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Incontri e racconti
Incontri e racconti
Incontri e racconti
E-book352 pagine4 ore

Incontri e racconti

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Info su questo ebook

«Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla».

Se questa citazione, tratta da "Novecento" di A.Baricco dice il vero, Elide Ceragioli è vaccinata contro le fregature, perché le storie da raccontare non le mancano: storie di vita, come quelle che popolano le pagine di questo libro.

"Quando la penna comincia a correre sul foglio o le dita sulla tastiera è segno che c'è stato un incontro; qualcuno ha "raccontato" ad Elide un po' di sé e, senza saperlo né volerlo, ha innescato quel processo inarrestabile per cui quella storia, rivista e rivissuta nell'intimo della scrittrice, diventa un quadro di vita per chi la leggerà. Vita vera, perché le storie che Elide racconta non sono mai avulse dalla realtà, ma sempre radicate nella quotidianità, anche se l'epoca può essere l'oggi o un remoto passato, il protagonista uno di noi o un abitante di terre lontane, l'ambientazione una stanza, una strada o l'immensità del mare o del mondo, la vicenda concentrata in poche pagine, come in questi racconti, o protratta per decine di capitoli, come nei suoi romanzi" (dalla prefazione di Giuseppe Cuminatto).
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2018
ISBN9788827820537
Incontri e racconti

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    Anteprima del libro

    Incontri e racconti - Elide Ceragioli

    Cuminatto

    Parte prima

    2000 anni fa

    I Magi

    Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 2,1b-11)

    Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo. All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io venga ad adorarlo. Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono…

    ORO

    La notte stellata ardeva di luci, piano il vecchio si strinse nel mantello. Scrutava dentro di sé cercando un motivo, una ragione che prolungasse l’esistenza. La sabbia gelata e pungente gli graffiava le mani. In ginocchio sentiva il buio invaderlo.

    Per anni aveva letto, viaggiato, camminato sostenuto da una sola speranza. La profezia era stata per lui alimento, linfa vitale; ora, che la vista indebolita gli rimandava un orizzonte sfuocato, l'aveva abbandonata e tutto era troppo faticoso: il respiro, il pensiero.

    Joachim aveva una mente eccelsa, conosceva il nome delle costellazioni, gli usi e i costumi di ognuna delle tribù nomadi che percorrevano il deserto, eseguiva calcoli complicatissimi senza apparente difficoltà e parlava molte lingue.

    Joachim aveva vissuto la dura disciplina del sapere fin da piccolissimo.

    Il suo primo ricordo (ed ora, che la vecchiaia dava più nitidezza al passato, gli sembrava quasi di toccare le immagini e di riudire le voci) risaliva ai tre anni. Il maestro gli insegnava i rudimenti del calcolo con un abaco; ricordava l’ampia veste di lino e l’odorato gli rimandava gli effluvi delle spezie. Eppure la profezia era più antica, quasi fosse stato nutrito di quelle parole "...verrà il giorno in cui il cielo sarà illuminato da una gran luce. Là, da oriente..."

    Joachim comprendeva solo ora quanto fosse stata importante per lui. Ogni battito del suo cuore era stato ritmato sul tono pacato di quelle parole. Pacatezza! Questa era la caratteristica principale della sua vita, il velo che copriva le sue emozioni. Silenzio e pace e il lento scorrere del tempo in attesa.

    Joachim aveva fatto lunghi viaggi sul dorso di villosi cammelli, aveva respirato l’aspro odore delle bestie in calore, il sudore dei corpi sotto il sole. Aveva desiderato una donna, lo ricordava quasi con stupore, dalla pelle ambrata e dalle lunghe ciglia.

    Aveva commerciato la sua scienza, venduto il suo sapere, risposto ad interrogativi, fatto diagnosi, decretato sentenze. Aveva stabilito con estrema esattezza in quale punto si doveva scavare il pozzo e quanto sarebbe stato profondo prima di trovare l’acqua, e così l’oasi aveva preso il suo nome.

    Quando le membra erano nel loro pieno vigore aveva desiderato correre, incitare la bestia sotto di sé, urlare, lasciare che l’energia fluisse fino all’universo, ma la voce lo aveva trattenuto.

    Il nucleo della sua vita era imbrigliato in quelle parole: "…verrà una luce, più abbagliante del sole, da oriente, sarà il segno!"

    Joachim aveva percorso più volte il deserto, la morbidezza delle dune gli era familiare, conosceva il mutare dei venti, l’asprezza dei silenzi, gli uomini, i loro bisogni.

    Era stato al tramonto di un giorno di lungo cammino che aveva raggiunto la carovana di Ben-El, il mercante. Ben-El l’ittita era un uomo piacevole d’aspetto, fortemente portato per il commercio; riusciva a valutare il valore di uno schiavo o di un sacco di farina prima ancora di pesarlo. Sale, tessuti preziosi, rari amuleti ed erbe medicinali erano il suo carico.

    Provava, per l’uomo che sa, una sorta di rispetto misto a deferenza, ma anche venato di disprezzo. Non riusciva a comprendere come fosse possibile vivere senza il suo sviscerato, enorme amore per il denaro.

    Ben El il mercante aveva casse piene d’oro e d’argento, sapeva, svegliandosi al mattino, quanto avrebbe guadagnato durante il giorno, quasi che uno spiritello glielo avesse suggerito durante la notte.

    Due carovane che si incontrano nel deserto rappresentano sempre un evento e si forma come un tacito patto di complicità fra gli uomini. La notte, stando intorno ai fuochi, con l’aria tersa e fresca dopo la calura asfissiante del giorno, avviene una metamorfosi: lo schiavo non è più servo e il padrone non è più signore. Il protagonista è il deserto, la sua immensità e la sua cupola di stelle, tanto sfavillanti e vicine, e gli uomini piccoli piccoli, nudi di fronte all’incommensurabile. In una notte così Joachim vide, per la prima volta, il rotolo della profezia.

    Ben–El lo aveva estratto dallo scrigno, racchiuso in un cilindro d'argento e avvolto in un panno. Tu sai decifrare i segni di questa scrittura antica? Mio padre ha comprato questo rotolo molti anni fa e mi ha assicurato che è preziosissimo. A questo punto abbassò la voce che divenne flebile come un sospiro: "Forse c'è indicato il luogo dove si trova un tesoro. Di te posso fidarmi, tu sei così diverso…, disse sogghignando, leggi ed indicami la strada, saprò ricompensarti."

    «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese. La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio. Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà. Il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l'orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell'aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare. In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli, le genti la cercheranno con ansia, la sua dimora sarà gloriosa.» (Is 11, 1-10)

    Non furono le parole, ma una forza misteriosa ad attrarre la mano tremante di Joachim verso il rotolo. Con occhi umidi e movendo appena le labbra leggeva il destino del mondo.

    Per quel momento aveva vissuto, ogni battito aveva preparato quel battito, ogni respiro quel respiro.

    Ben-El il mercante ascoltava e lentamente si accendeva in lui un desiderio nuovo.

    Quando sarà questo? Leggi, leggi ancora!

    Così il vecchio parlò della profezia, della luce che sarebbe venuta e avrebbe indicato il cammino fino al Bimbo. Parlò a Ben-El della profezia e fu come consegnargli la gemma preziosa al centro della sua anima. Seppe che non avrebbe visto quel giorno, ma un altro avrebbe continuato l'attesa. Moriva e morendo generava un figlio.

    Erano passati tanti anni e il corpo di Joachim era polvere nella sabbia. Chissà dove il suo spirito viveva. Il mercante pensava spesso al "Re che sarebbe nato". Aveva consultato indovini e sapienti: la stella sarebbe venuta da oriente.

    Con lo stesso ardore con cui aveva accumulato ricchezze, aveva pregato il cielo. Tornava all'oasi, accanto alla tomba di Joachim, ogni anno, come si va vicino al fuoco per scaldarsi. Pregava un Dio sconosciuto e senza nome e ritrovava vigore. Lasciando che la sabbia scivolasse fra le dita, pensava ai giorni trascorsi, inutili e vuoti, duri come i granelli.

    Vide la luce e credette ad un sogno, poi seppe che era vero. Ritrovò la perduta giovinezza, l'entusiasmo. Capì che la sua vita aveva un senso ed ebbe voglia di correre, mentre la certezza gli esplodeva nella mente e nel cuore.

    Si mise in cammino, lo scrigno pieno d'oro non era la cosa più preziosa che portava: ora, finalmente, lo sapeva.

    INCENSO

    L'acqua fresca gli scorreva fra le dita colorandosi di rosso. Provava sempre una sorda repulsione nel togliere la vita, anche se era in onore del Baal che lo faceva. Evitava di guardare i loro occhi, mentre affondava il coltello nel collo con mosse precise. Alzando le mani grondanti di sangue restituiva al cielo quello che era suo ed implorava la fecondità della terra e delle greggi.

    C'era stato un tempo in cui i primogeniti venivano sacrificati e ancora gli risuonavano nelle orecchie le grida delle madri a cui i piccoli venivano portati via. Adesso agnelli o capri sostituivano sull'altare i giovinetti. A qualche anziano il cambio non piaceva, ne traevano auspici negativi per il futuro del popolo ed erano sorte discussioni.

    Solo in occasione di una lunga carestia i sacrifici umani erano ripresi e si erano moltiplicati. Poveri corpi destinati a perire di fame erano stati immolati. Tremava ancora al ricordo di ciò che non aveva potuto evitare. Invano aveva provato ad interpretare il volo degli uccelli o le scie che i serpenti lasciavano nella polvere; non era bastato a rassicurare e così, prima che di pioggia, l'arida terra era stata intrisa di sangue e di lacrime.

    Zoppicando tornò verso il sentiero. Rifletteva su come le cose e gli avvenimenti possano avere significati diversi. Doveva la sua vita a quel piede deforme che gli rendeva difficile il cammino.

    Era un primogenito e sarebbe stato dato in offerta, ma l'imperfezione fisica avrebbe reso sgradito il sacrificio, così fu consacrato al servizio dei sacerdoti.

    Rise, immaginando il Consiglio degli anziani riunito per la decisione che doveva essere stata molto ardua. Guardò ancora il piede deforme e provò un senso di gratitudine. Sentiva la gioia di vivere come un'energia impossibile a contenersi. Trovava belle tutte le cose: l'erba, gli alberi, persino le pietre. Ogni tanto si scopriva a ringraziare e la sua preghiera muta e silenziosa era una lode, un atto d'amore. Il suo cuore rispondeva ad un misterioso richiamo e si trasformava in grani d'incenso. Bruciavano nel fuoco di un amore intensissimo e salivano là, oltre le nubi, fino al trono di Dio-Amore! Negando tutte le evidenze e tutti gli insegnamenti, egli credeva in un altro Dio, diverso da quelli per i quali faceva sacrifici.

    Gli anni lo avevano privato della giovinezza, ma lo avevano reso più forte. Il lamento delle donne, il pianto dei bimbi, il dolore, la morte, tutto gli entrava dentro, diventava parte di sé. Era il custode del suo popolo e, più che un soldato contro il nemico, si metteva di fronte alla divinità ad implorare guarigioni, vittorie o a scongiurare mali.

    Si faceva scudo contro gli dei che crudelmente infierivano, ma segretamente il suo sguardo cercava un Altro. Combatteva contro nemici invisibili e malvagi, poi si rifugiava nella quiete di quella presenza che, sola, gli dava la pace.

    Aveva scoperto il filo invisibile che lo univa all'Essere sconosciuto e vi si era attaccato.

    Come preso da una febbre passava ore ed ore a decifrare i rotoli antichi per cercare nei testi una conferma. Era avido, smanioso di bere alla fonte della verità. Lesse del popolo eletto e del Dio che lo aveva guidato fino ad una terra promessa, proteggendolo e facendolo crescere.

    Aprì la mente e il cuore a chi piano piano gli si mostrava e comprese che il filo che teneva in mano lo portava a Lui.

    Zoppo, correva per strade luminose fin dove l'Eterno aveva la sua dimora.

    Ascoltava e gli sembrava che ogni suono, ogni soffio di vento, la danza delle foglie, il gocciolare dell'acqua tra i ciottoli, tutto fosse voce di Dio.

    Si fece attento e sentì che gli uomini erano suoi fratelli. Pianse con chi piangeva, rise con chi aveva gioia, tese le mani e raccolse il dolore, tese le mani e carezzò volti e, quando all'altare offriva il sacrificio, portava il grido e la speranza di ognuno.

    Accolse la profezia come cosa già nota e nell'attesa cresceva la sua gioia.

    Ora, mollemente l'erba si piegava sotto i suoi passi. Cantava, come spesso gli succedeva, lasciando che le parole fluissero liete e si trasformassero in ponte, accorciassero la distanza fra il cielo e la terra.

    Cantava canti nuovi, suggeriti dall'amore.

    Quando la scia luminosa spezzò e offuscò i raggi dorati del sole al tramonto, la sua voce si tramutò in grido d'esultanza e poi diventò un alleluia dolce.

    Capì che l'attesa era finita, avrebbe bruciato i grani d'incenso davanti al suo Signore

    e MIRRA

    Come può diventare pesante la sabbia che il vento in un soffio solleva se copre il corpo di colei che è la tua vita. Come cupo il cielo e buio il sole e vuoto il tempo.

    Impotenti o sordi gli dei all'invocazione supplichevole del giovane principe, quando le grida di dolore di lei gli strappavano il cuore.

    Il silenzio e il lamento e poi di nuovo il silenzio che risponde al grido.

    Erano passati anni e anni e le carovane avevano tracciato nuovi sentieri e attraversato dune e montagne e poi ancora gli stessi sentieri, gli stessi bivacchi e solchi sempre più profondi nei visi e nei cuori.

    Il dolore si era acquietato, ma non era scomparso mai.

    C'erano stati giorni in cui le dune avevano il colore della pelle di lei e la forma dei suoi seni e il sole cocente gliela mostrava come fantasma fluttuante, lì, dove finiva l'orizzonte.

    Erano i giorni in cui il desiderio gli spezzava il petto e il sangue rendeva turgidi i lombi.

    Erano i giorni in cui giaceva con le schiave, inebriandosi di aromi e bevande. Possedeva i loro corpi al ritmo monocorde di una musica segreta. Guardandole senza vederle era lei che vedeva.

    Ebbe dei figli e fu felice per questo. Qualcuno visse, altri morirono. Seduto all'ombra della palma o avvolto nel mantello per ripararsi dalla tempesta di sabbia, il principe era solo.

    Certe notti il cielo sembrava toccare la terra, nel fuoco danzavano quieti ricordi e il brusio di inutili chiacchiere o di antiche leggende sembravano dar voce alla muta domanda, che da anni si ripeteva: Dove sei mia dolce sposa? Dove vive ancora il tuo sorriso? Quale mano ti ha accolta là, nel paese dal quale non si torna?

    Come una cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio…¹ Le parole del salmo traducevano la sua sete, una sete d'infinito, d'eterno.

    Dove vivi o Dio perché io ti trovi?

    Ascoltava la giovane schiava ripetere la preghiera del suo popolo e sentiva dentro di sé crescere la speranza. Una segreta allegrezza si alimentava di nuova linfa vitale, passava le ore ascoltando e desiderando che fosse vero.

    Leggeva nei rotoli, con riverenza, quello che nel silenzio più profondo il suo cuore aveva gridato per anni: il re del mondo ci risusciterà a vita nuova ed eterna...²

    Imparò che l'attesa poteva essere dolce, mentre cercava un segno nel cielo.

    La schiava scaldava il suo giaciglio e gli piaceva vegliarne il sonno, seduto sulla stuoia accanto alla tenda.

    Non seppe mai dire come o quando. Fu un istante o forse meno, parlò al cielo e il cielo gli rispose. Ebbe la certezza di una Presenza e ne sentì lo sguardo su di sé, fu come un carezza.

    L'anima mia anela a te, o Dio, quando verrò e vedrò il Volto del Signore? ...

    Seppe che era successo prima che avvenisse. L'aurora spegneva ad una ad una le stelle e ridava forma alle ombre.

    Gli stessi rumori, gli stessi volti eppure era tutto diverso.

    Il re piangeva.

    Vide la scia luminosa. Vide il volto radioso di lei e seppe che l'attendeva.

    Vide il cielo squarciato, aperto: gli mostrava la luce.

    La profezia si avverava davanti ai suoi occhi e, come dito di Dio, la stella gli indicava il cammino.

    In ginocchio, piangeva.

    La speranza diventò certezza e la certezza diventò Amore.

    Fu come se tutta la musica si fosse concentrata in una sola nota, tutti i colori in uno solo, tutte le albe nell'alba della creazione; la forza del vento, il bruciare del sole, le corse dei cammelli, il vagito dei bimbi, le urla degli uomini, il suo respiro e la morte di lei.

    Seppe che nulla era perduto e che mani amorevoli raccoglievano ogni palpito di vita.

    Tornò dal viaggio della mente per partire di nuovo, avrebbe seguito la stella, sarebbe andato incontro al Messia.

    Portava in dono la mirra.

    Longino

    La tradizione:

    Longino, detto Isaurico, perché originario della provincia di Isauria, fu il soldato che colpì con la lancia il costato di Gesù, ormai morto. Dalla ferita sgorgò subito sangue misto ad acqua.

    Qualche goccia di detto sangue finì negli occhi ammalati di Longino, che immediatamente uscì risanato dal male che lo affliggeva da lungo tempo.

    Quel miracolo inaspettato portò alla fede il soldato, il quale subito provvide a raccogliere un poco di terra bagnata dal sangue di Gesù, ai piedi della croce. Longino portò il prezioso cimelio custodito in una cassetta metallica, attraverso lunghe peregrinazioni, fino in Italia.

    Attualmente le ossa del santo e la preziosa reliquia sono custodite nella chiesa di Sant’Andrea a Mantova. (Luigi Pescasio)

    Il filo d’erba era sottile e, dondolando si piegava dolcemente verso terra, sotto il peso della lumachina. Una lumachina nata da poco, col guscio ancora trasparente che lasciava intravedere le strie rossastre e il corpo molle.

    Esplorava l’aria con i cornini diritti e mobili, ma non trovava il coraggio di saltare e tornava indietro. Così il filo si drizzava verso il cielo, anelante di sole e di vento, pronto però ad inchinarsi alla chiocciola ogni volta che riprendeva con nuovo vigore la scalata.

    Partecipe come si sentiva di quella avventura, aveva persino urlato, nel sonno, un incitamento: Forza!. Si svegliava sempre a questo punto, con quel misto di speranza un po’ ansiosa. Chissà se avrebbe saltato?

    Da anni era il suo sogno ricorrente dai vividi colori subito dimenticati. Un sogno inspiegabile, di significato oscuro che però teneva nella mente come un prezioso tesoro. Non lo comprendeva, eppure si addormentava desiderando che le immagini tornassero a trovarlo.

    Succedeva, talvolta, che il grigiore che velava i suoi occhi venisse trafitto da lampi, guizzi di luce ocra, come la sabbia dorata carezzata dal sole, bella e pungente. Perché bellezza e dolore sono un tutt’uno. Con smaniosa nostalgia avrebbe voluto ricordare il colore del grano. Il grano emanava calore e vita dagli stentati campi di Palestina e il frusciare delle messi alla brezza riempiva di gioia.

    Stava diventando cieco, se ne accorse in un quieto e assolato pomeriggio. I medici avevano cercato di lenire le dolorose trafitture, che gli riempivano gli occhi di lacrime e gli offuscavano la vista, ma gli unguenti si erano rivelati inutili e le immagini si trasformavano in ombre indistinte, dai contorni incerti. L’orribile consapevolezza lo aveva fatto urlare, ma gli aveva risposto solo l’indifferente cicaleccio dei passeri.

    Cieco… Peggio che morto! Aveva urlato, alzando le mani verso il cielo e maledicendo uno ad uno gli dei.

    Per evitare che si uccidesse gli avevano tolto la spada e uno schiavo lo sorvegliava continuamente. Aveva urlato la sua rabbia ogni volta che inciampava o cadeva, ma, per quanto forte, la sua voce non bastava a svegliare le sonnolenti divinità dell’Olimpo a cui non credeva più.

    Era un centurione romano, non temeva il dolore e meno che mai la morte. Era un soldato avvezzo alle battaglie e portava i segni di tante ferite nel corpo muscoloso ancora giovane. Ognuno era il ricordo di un combattimento e della sua forza. I suoi compagni gli ubbidivano e lo seguivano perché era il migliore, il più coraggioso. Sempre il primo nella mischia, il più temerario, aveva meritato due volte il tributo della folla per le vittorie. Era stato mandato in Palestina perché, tra le province, era quella dove tumulti e risse erano quotidiani. Non passava giorno senza che un esaltato incitasse le folle alla rivolta e gli ebrei, colti e rigidamente legati ai loro riti, diventavano violenti per un nonnulla. Ricordava come, a fatica, li aveva calmati dopo che alcuni soldati avevano inseguito per gioco il capro espiatorio, nero come la pece, mandato nel deserto.

    Aveva imparato a conoscere le impervie colline inseguendo fin negli anfratti più remoti la banda di zeloti che, periodicamente, aizzavano la folla.

    Era una terra aspra, avara, così diversa da quella grassa e rigogliosa in cui era nato, eppure ne amava la bellezza dai forti contrasti.

    Amava le colline avvolte dal silenzio immoto dell’alba che spegne ad una ad una le stelle e attende, trepida ancella, i raggi dorati.

    Amava il mare, generoso, ma mutevole amico.

    Amava il deserto, terribile, indomabile, dove all’improvviso la frescura di un’oasi sorprendeva il viandante.

    Amava il fermento dei mercati nelle piazze rumoreggianti: era la vita e gli entrava dentro sfidandolo.

    Combatteva, bravo soldato, cacciando nel profondo di sé la paura e si tuffava nella lotta inebriandosi, come altri, di vino.

    Gerusalemme era, come Roma e forse più di quella, ombelico del mondo. Fantasmagoria di colori, odori, suoni, miscela fluttuante di un’umanità inquieta. La marea umana saliva ininterrottamente al Tempio e ne veniva inghiottita e trasformata. Gli ebrei che entravano nel tempio credevano di incontrare Dio: di questo era certo.

    Percorreva orgogliosamente le strade, consapevole e felice della propria superiorità di romano, ma invidiava i fedeli che a capo chino e con i filatteri appesi alle braccia e sulla fronte, si presentavano al Santo dei Santi.

    Gli era capitato di sacrificare sull’ara del dio ignoto e lo immaginava potente, scevro di passioni, capace di guidare il popolo in battaglia, di fermare il sole e prosciugare il mare… un dio al di sopra del mondo eppure raggiungibile, come quello degli ebrei.

    Pensieri vaghi, sui quali si attardava nelle notti insonni, scrutando il cielo stellato, ma che presto dimenticava per tornare nel vortice delle tensioni, delle risse da sedare o punire, tuffandosi nella fatica di far rispettare la legge. Non era un compito semplice.

    Avevano persino dovuto inseguire un facinoroso, un certo Barabba, ben oltre le mura e l’avevano arrestato di notte. Dormiva coi suoi compagni in un luogo proibito, in mezzo alle sepolture. Dai sepolcri uscivano, danzando, verdognoli e luminescenti gli spiriti dei morti. I soldati timorosi tenevano alte le torce ed era successo che qualche spiritello imprudente si fosse incendiato trasformandosi in globi di fuoco: tristi presagi, a lungo commentati dai suoi uomini.

    Ma questo era dieci giorni prima, quando la malattia non lo aveva ancora toccato. Un’eternità.

    Gerusalemme era in fermento. Si preparava la Pasqua e l’affluenza dei pellegrini era maggiore del solito. I mercanti facevano affari d’oro. Non mancava neppure il Messia, l’atteso dal popolo, ad aumentare l’animazione. Ne parlavano da un pezzo, ma sembrava inoffensivo, non sobillava contro il governo, anzi si era creato nemici nella sua stessa gente. Gli ebrei erano così occupati a discutere su di lui, che si comportavano da amici dei romani.

    La sua malattia lo preoccupava, ora, molto di più di quanto potesse qualunque sommossa. Per tre giorni, chiuso nella sua stanza aveva ascoltato il parere dei medici senza risultato, perdendo a poco a poco la speranza, così, quando il servo gli parlò di Gesù e del potere che aveva, gli ordinò: Portalo subito da me

    È qui, l’hanno arrestato rispose, e lo accompagnò nel cortile.

    La città si svegliava in un plumbeo mattino, al belare inconsapevole e straziato degli agnelli, i più belli, senza imperfezioni, destinati ad essere sacrificati di lì a poco: solo la vittima perfetta, senza macchia, poteva essere offerta a Dio.

    È lui l’uomo che guarisce gli disse il servo indicando il prigioniero. Longino vedeva ombre muoversi e le lingue rossastre dei fuochi nei bracieri non l’aiutavano anzi, quando il bagliore riflesso su un’armatura colpiva i suoi occhi, lo feriva come spine. Anelava la luce e questa lo faceva soffrire.

    Indovinò, più che distinguere l’alta figura, grottesca nel manto rosso. I soldati avevano iniziato il loro gioco crudele. Guaritore, messia o impostore, quell’uomo, a quanto pareva senza ribellarsi, sarebbe morto della più turpe delle morti.

    Disilluso tornò, guidato dal servo, al suo giaciglio. Sentiva un terribile peso sul petto. Un’angoscia disperata e opprimente. Le voci e le risate gli giungevano attutite; piombò in un sonno agitato e sognò i teneri steli di grano e la lumachina immobile, paralizzata dal timore, incapace di spostarsi da quel filo. Poi sentì,

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