Peccati di gioventù
Di Valerio Arka
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Anteprima del libro
Peccati di gioventù - Valerio Arka
PREFAZIONE
Fra il 1981 e il 1983 mio padre scrisse una serie di bozze. Poi abbandonò il progetto, stampò tutto, lo rinchiuse in un raccoglitore ad anelli e ci appiccicò sopra un’etichetta che recitava "Peccati di gioventù". Scelse questo titolo perché paragonava il concetto di mettere idee su carta a quello di cedere in tentazione, la tentazione di profanare un mondo a lui sacro - la letteratura. Quando io lo lessi (tantissimi anni dopo) trovai le sue idee molto simpatiche, così gli proposi di lavorarci e di pubblicarlo insieme. Mio padre rispose che piuttosto avrei dovuto sfruttare le sue bozze per scrivere qualcosa di mio, che gli avrebbe fatto piacere leggere una mia reinterpretazione delle sue idee, ma che non aveva interesse a pubblicarle così com’erano. Già impegnato in altri settori letterari, rimandai. E forse fu quello il mio peccato di gioventù, perché lui non fece in tempo a vedere il risultato. Quando ci lasciò, nel maledetto gennaio del maledetto 2023, abbandonai tutti gli altri progetti per dedicarmi a Peccati di gioventù. Mantenendo la struttura ossea, l’idea fantascientifica alla base della narrazione di mio padre, ho riprogettato tutto da capo ricamandoci sopra, aggiungendo personaggi e trame, scrivendo dialoghi che non c’erano, descrivendo cose che non erano descritte, e piano piano ho visto i nostri peccati di gioventù assumere una forma concreta, quella di un mio tributo alla sua memoria. Ora è una raccolta di tante cose, tutte basate su quelle bozze del 1981, che ho scelto di pubblicare un po’ per me, un po’ per lui e un po’ per voi.
È stata scritta a quattro mani, da due cervelli e in due millenni diversi - e cosa c’è di più fantascientifico, papà?
Lascio ognuno al proprio viaggio, sperando che sia bellissimo.
V.
PARTE PRIMA
I RACCONTI
L’UOMO CON IL FUCILE
L’uomo scese dal bus lentamente, trasudando arroganza come se il resto del mondo attendesse la sua venuta. Spalle larghe, petto in fuori, giacca sbottonata e andatura ciondolante: la strada era il suo salotto personale. Nel frenetico viavai del mercato, la gente non parve fare troppo caso a lui. A colpire immediatamente la mia attenzione, invece, fu il suo ghigno beffardo. In un angolo della bocca stringeva un tozzo sigaro, consumato per metà, lasciando in bella mostra due file di denti ingialliti.
Una creatura ripugnante, questo pensai al principio. Così cominciai a osservarlo, e notai che anche qualcun altro lo fissava col mio stesso interesse. Dai finestrini della vettura, oscurati da grate d’acciaio, un ragazzo con indosso una maglietta bianca e una tuta arancione, un occhio nero e capelli molto radi per la sua età, riservava all’uomo col sigaro in bocca uno sguardo carico d’insistente rancore. Come per un sesto senso, l’uomo volse lo sguardo al finestrino e si accorse delle sue attenzioni. Sbatté una manata sulle sbarre e il ragazzo tornò a fissare il sedile davanti a sé. Di me, al contrario, non si accorse mai.
Proprio in quel momento attraversava la strada una donna dalla pelle scura e i capelli polverosi, coperta di stracci consunti, che teneva per la mano una bambina. Quest’ultima fece caso alla mia insolita, silenziosa figura. I bambini spesso notano cose che gli altri invece no. I suoi occhioni scuri si fecero grandi, la sua espressione curiosa, e cercò di indicarmi. La madre la strattonò debolmente, rimproverandola. Non si indica, è maleducazione
, dovette dirle, o qualcosa del genere, ma la bambina non volle saperne e s’impuntò, proprio in mezzo alla strada, additandomi, strillando qualcosa in una lingua che non comprendevo. La madre, trattenuta inaspettatamente, incespicò e finì per urtare l’uomo fermo davanti al furgone.
«Levati dalle palle!» berciò l’uomo col sigaro, mollandole un ceffone e portando l’altra mano al calcio del fucile che portava a tracolla. Evidentemente l’uomo non avrebbe permesso a nessuno di mettere in dubbio la sua dominanza, la sua territorialità.
La donna si ritrasse senza dire una parola, la guancia livida e l’espressione mortificata, mentre l’uomo sorrideva e sboccava una nube di fumo. La guardai allontanarsi, trascinandosi dietro la figlia, ora visibilmente scossa. Non badava più a me: la sua mamma si era fatta male e il suo giovane cervello-spugna era tutto concentrato alla ricerca del motivo. In sua madre però non c’era tristezza ma solo paura, bieco terrore dell’uomo. Non di quell’uomo in particolare, ma di tutti gli uomini. Specialmente di quelli bianchi. Impiegai diversi anni a capire perché.
L’uomo bianco in questione, comunque, strillò qualcosa al conducente del bus e si addentrò nel mercato. Naturalmente, io lo seguii.
Durante il mio silenzioso pedinamento non potei che riflettere ulteriormente sulla viva ripugnanza che provavo nei suoi confronti, nonché su quella che lui provava nei confronti di tutti gli altri. Persino il modo che aveva di camminare e di calpestare il suolo, passo dopo passo con quei suoi pesanti stivali sporchi di fango, sapeva di tracotanza. Imbracciava un fucile di grosso calibro, la cui cinghia stringeva dietro la giacca verde foresta come fosse un indumento attillato che gli piaceva sfoggiare. E gli piaceva, ora so quanto gli piaceva, agitare qua e là il suo strumento di morte! Lo faceva sentire al sicuro. No, non al sicuro: lo faceva sentire potente. Perché l’uomo in questione non aveva alcun desiderio di sentirsi protetto, ma ne aveva eccome di sentirsi in grado di nuocere al prossimo. Una singola pallottola sparata dalla giusta angolazione avrebbe potuto trapassare più persone, compiere una carneficina con la pressione di un dito. Però l’uomo aveva appuntato sul petto un distintivo a forma di stella e quindi mentre avanzava in mezzo alla calca, fra le mani la capacità di prendere vite a piacimento, nessuno faceva caso al suo potenziale omicida. Nessuno tranne me.
La folla del mercato lo degnò di uno sguardo appena. L’uomo ricambiò con uno sguardo di sufficienza, scrutando i dintorni con quella sua aria insolente, e la folla tornò ai suoi affari. Lui riprese la sua egocentrica parata e io, di soppiatto, gli sgattaiolai di nuovo alle spalle, strisciandogli dietro, sotto il naso di tutti. Gli uomini vedono solo ciò che gli fa comodo. Non sono come i bambini, sempre pronti a imparare cose nuove; gli adulti sono troppo presi dalla vacuità delle loro abitudini per dar peso alle anomalie.
A quel punto realizzai quale strana miscela di forti odori l’uomo portava con sé: riuscivo a percepirli nonostante gli aromi provenienti dalle bancarelle. Zenzero, cannella, cumino, curcuma. E, nel mezzo, la scia dell’uomo. Pelle e cuoio. La fondina, gli stivali, il grosso e ridicolo cappello. Almeno quattro diversi esemplari deceduti, più il puzzo della morte stessa. Se lo portava appresso, quello delle sue vittime e pure il suo. Perché l’uomo con il fucile stava marcendo dall’interno sia sul piano morale che su quello fisico, e tronfio della sua presunzione ignorava entrambe le cose. I suoi sensi erano intorpiditi, o poco sviluppati, e come per ripicca il tanfo di tabacco e di bruciato del grosso sigaro inibiva anche i miei. Come possa una cosa così nociva risultare tanto appetibile è sempre andato oltre la mia comprensione.
Non mi sentivo affatto a mio agio a strisciare dietro un