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Il Genio delle cose
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E-book186 pagine2 ore

Il Genio delle cose

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Info su questo ebook

Era una lunga storia. Oltre a un mio amico che andava fotografando vulcani, a un viaggiatore danese, a una pittrice polacca, c'erano di mezzo una tribù inuit di trentaquattro anime, inclusi un mastodontico capo scorbutico e quasi centenario e due strani gemelli. Avevo dato un'occhiata all'orologio. S'era fatto tardi. Ne avremmo potuto parlare con calma, avrebbe potuto dare un'occhiata a quel quaderno, le avrei anche passato una copia del mio saggio. Se? Se fosse venuta a casa mia, ecco tutto.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2022
ISBN9791221443059
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    Anteprima del libro

    Il Genio delle cose - Savio Lemma

    I

    Il rito della spalla e della mano

    Giugno 1928

    Seduto a gambe incrociate su una pelle di foca, Quest osservava il fiato dell'indigeno, accovacciato di fronte, formare dense nuvole di vapore. Le mani del vecchio manipolavano il grosso dente d’orso che gli pendeva dal collo, quasi lo stessero modellando. Dopo essere stato lacerato da lame magenta e blu elettrico, spentesi in un mare senz'orizzonte, il cielo s’era fatto un limbo diafano, indistinguibile dalla banchisa.

    L’indigeno, rientrato da una battuta di caccia, aveva appena strozzato una foca, costatagli quattro notti di posta all’agghiaccio. Svuotata dalle interiora e farcita di gazze marine, intere e neanche spennate, l’animale era stato infilato in una cavità rocciosa, dove sarebbe rimasto a macerare per tre mesi, prima di essere mangiato. Il kivià, come gli inuit groenlandesi chiamavano la pietanza, era considerato un’autentica leccornia.

    Il viaggiatore sospirò e si protese verso il fuoco, unica possibilità di calore per il suo viso graffiato dal gelo e la sua barba trasformatasi in spilli di ghiaccio. Se il vecchio non aveva rivolto una parola al suo ospite, i suoi gesti, in compenso, erano stati pescati tra i più premurosi. Oltre ad aver tenuto vivo il fuoco, aveva consegnato all’uomo bianco una pelliccia di renna, perché riparasse le gambe dal freddo.

    Era mezzogiorno del 18 giugno. Da quel giorno per cento giorni il sole si sarebbe fermato all’altezza dello sguardo, fluttuando in cielo come una boa sull’acqua. Da quel giorno i padri e le madri non avrebbero potuto indicare le stelle ai figli, né spiegare loro i segreti della volta celeste, perché imparassero a orientarsi nella notte artica. I cacciatori si sarebbero limitati ad affilare gli arpioni e a ricucire le reti. Per catturare foche avrebbero dovuto attendere la stagione dell’ascolto. Quando il mare ghiacciava e avrebbero potuto solcarlo con le slitte, e così raggiungere altri villaggi e ascoltare le vicende dell’estate trascorsa. Il ghiaccio avrebbe costretto le foche a una spasmodica ricerca di prese d’aria, e durante quel viaggio ne avrebbero infilzate a iosa.

    Quest era di buon umore, malgrado la stanchezza e la temperatura siderale. Non avrebbe mai immaginato che in quel momento il Mare di Barents stava inghiottendo l'idrovolante pilotato dal suo caro amico Roald Amundsen, decollato alla rischiosa ricerca dei naufraghi del dirigibile Italia. Anche l'avventura che attendeva il viaggiatore non era priva di insidie. Avrebbe trascorso i cento giorni del sole di mezzanotte in quella minuscola comunità insediatasi a sud-est di Capo Alexander, sulla penisola di Hayes, nell’estremo settentrione groenlandese. Proprio all’imbocco di un fiordo che rubava le acque allo stretto di Nares, la striscia di mare che fingeva di separare l’isola di Ellesmere dalla Groenlandia. Con quella tribù avrebbe condiviso cibo e abitudini, occupazioni e spostamenti, nell'intento di assimilarne usanze e riti, di apprenderne leggende e memorie attraverso racconti e testimonianze dirette. Dati che gli sarebbero tornati utili alla stesura di un racconto sulla vita, le usanze e le leggende delle etnie polari.

    Qasuiigsagbigsagsluinagnag pug, recitò d’un fiato Amarok, come si chiamava il vecchio capo, rivolgendosi a lui per la prima volta. Ma la frase non era stata più di un sussurro e, priva di un sostegno sonoro adeguato, si spense prima che Quest potesse afferrarne appieno il significato. Il viaggiatore scosse il capo, sconsolato. Eppure era nato in Groenlandia da madre inuit, oltre che da padre inglese, e aveva studiato bene l’inuktun, il dialetto della tribù. Come la lingua dell’isola, metteva insieme parole formate da lunghe catene di sillabe cucite da sparute vocali. Per giunta interrotte a casaccio da un numero non quantificabile di q. Amarok, però, aveva strascicato un brusio rauco, mozzando le parole in modo criptico e personale. A Quest non restava che farci l’abitudine poco alla volta.

    I miei compagni torneranno quando il sole riprenderà a nascondersi sotto il mare, rispose ammiccando e fingendo di aver decifrato l’intera sequenza sillabica del vecchio. Erano in dodici a partecipare alla spedizione scientifica, tra etologi, geografi, medici, osservatori, guide indigene. Ora stavano scivolando in slitta verso Thule, il villaggio situato centotrenta miglia più a sud.

    Il viso del vecchio si corrucciò e Quest si accorse che i suoi occhi lo scrutavano a fondo. Reagì cercando di mostrarsi indifferente, quando il vecchio aggiunse, con voce roca: Ielikablunak. Il viaggiatore tentò di dissimulare l’imbarazzo distogliendo lo sguardo dall’interlocutore. Il benvenuto di Amarok, al plurale perché rivolto sia al suo corpo, sia alla sua anima, non aveva smorzato la fastidiosa sensazione di essere malvisto, avvalorata dal soprannome appena affibbiatogli. Kablunak stava per incappellato, l’equivalente di uomo bianco, a sua volta sinonimo di estraneo.

    Ringrazio e spero di essere d’aiuto nei giorni che ci attendono, rispose Quest, decidendo di non farci caso. Poi si alzò per osservare meglio il sole, bloccatosi poco sopra l’orizzonte. Quello straordinario stop lo emozionava ogni volta che vi assisteva, perché sembrava coinvolgesse il tempo in un’assurda pausa. Rimase talmente assorto, che non si accorse del sangue che gli stava colando dalle narici e gocciolava sulla neve.

    Era iniziato così il suo primo giorno tra gli Anâmiutt. Il popolo più piccolo del mondo, che viveva più a nord del mondo.

    Amarok è il capo della tribù, in quanto uomo più anziano e supremo installatore di trappole. La sua autorità è assoluta, ma non esclude che prima di una decisione grave possa consultare i vecchi saggi. È un uomo imponente e così alto da sovrastarmi di quasi due piedi, ha le guance scavate e la pelle del viso rossastra e segnata da rughe, cicatrici e butteri. I capelli albini e lunghi gli ricadono sulle spalle alla maniera indiana, la testa è poderosa e il viso gli si allunga in una grossa mandibola triangolare e sporgente, paragonabile a quella di un orso. Le sue caratteristiche fisionomiche differiscono nettamente da quelle degli altri membri della tribù, assimilabili a quelle della razza mongola dai quali discendono, caratterizzate da gambe corte e da una corporatura tozza, che agevolano la circolazione sanguigna e la resistenza al clima glaciale. La loro faccia è larga e appiattita, le guance paffute e le palpebre rigonfie, il cranio sproporzionato per grandezza, i capelli neri e dritti, la pelle quasi giallastra. Amarok dimostra un’età indefinita, forse non distante dal secolo, ma i suoi occhi esprimono vitalità, le gambe e le braccia nessuna fiacchezza o tremore. In un nulla ha tirato giù dalla slitta i miei bagagli, appesantiti da attrezzi, medicine, libri, vestiario e scorte alimentari, oltre che dalla radiotrasmittente, e li ha trasportati senza sforzi fino al mio igloo.

    Come se avesse scorto qualcosa di anomalo alle spalle di Quest, Amarok guardò al di sopra della sua testa, aggrottò le sopracciglia, si alzò. Indicò con il braccio teso l’accampamento che li circondava e lanciò un richiamo a metà tra un bramito e un’invocazione apotropaica. I suoi accorsero e si schierarono a semicerchio intorno al fuoco. Occorreva conoscenza per consolidare il rispetto. A questo sarebbe servito il rito della spalla e della mano. Kablunak avrebbe poggiato la mano destra sulla spalla di ogni membro della tribù, che avrebbe fatto altrettanto con lui. In quella posa avrebbe pronunciato il suo nome e ascoltato quelli altrui. Amarok avviò il rito indicando Oak, il secondo degli anziani, che si avvicinò lentamente a Quest e gli posò una mano sulla spalla destra. Durante il cerimoniale il viaggiatore si accorse che alcune donne portavano annodato al petto un neonato infagottato in pelli ricavate dalla pancia di caribù gravide. Gli uomini, invece, avevano un arpione legato dietro la schiena, oppure un pugnale ricavato da una zanna di tricheco alla cintura. Se toccava a un bimbo, il viaggiatore coglieva il suo sguardo chinandosi o mettendosi in ginocchio. A un tratto, di fronte a un giovane, Quest ebbe uno sbandamento tale da imporgli un rapido recupero della concentrazione. Era di una bellezza indecifrabile, il viso regolare segnato da zigomi appuntiti, la pelle ambrata, gli occhi verdi a mandorla, i capelli neri e riccioluti. Connotati inconsueti a quelle latitudini. Soprattutto se associati a un'altezza notevole, a gambe lunghe, a una muscolatura snella. Dalle labbra del giovane non fuoriuscirono parole. Il viaggiatore stava chiedendosi come mai non avesse pronunciato il suo nome, quando toccò a una giovane donna. Il suo stupore fu ancora maggiore, quando si accorse che era in tutto simile al giovane che l'aveva preceduta. Il corpo alto e sinuoso, i tratti del volto, i colori della pelle, degli occhi, non lasciavano dubbi sulla stretta parentela che legava i due. I capelli, però lisci e lunghi, erano raccolti sulla nuca e separati al centro da una riga. Le labbra carnose erano inverosimilmente rosa, quasi il gelo non riuscisse a illividirle. Al centro della fronte, tra le sopracciglia, risaltava un neo rosso. Gli sembrò un tilaka, il cerchietto che in India ci si disegnava in quel punto con paste colorate.

    Unka Sedna, disse la giovane.

    Il tocco lieve di quella mano sulla sua spalla a Quest parve il librare d’ali di un pulcinella di mare. Insieme al suono di una voce melodiosa, aleggiò tra i loro visi un vapore aromatico di alghe e licheni. Il viaggiatore lo inspirò e tardò a rispondere, incantato com’era dalla bellezza di Sedna, nome col quale s’era presentata. Finalmente riuscì a balbettare il saluto e il soprannome che si era appena guadagnato: Unka Kablunak. Mentre lo diceva, catturò istintivamente nelle iridi della donna un lampo di simpatia, che ricambiò con un accenno di sorriso. Quando Sedna si allontanò, gli parve che i suoi stivali di pelliccia bianca poggiassero sulla neve con una leggerezza inspiegabile, tale da non lasciare orme.

    Terminato il rito della conoscenza, Amarok indicò al viaggiatore l'igloo dov'era stata sistemata la sua roba. Subito dopo si avviò a passi lenti e pesanti verso il suo, situato poco distante, riconoscibile per essere il più alto e spazioso, adeguato alla sua stazza poderosa. Raggiunto l’igloo, il viaggiatore s'inginocchiò e vi entrò, percorrendo carponi il basso e breve cunicolo di accesso. Era la prima volta che nei suoi viaggi riparava in una casa di ghiaccio. Questa aveva un diametro di quasi due yard e mezza e una cupola alta all’incirca la stessa misura. Le pareti e il suolo erano foderati da pelli di caribù. C’era anche una sorta di finestrella, protetta da un sottile vetro di ghiaccio, esposta a sud per catturare luce. L’ambiente era abbastanza confortevole, finanche illuminato dalla fiamma di uno stoppino di tela intinto in grasso di tricheco. Faceva da giaciglio una impalcatura formata da costole di balena, ricoperta da una pelliccia di orso. Al centro dell’igloo era piazzata una grossa pietra, resa bollente da una giornata di permanenza nel fuoco, che emanava fumi caldi, odorosi di muschio. Il viaggiatore si tolse il copricapo lanoso e stava per liberarsi anche del parka, per poi indossare un indumento asciutto. Quando una figura si materializzò dall’ombra. Strano non si fosse accorto della sua presenza. Era Sedna, che lo accorse sorridendo. Iieeli, gli disse, modulando in un suono lungo e armonioso le due vocali centrali. Quest si affrettò a ricambiare il saluto con un inchino. La donna gli porse una tazza di brodo di alghe e reni di tricheco e, mentre Quest ne assaggiava, si sciolse i capelli, che le ricaddero sulla schiena, talmente lunghi da sfiorarle le natiche. Poi sistemò il giaciglio e vi si sdraiò sopra con naturalezza. Rispettando il tradizionale costume della benevolenza, come usava con gli ospiti di riguardo, Amarok aveva affidato il viaggiatore alle cure di sua figlia. Inclusa quella di dormirgli accanto per infondergli calore durante la notte. Il viaggiatore tentò di scacciare l’imbarazzo dedicandosi a riempire di annotazioni il suo quaderno. Ma ben presto la stanchezza ebbe il sopravvento sull’impaccio, e si decise a infilarsi sotto la pelliccia. Appena sprofondò nel giaciglio la donna gli si avvicinò fino a che il suo corpo non combaciò con quello dell’ospite bianco. Poi cominciò a sfregare il naso al suo. Onorava così alla maniera degli avi la prima notte dell’uomo bianco tra gli Anâmiutt.

    Sedna e suo fratello sono figli e unici parenti in vita di Amarok, che a rigor di logica li avrebbe generati ultra settantenne, essendo entrambi neanche ventenni. I due sono gemelli identici, straordinariamente simili nei connotati, nella gestualità e nell’andatura. La loro bellezza é esaltata dall’armonia quasi soprannaturale dei corpi e dalla grazia dei movimenti, che pareggiano per eleganza e agilità quelli dei lupi selvatici bianchi. La carnagione insolitamente scura e gli altri connotati non richiamano affatto quelli del padre, e neanche quelli della tribù. La loro statura é molto superiore a quella degli inuit, la corporatura è più snella e slanciata che prestante e imponente come quella del genitore. Se è dimostrato che una tribù acquisisce, per innesti casuali, dati somatici di altre razze, mi chiedo qual é l’etnia il cui sangue scorre nelle vene dei suoi figli e quale in quelle di Amarok.

    La tribù, che ammontava a trentaquattro anime in tutto, stamattina fibrillava di attività. Ma l’andirivieni era così frenetico che a Quest sembravano il triplo. Gli uomini spalmavano grasso sulle pelli di foca dei kayak, prima di calarli nell’insenatura che lambiva l’accampamento. I più giovani nutrivano i cani da slitta, ungevano di grasso gli archi, appuntivano gli arpioni. Le donne scuoiavano lepri delle nevi, preservandone la pelliccia per fabbricare scarpe e guanti, squamavano pesci. Una parte della tribù preparava quello che sarebbe stato l’unico pasto della giornata, che avveniva a metà mattinata, perché potesse fornire l’energia per affrontare le faticose incombenze successive.

    Amarok si avvicinò al viaggiatore, gli porse pezzi di ippoglosso infilzati in un coltello e gli si accovacciò accanto a gambe incrociate. Avvolto da un mantello scuro di pelle di caribù, il calumet fumante tra le mani, sulle cosce un Winchester 73, il vecchio somigliava a un grande capo indiano. Ne aveva la prosopopea e l’orgoglioso mutismo, come anche lo sguardo enigmatico, accigliato e fisso nel vuoto, le sopracciglia folte sopra palpebre gonfie e semichiuse. Quest congiunse i palmi delle mani, accennando un inchino. È un grande onore accettare cibo dalle mani del rispettabile capo Amarok, recitò con tono deferente. Il viso del vecchio rimase impenetrabile come una

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