggi le nostre capacità intellettive e raziocinanti attingono involontariamente a quelle forme primitive di deduzione, e se in questo stato noi trascorriamo quasi la metà della nostra vita. Anche il poeta, l'artista, immagina, alla base dei suoi stati d'animo e dei suoi umori, cause che non sono affatto quelle vere; in questo egli ci ricorda un'umanità più antica, e può aiutarci a capirla meglio.

14.

Consonanza. — Ogni stato d'animo più intenso porta con sé una consonanza di sensazioni e stati d'animo affini; essi per così dire frugano dentro la memoria. Con essi, questa si ricorda di qualcosa dentro di noi e prende coscienza di situazioni analoghe e della loro origine. Si formulano così usuali, rapidi collegamenti di sentimenti e di pensieri i quali, se si susseguono con la rapidità del lampo, finiscono per essere percepiti non più come complessi, ma come unità. In questo senso si parla di sentimento morale, di sentimento religioso, come se fossero pure unità: in realtà sono fiumi dalle cento sorgenti e dai cento affluenti. Anche in questo caso, come accade tanto spesso, l'unità della parola non garantisce in nulla l'unità della cosa.

15.

Nessun dentro e nessun fuori nei mondo. — Come Democrito trasferì i concetti «sopra» e «sotto» allo spazio infinito, dove essi non hanno alcun senso, così i filosofi in generale trasferiscono il concetto «dentro e fuori» all'essenza e all'apparenza del mondo; pensano che con sentimenti profondi si giunga profondamente nell'intimo, ci si avvicini al cuore della natura. Ma questi sentimenti sono profondi solo in quanto, con essi, si ridestano regolarmente, appena percepibili, complicati gruppi di pensieri che noi chiamiamo profondi; un sentimento è profondo in quanto noi riteniamo profondo il pensiero che vi si accompagna. Ma il pensiero «profondo» può essere tuttavia molto lontano dalla verità, come ad esempio quello metafisico; se dal sentimento profondo si sottraggono gli elementi di pensiero che vi sono mescolati, resta solo il sentimento forte, che a garanzia della conoscenza non offre altro che se stesso, allo stesso modo che una forte fede dimostra solo la propria forza, non la verità del suo oggetto.

16.

Fenomeno e cosa in sé. — I filosofi son soliti porsi davanti alla vita e all'esperienza — davanti a ciò che essi chiamano il mondo dei fenomeni — come davanti a un quadro, che sia svolto una volta per tutte e indichi, in modo invariabile e fìsso, lo stesso procedimento: questo procedimento, pensano, bisogna interpretarlo rettamente, per trarne una deduzione sull'essere che ha prodotto il quadro: dunque sulla cosa in sé, che è sempre vista come la ragion sufficiente del mondo dei fenomeni. Di contro, logici più rigorosi, dopo aver acutamente definito il concetto del metafisico come quello del non condizionato, e di conseguenza anche del non condizionante, hanno negato ogni rapporto tra il non condizionato (il mondo metafisico) e il mondo che noi conosciamo: cosicché appunto nel fenomeno non comparirebbe affatto la cosa in sé, e ogni deduzione da quello a questa sarebbe da respingere. Ma sia gli uni che gli altri hanno trascurato la possibilità che quel quadro — ciò che ora per noi uomini si chiama vita ed esperienza — sia divenuto a poco a poco, anzi sia ancora in divenire, e non debba pertanto esser considerato come una grandezza fìssa, dalla quale si possa trarre, o anche solo respingere, una conclusione sul suo autore (la ragion sufficiente). Proprio per il fatto che noi, da millenni, abbiamo guardato nel mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca attrazione, passione o timore, e ci siamo lasciati andare agli eccessi del pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così stupendamente variopinto, terribile, profondo di significato e pieno di anima, ha insomma acquistato colore — ma a colorarlo siamo stati noi: l'intelletto umano ha fatto comparire il fenomeno e ha trasposto nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali. Tardi, molto tardi, esso riflette: e ora il mondo dell'esperienza e la cosa in sé gli appaiono così eccezionalmente diversi e separati, che respinge la deduzione da quello a questa — oppure esorta, in maniera tremendamente misteriosa, a rinunciare al nostro intelletto, alla nostra volontà personale: per giungere all'essenziale attraverso il farsi essenziali. Altri dal canto loro hanno raccolto insieme tutti i tratti caratteristici del nostro mondo dei fenomeni — ossia della rappresentazione del mondo da noi ereditata, nata dai deliri di errori intellettuali — e, anziché dichiarare colpevole l'intelletto, hanno accusato l'essenza delle cose come causa di questo carattere effettivo, molto inquietante, del mondo e hanno predicato la redenzione dall'essere. Di tutte queste concezioni si sbarazzerà definitivamente il costante e faticoso processo della scienza, che celebrerà finalmente il suo massimo trionfo in una storia genetica del pensiero, e il cui risultato potrebbe forse giungere fino a questo principio: ciò che noi ora chiamiamo mondo è il risultato di una quantità di errori e di fantasie che, sorti a poco a poco durante tutto lo sviluppo degli esseri organici, sono cresciuti, e sono stati ereditati da noi come tesoro accumulato dell'intero passato: come un tesoro, in quanto su di esso si basa il valore della nostra umanità. In realtà, la scienza rigorosa può liberarci da questo mondo della rappresentazione solo in misura minima — e una cosa diversa non sarebbe affatto augurabile — in quanto non può essenzialmente infrangere la forza di antichissime abitudini del modo di sentire: ma può lentamente e per gradi rischiarare la storia della nascita di quel mondo come rappresentazione, e innalzarci, almeno per qualche istante, al di sopra dell'intero processo. Forse allora ci renderemo conto che la cosa in sé è degna di una omerica risata: che essa sembrava tanto, anzi tutto, mentre in effetti è vuota, ossia vuota di significato.

17.

Spiegazioni metafisiche. — Il giovane apprezza le spiegazioni metafisiche perché esse gli indicano, in cose che trovava sgradevoli o spregevoli, qualcosa di altamente significativo; e, se è scontento di sé, questo sentimento si allevia se egli riconosce, in ciò che in sé tanto sprezza, il profondo mistero o la miseria del mondo. Sentirsi irresponsabile, e allo stesso tempo trovare le cose più interessanti: questo è per lui il duplice benefìcio di cui esser grato alla metafisica. Più tardi, invero, diffiderà di ogni sorta di spiegazione metafisica; allora forse si renderà conto che quegli effetti si possono raggiungere, altrettanto bene e più scientificamente, per altra via: che spiegazioni fisiche e storiche producono per lo meno il medesimo sentimento di irresponsabilità, e che quell'interesse alla vita e ai suoi problemi ne risulta forse ancor più ravvivato.

18.

Problemi fondamentali della metafisica. — Se mai verrà scritta la storia genetica del pensiero, essa conterrà anche, illuminata di nuova luce, il seguente principio di un eccellente logico: «La legge originaria, generale del soggetto conoscente consiste nell'intima necessità di conoscere ogni oggetto in sé, nella sua essenza, come un oggetto identico a se stesso, dunque esistente di per sé e in fondo sempre uguale e immutabile, in breve come una sostanza». Anche questa legge, che qui è detta «originaria», è divenuta: un giorno si mostrerà come questa tendenza nasca a poco a poco, negli organismi inferiori: come i ciechi occhi di talpa di questi organismi vedano dapprima sempre la stessa cosa; come poi, quando si fanno più marcate le diverse eccitazioni di piacere e dolore, vengano via via distinte varie sostanze, ciascuna però con un solo attributo, ossia con un unico rapporto con un tale organismo. — Il primo gradino del pensiero logico è il giudizio: la sua essenza consiste, secondo quanto hanno stabilito i migliori logici, nella fede. Alla base di ogni fede c'è la sensazione del piacevole o del doloroso in rapporto al soggetto senziente. Una terza, nuova sensazione, risultato delle due singole sensazioni precedenti, è il giudizio nella sua forma più bassa. — A noi esseri organici, in origine, di una cosa non interessa altro se non il suo rapporto con noi in relazione al piacere o al dolore. Tra i momenti in cui diveniamo consapevoli di questo rapporto, gli stati del sentire, stanno quelli della quiete, del non sentire: allora il mondo e tutte le cose ci sono indifferenti, in essi non notiamo cambiamento alcuno (come, ancor oggi, un uomo fortemente interessato a qualcosa non si accorge che qualcuno gli passa accanto). Per la pianta, di norma tutte le cose sono quiete, eterne, uguali a se stesse. Dall'epoca degli organismi inferiori l'uomo ha ereditato la credenza che esistano cose uguali (solo l'esperienza derivata dalla scienza più alta contraddice questa tesi). La credenza originaria di ogni essere organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non condizionato, privo di nesso, che affiora in noi senza legami col prima e col dopo. Abbiamo fame, ma da principio non pensiamo che il nostro organismo voglia essere sostentato: quella sensazione sembra manifestarsi senza motivo e senza scopo, si isola e si ritiene arbitraria. Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell'uomo — come se fossero però verità fondamentali.

19.

Il numero. — L'invenzione delle leggi dei numeri fu fatta in base all'errore, che dominava sin dall'inizio, che esistessero più cose uguali (ma in effetti non c'è nulla di uguale), o almeno che esistessero cose (ma non c'è alcuna «cosa»). L'ipotesi della molteplicità presuppone sempre che ci sia qualcosa che si presenta come molteplice: ma proprio qui già regna l'errore, già qui noi ci fingiamo esseri, unità che non esistono. Le nostre sensazioni di spazio e tempo sono false, perché conducono, se esaminate coerentemente, a contraddizioni logiche. In ogni definizione scientifica noi calcoliamo sempre, inevitabilmente, con alcune grandezze false: ma, essendo queste grandezze per lo meno costanti, come ad esempio la nostra sensazione di tempo e spazio, i risultati della scienza acquistano pur sempre rigore e sicurezza perfetti nel loro nesso reciproco; su di essi si può continuare a costruire, sino a quel termine ultimo in cui l'errata ipotesi di base, quegli errori costanti, entrano in contraddizione con i risultati, come ad esempio nella dottrina degli atomi. Allora ci sentiamo ancor sempre costretti a supporre una «cosa» o un «substrato» materiale che viene mosso, mentre l'intero metodo scientifico ha perseguito appunto il compito di risolvere in movimenti tutto ciò che ha qualità di cosa (che è materiale): anche qui, con la nostra sensazione noi continuiamo a scindere ciò che muove da ciò che è mosso e non usciamo da questo circolo, perché la fede nelle cose è legata sin dall'antichità al nostro essere. Quando Kant dice: «la ragione non crea le sue leggi dalla natura, bensì le impone ad essa», ciò è perfettamente vero riguardo al concetto di natura che noi siamo costretti a collegare ad essa (natura = mondo come rappresentazione, cioè come errore), che è, però, la somma di una quantità di errori dell'intelletto. A un mondo che non sia una nostra rappresentazione, le leggi dei numeri sono affatto inapplicabili: esse valgono solo nel mondo degli uomini.

20.

Alcuni gradini all'indietro. — Un livello, certo molto alto, di cultura è raggiunto quando l'uomo supera le idee e le paure superstiziose e religiose e, ad esempio, non crede più ai cari angioletti o al peccato originale, e ha disimparato anche a parlare di salvezza delle anime: giunto a questo grado di liberazione, egli deve ancora superare, con grandissimo sforzo della sua riflessione, la metafisica. Poi però è necessario un movimento all'indietro: egli deve arrivare a una giustificazione storica, come pure psicologica, di tali rappresentazioni, deve riconoscere come di lì sia venuto il massimo incentivo per l'umanità e come, senza questo movimento all'indietro, ci si priverebbe dei migliori risultati sinora raggiunti dall'umanità. Riguardo alla metafisica filosofica, vedo ora che sempre più numerosi sono coloro che han raggiunto la meta negativa (che cioè ogni metafisica positiva sia un errore), ma pochi sono ancora quelli che scendono altri gradini in giù: si deve infatti guardare oltre l'ultimo gradino della scala, non voler restare fermi su di esso. I più illuminati arrivano solo a liberarsi dalla metafisica e a guardare ad essa con superiorità: mentre anche qui, come all'ippodromo, è pur necessario girare al termine della pista.

21.

Presumibile vittoria della scepsi. — Facciamo per una volta valere il punto di vista scettico: posto che non esista un altro mondo metafisico, e che tutte le interpretazioni, derivate dalla metafisica, dell'unico mondo che conosciamo siano per noi inservibili, con quali occhi guarderemmo agli uomini e alle cose? È utile meditare su questo, anche se un giorno la questione se Kant o Schopenhauer abbiano dimostrato scientificamente qualcosa di metafisico dovesse venire ricusata. Infatti, per storica probabilità, è possibilissimo che un giorno gli uomini diventino a tale riguardo generalmente scettici; allora la questione sarà: come si configurerà la società umana sotto l'influsso di un tale modo di pensare? Forse, la dimostrazione scientifica di un qualche mondo metafisico è già così difficile, che l'umanità non si libererà più dalla diffidenza nei suoi confronti. E se si diffida della metafisica, in complesso le conseguenze saranno le stesse che se la si fosse direttamente confutata e non fosse più lecito credere in essa. In ambedue i casi, la questione storica circa una mentalità non metafisica dell'umanità rimane la stessa.

22.

Mancanza di fede nel «monumentum aere perennius». — Uno svantaggio essenziale insito nella caduta in disuso dei punti di vista metafisici consiste nel fatto che l'individuo prende troppo strettamente in considerazione il breve periodo della sua vita e non riceve spinte più forti a edificare istituzioni durature, fondate per i secoli; vuol cogliere lui stesso il frutto dell'albero che ha piantato e perciò non vuole più piantare quegli alberi che richiedono una cura costante e secolare e sono destinati a dar ombra a una lunga serie di generazioni. Infatti le opinioni metafisiche infondono la fede che in esse stia l'ultimo, definitivo fondamento sul quale si debba di necessità basare e costruire ogni futuro dell'umanità; il singolo opera per la propria salvezza quando, ad esempio, fonda una chiesa o un monastero: di ciò gli verrà tenuto conto, così pensa, nell'eterno sopravvivere dell'anima, è un lavorare alla eterna salvezza dell'anima. Può la scienza suscitare anch'essa una fede simile nei suoi risultati? In realtà essa richiede come suoi alleati fedelissimi il dubbio e la diffidenza; tuttavia, col tempo, la somma delle verità intangibili, di quelle verità cioè che sopravvivono a ogni distruzione e a ogni tempesta della scepsi, può diventare tanto grande (ad esempio nella dietetica della salute), che ci si decide quindi a fondare opere «eterne». Per il momento, il contrasto tra la nostra inquieta, effimera esistenza e la quiete a lungo respiro di epoche metafisiche agisce ancora troppo fortemente, giacché le due epoche sono ancora troppo vicine; l'uomo singolo sperimenta oggi troppe evoluzioni interiori ed esteriori per osare sistemarsi, anche solo per l'arco di tempo della sua vita, in modo durevole e definitivo. Un uomo del tutto moderno che, ad esempio, voglia costruirsi una casa, prova in ciò la sensazione quasi di volersi murare ancor vivo in un mausoleo.

23.

Epoca del paragone. — Quanto meno gli uomini sono vincolati dalla tradizione, tanto maggiore diventa la spinta interiore delle motivazioni, e tanto più grande a sua volta, corrispondentemente, l'irrequietezza esteriore, il rimescolarsi degli uomini, la polifonia delle aspirazioni. Oggi per chi esiste ancora una costrizione severa a legare a un sol luogo sé e i propri discendenti? Per chi esiste ancora, in generale, qualcosa di rigidamente vincolante? Come si imitano, l'uno accosto all'altro, tutti gli stili artistici, così accade anche per tutti i gradi e le specie della moralità, dei costumi, delle culture. Un'epoca come questa acquista la sua importanza per il fatto che in essa possono venir paragonate e vissute tutte insieme le diverse visioni del mondo, i diversi costumi e le diverse culture; il che prima era impossibile, dato il dominio sempre localizzato di ogni cultura e il legame che intercorreva tra stili artistici, luogo e tempo. Oggi l'accresciuto senso estetico sceglierà tra le tante forme che si offrono al paragone: esso ne lascerà estinguere la maggior parte, quelle cioè che esso avrà respinte. Allo stesso modo, oggi è in atto

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