Pirati e Misteri
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Anteprima del libro
Pirati e Misteri - Giuseppe Bianchini
Giuseppe Bianchini
Pirati e misteri
La storia del capitano Jefferson e della sua redenzione
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Ringraziamenti
A Teresa e Edo
il mio porto sicuro
Indice dei contenuti
Ringraziamenti
Il capitano Jefferson
La fuga di Caspar
La nave
Jefferson osserva il mare
L'arrivo del Dragonfly
La misteriosa scomparsa del Capitano
Finnegan s'imbarca
Vecchie conoscenze
Imprevisti
L'incontro con De Vries
Di nuovo insieme
In mare aperto
Brutte notizie
Il piano di Jefferson
Fuochi d'artificio
Non tutto è perduto
Diversi punti di vista su Caspar
Pagatua
Juan Ramirez
L'incontro
Una nuova avventura
Lungo il fiume Chopas
Il mondo è piccolo
In cammino verso la ricchezza
La grotta
Un mese dopo
Il capitano Jefferson
Nella prima meta del 18esimo secolo l’Inghilterra era una tappa frequente per le navi che dai Paesi Bassi facevano rotta verso l’America e le isole dei Caraibi. La regione situata nella sua estremità sud-ovest, la Cornovaglia - terra di gente orgogliosa, fiera della propria storia e delle proprie tradizioni - rappresentava l’ultimo lembo di terraferma prima dell’oceano, il luogo dove caricare le provviste e trascorrere qualche ora di svago in vista di un viaggio che molte volte, per la sua pericolosità, non prevedeva biglietto di ritorno. Gli abitanti di questa penisola vivevano in modo semplice. Il mare pescoso, spesso agitato, era ideale per merluzzi, salmoni e halibut, presenza costante sulle tavole locali. I pesci non consumati finivano sotto sale, destinati ai mercati di Torquay o di Exeter e talvolta della stessa Londra. Oltre alla pesca, i locali si dedicavano all’allevamento del bestiame, pecore e capre; l’erba cresceva rigogliosa e spontanea grazie al clima umido, distese verdeggianti si estendevano per miglia e miglia fornendo il nutrimento necessario. Tutto sommato la Cornovaglia era una zona privilegiata rispetto al resto del Regno, la vita scorreva tranquilla scandita dal susseguirsi delle stagioni, lungo e freddo l’inverno, ventose quelle di mezzo, quasi impalpabile l’estate.
La cittadina di Bidermouth era un importante porto d’attracco. Situata sulla punta estrema – era il luogo più a occidente dell’Inghilterra - grazie alla sua posizione privilegiata e alla presenza di una piccola insenatura naturale che proteggeva le navi dalle correnti e dai forti venti, ospitava spesso marinai forestieri. Se da un lato ciò contribuiva ad alzare gli incassi delle poche botteghe, dall’altro procurava ai pacifici abitanti qualche piccolo problema, risolto di solito con tremende scazzottate e bottiglie fracassate su teste troppo dure per essere scalfite. La mattina presto, chi si trovava a passare nella via principale, non di rado si vedeva costretto a zigzagare tra ammassi di corpi inermi, sconfitti dall’alcool e dalle risse più che dalla stanchezza.
Bidermouth si estendeva alle spalle del porto, adagiata a ridosso della verde vallata che saliva dolcemente verso il bosco di Greenwood. Dalla sommità della collina la vista spaziava a sud verso le coste della Francia – troppo lontane per essere scorte, anche nei rari giorni di cielo terso e luminoso - e a ovest verso l’ignoto, o la ricchezza secondo alcuni. Qui, in prossimità della punta di Higher Creek, era posto il faro che guidava le navi verso un sereno attracco. Le case dei pescatori, concentrate lungo la via principale, Humble Road, si allungavano per un miglio dalle pendici del colle sino al mare, mentre le stalle e i recinti degli animali si disperdevano nelle campagne adiacenti.
Le vie di collegamento verso l’entroterra erano poche e piuttosto dissestate, situazione frequente all’epoca, cosicché tutto ciò di cui la popolazione necessitava e che non poteva essere reperita in loco arrivava principalmente via mare. Dall’Olanda le spezie e il tabacco, dalla Francia il vino e gli ortaggi, dall’Irlanda il luppolo.
Lungo Humble Road sorgeva la chiesa e di fronte, a ricordare che oltre alla cura dell’anima c’è quella del corpo, svettava lo stemma su sfondo verde del Golden Hawk Inn, la locanda del Falco d’oro.
Il Falco d’oro era l’unico posto che offrisse un degno riparo ai viaggiatori. Era di proprietà della famiglia Winston da quasi cento anni. Nata inizialmente come stazione di abbeveraggio e riposo dei cavalli, aveva conosciuto il suo periodo di massimo splendore con Francis Winston - nonno di George, l’attuale proprietario - che aveva saputo sfruttare il boom dei passaggi navali, soprattutto olandesi e danesi, dovuto all’intensificarsi degli scambi commerciali con l’estremo oriente del mondo. Con il diminuire del transito delle navi a causa delle turbolenze tra i principali stati coloniali, Spagna, Inghilterra, Olanda e Portogallo, erano sopraggiunti lunghi anni di magra. Da qualche tempo le cose andavano migliorando, grazie al ridursi di guerre e pestilenze, quasi che la locanda fosse la cartina di tornasole della situazione politica e sanitaria dell’Europa intera.
Appena varcata la soglia, un piccolo ingresso introduceva alla sala da dove, proseguendo verso il centro, si arrivava dritti al bancone dove George riempiva i boccali di birra e serviva whisky o rum. Tutt’intorno al bancone, a formare una specie di arena, erano disposti i tavoli. La cucina era dietro una specie di alto paravento di legno. Qui Sarah, sua moglie, preparava da sempre - ormai aveva perso il conto degli anni - zuppa di cavoli e salmone arrostito. In fondo alla sala, sulla destra, una pedana rialzata fungeva da palcoscenico per le orchestrine, generalmente composte da un violino e un organetto, che allietavano le serate speciali.
Tutti i pomeriggi, di solito verso le tre, uno dei tavoli, quello più nascosto alla vista degli altri avventori, era occupato da un anziano marinaio di nome Adam Jefferson, da tutti conosciuto come il Capitano.
Nessuno sapeva se lo fosse stato veramente. Per rispetto o per accattivarsi le sue simpatie gli avevano cucito addosso quel nomignolo. Lui non se ne lamentava, anzi, dava l’impressione di esserne lusingato.
Una vita su e giù per il mondo, dai Caraibi all’Oceano Indiano, attraverso il Capo di Buona Speranza e il Mar della Cina, l’Australia e la Nuova Zelanda. Nonostante cercasse riparo nella zona più isolata della sala non si può dire che fosse una persona scontrosa. Di avventure da raccontare ne aveva a bizzeffe. Ascoltarle era davvero facile, bastava offrirgli un buon bicchiere di rum. Sotto la sedia, appallottolato vicino alle sue gambe, sonnecchiava Squirt, un incrocio tra un border-collie e un’altra non precisata razza. Il Capitano lo aveva salvato ancora cucciolo da morte certa. Da quel momento le loro esistenze, le giornate fatte di poche parole ma di costante vicinanza, si erano legate indissolubilmente. Squirt era, di fatto, un’appendice del suo padrone-amico. La loro simbiosi era così totalizzante che talvolta le azioni di uno erano conseguenza del pensiero dell’altro, una sorta di filo invisibile che legava mente dell’umano e zampe del cane o viceversa.
Jefferson era alto e robusto, vecchio di un’età imprecisata, tipica di coloro che hanno sulle spalle anni di duro lavoro e fatica, ma che mantengono uno spirito giovane. Portava i lunghi capelli legati a coda di cavallo; la barba, più bianca che grigia, non tagliata da tempo immemorabile. La sua pelle, bruciata dal sale dell’oceano e dal sole dei tropici, era marrone color cioccolata, il viso coperto dalle rughe. Il sorriso lasciava intravedere, cosa assai strana per la sua età, due file di denti bianchissimi come i ghiacci del Polo Sud, forse l’unico posto al mondo che non aveva mai visitato.
Al braccio destro aveva un tatuaggio, all’altezza della spalla, che raffigurava una specie di serpente o forse un drago le cui fauci scagliavano fiamme. Nell’ambiente del porto si diceva fosse un simbolo di fedeltà in voga sulle navi pirata. Molti erano pronti a giurare che il Capitano Jefferson avesse fatto parte, in gioventù, di qualche banda di sanguinari malfattori. Nessuno osava chiederglielo per paura di scoprire chissà quali terribili segreti: certo è che considerando il suo tenore di vita, a dir poco miserevole, di ricchezze e bottini pirateschi non se ne vedeva nemmeno l’ombra.
Da tempo non navigava più, sentiva il peso dei lunghi anni passati tra tempeste e arrembaggi; il suo sguardo fiero, gli occhi neri e profondi ti bucavano penetrandoti nell’anima; nei giorni in cui lo assaliva la malinconia prendeva il suo bastone e camminava fino al mare, saliva su un alto scoglio a picco sull’acqua e rimaneva per ore a fissare quel suo fratello scuro e limaccioso. Stava lì immobile, in silenzio, incurante della pioggia e del vento, assorto nei suoi pensieri, a guardare i gabbiani, le urie e i pulcinella che volteggiavano sulle onde prima di ripararsi negli anfratti delle bianche scogliere. In quei momenti d’isolamento dal mondo era come rapito da una forza superiore. Ogni tanto tendeva la mano verso Squirt quasi a cercare la conferma di una presenza amica, lo accarezzava dolcemente e poi tornava a fissare con nostalgia quel mistero che è il mare.
Non c’erano notizie di moglie, figli o di altri parenti. Abitava in una casupola mezza diroccata, ai margini del paese. In fondo all’unica stanza, sotto la finestra che dava nel retro, c’era il letto o meglio un ammasso di stracci e paglia che fungeva da riparo per il breve e di solito tormentato riposo notturno. Di lato, vicino al caminetto, un grande baule dove, forse, conservava i ricordi più preziosi dei suoi viaggi. Al centro della stanza spiccava un tavolaccio di legno con due sedie di paglia. Non c’era molto altro, un vecchio paravento foderato di tessuto rosso e un armadio che fungeva sia da dispensa che da ripostiglio. Di certo non era un luogo adatto a ricevere ospiti di rango, ma il Capitano non era solito avere visite anzi, a pensarci bene, nemmeno lui ricordava chi fosse stato l’ultimo essere vivente a mettere piede nel suo tugurio, a parte ovviamente Squirt e le cimici che avevano fatto il loro nido nel pagliericcio.
In paese tutti lo conoscevano e lo rispettavano, non fosse altro per il suo aspetto severo e imponente. Quando uscito di casa e attraversato il breve tratto di strada tra i prati che separava la collina dal centro di Bidermouth compariva in Humble Road, i bambini gli saltavano intorno schiamazzando festanti nella speranza che li deliziasse ancora una volta con i suoi racconti. D’altronde tutti si fidavano di lui e lo trattavano con affetto, era considerato un po’ il nonno del paese.
Si trasformava solo in caso scoppiasse una rissa al Falco d’oro. Quando ciò accadeva il Capitano non si tirava certo indietro, si batteva come un leone contro due o tre persone contemporaneamente. Considerato per la sua età un facile bersaglio, molti malcapitati portarono per anni i segni delle sue carezze. Quei momenti gli ricordavano la gioventù, le scazzottate nei peggiori locali di Cuba o delle Antille Olandesi, dove bastava alzare lo sguardo sulla ragazza sbagliata che in un attimo si scatenava l’inferno. Ma in fondo il Capitano era un uomo profondamente buono e soprattutto leale. Manteneva la parola data a costo della vita stessa e su di lui, per certo, si poteva fare pieno affidamento in caso di bisogno. Gli abitanti di Bidermouth lo sapevano e lo ricoprivano di ogni attenzione: la sarta gli cuciva un cappotto nuovo ogni inverno; il farmacista, quando lo vedeva passare davanti la bottega lo invitava a entrare e, con la scusa di scambiare quattro chiacchiere, lo scrutava ben bene tastandogli polso e spalle per verificare che fosse in buona salute; dal canto suo la signora Finney si adoperava affinché avesse uova fresche ogni settimana e suo marito pensava a rifornirlo regolarmente di legna da ardere.
Insomma, le giornate trascorrevano tranquille, tutte più o meno uguali, ma si sa, quando c’è troppa quiete significa che è in arrivo la tempesta.
E così fu.
La fuga di Caspar
I vicoli attorno al porto olandese di Debrook non erano luoghi adatti a damerini e rispettabili signore. Il dedalo di viuzze che si estendeva subito a ridosso del molo era un ricettacolo di ladri e assassini che lì trovavano sicuro rifugio. L’odore di urina e rifiuti saliva prepotentemente dalla strada insinuandosi nelle misere case. Persino i gendarmi della contea, che pure ogni tanto irrompevano in quei misteriosi labirinti, tendevano a disinteressarsi dello stato di legalità lasciando che la giustizia fosse amministrata dai coltelli piuttosto che dalle istituzioni. Durante il giorno il quartiere si animava con un mercato all’aperto, nella piazzetta che si formava naturalmente all’incrocio delle due vie principali. In questo luogo si trovava di tutto, il contrabbando era attività normale, i truffatori erano in costante ricerca di gonzi da abbindolare con trucchi di carte, donne giovani già devastate dal vaiolo sostavano sugli usci ammiccando ai passanti. Non era un mercato ricco come quello di Utrecht o di Rotterdam ma, come detto, sufficientemente grande da trovarci ciò che serviva. Oltre agli halibut che arrivavano freschissimi ogni giorno, facevano mostra di sé ancora vive nei calderoni di stagno le anguille che i locali usavano affumicare e mangiare accompagnate dallo stufato di verza. Anche la carne, manzo e agnello in primis, non mancava mai sulle bancarelle. Certo, l’igiene non era il massimo, ma gli avventori non si facevano certo intimorire dai nugoli di mosche che pasteggiavano felici sui quarti di bue. A intervalli di qualche decina d’anni, ma se andava male anche con frequenze minori, scoppiavano inevitabili epidemie di peste o di colera che nessuno imputava alla mancanza dei più elementari principi d’igiene. Solo molti anni più tardi s’intuì il collegamento tra queste malattie e, ad esempio, la contaminazione dell’acqua causata dalle carogne animali o quella dei granai dai topi. Queste pestilenze non soltanto portavano alla morte chi si ammalava ma, con più crudeltà, tanti innocenti accusati, spesso dai pulpiti di una chiesa, di essere streghe o untori.
Al mercato non si vendeva solo cibo, i mercanti offrivano tessuti, legname e animali vivi, soprattutto capre e ogni tanto qualche pecora. Al calare delle prime ombre la