L’arcobaleno
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Anteprima del libro
L’arcobaleno - Fabio Baldissara
GIBRAN
Un pranzo speciale
I primi raggi del sole timidamente si affacciavano dal buio orizzonte che solo allora cominciava a distinguersi nitido. Il fulgore delle stelle iniziava a smorzarsi. La luce si diffondeva, prendendo il sopravvento sulla luminosità della luna che appariva ora immota, senza forma, una sagoma piatta; sembrava quasi rattristarsi della perdita del suo ruolo di essenziale punto di riferimento, unico bagliore notturno e cornice romantica di milioni di abbracci d’amore e baci di passione.
Era giorno.
Come ogni mattina, stentavo ad aprire gli occhi. I sogni, ancora vivi, mi trattenevano a letto; era una lotta senza esclusione di colpi. Mi sentivo intrappolato come nelle sabbie mobili.
Finalmente riuscii a svegliarmi e a uscire dal magma della sonnolenza.
Mi alzai.
Quasi barcollando, mi avvicinai alla finestra della camera da letto e guardai fuori; è il primo gesto delle mie giornate, oramai divenuto istintivo e inconsapevole. Rappresenta un modo per sintonizzarmi nuovamente con il mondo reale, dopo il lungo viaggio nei bizzarri luoghi onirici.
D’inverno, poi, spostare la tenda per spiare il mondo esterno, appena sveglio, è una sorta di gioco infantile. Spero sempre di trovare un universo fiabesco, completamente diverso da quello che ho lasciato la sera prima, in cui abbandonare il mio sguardo e perdermi nella sua contemplazione: il paesaggio innevato. Ma a Napoli è destinato a rimanere un sogno, visto che qui non nevica mai.
Quel desiderio incontrollabile di rimanere stupito di fronte allo scintillante bianco della neve che tutto ricopre, quasi in un materno abbraccio, proviene dai ricordi dell’infanzia. I miei nonni materni erano di Castelmezzano, un incantevole borgo incastonato fra le rocce delle Dolomiti Lucane. Spesso andavo a trovarli con mamma e papà. Non potrò mai dimenticare la sensazione di benessere quando la mattina presto, dalla finestra della mia stanza, ammiravo tutto il paese e la valle nascosti sotto morbidi e goffi massi di neve.
Rimanevo lì fermo e immobile, con il naso poggiato sul vetro della finestra, incantato da quello scenario così pittoresco e dalle fitte trame che disegnavano i fiocchi. Il ritmo del loro cadere era incredibilmente dolce. Erano come cullati dall’aria in una sorta di inno alla leggerezza.
E anche l’anima pareva meno pesante.
Il bianco accecante donava, di giorno, un senso di pacificazione interiore e di purificazione, quasi di redenzione; tutto sembrava più pulito e splendente, e per questo più rassicurante, e ogni cosa perdeva le sue spigolosità, mentre un misterioso e surreale silenzio imperava. Di notte, invece, riusciva a vincere le tenebre, rendendo visibili le forme delle montagne che, altrimenti, apparivano come ombre cupe.
Vestito, sbarbato e profumato ero pronto per uscire.
Era una radiosa giornata di maggio.
L’azzurro del cielo era scintillante e il sole, con i suoi delicati fasci di luce mattutina, accarezzava gli edifici e dava colore e allegria alla città. Ricordo le ore di quel giorno come fossero ieri, una per una, impresse a fuoco nella mia mente.
Incancellabili.
Erano l’anticamera della mia rinascita, l’ultima ora della vecchia vita, la vigilia di una nuova stagione.
Di lì a poco niente sarebbe stato più come prima...
– Possiamo ordinare? – chiesi a un cameriere dal viso scontroso e dalle braccia tatuate.
– Prego, signore, mi dica – mi rispose lui con fare distratto.
– Io prendo una margherita e, da bere, una bionda. E tu Floriana?
– Dunque, anche io vorrei una margherita, con poco formaggio però, e ben cotta e, mi raccomando, non esagerate con l’olio! Da bere vorrei dell’acqua naturale, non troppo fredda.
Il cameriere appuntò un po’ infastidito le meticolose indicazioni.
– Senta, – chiese Floriana avvicinandosi – ma è vero quello che si dice in giro? Fate davvero la pizza più buona di Napoli?
– Certo, signora mia! Qui è venuto a mangiare anche Clintòn, quando era in visita ufficiale. Guardate lì la foto sulla parete, che bella faccia teneva! Allora era ancora tranquillo. Non si erano ancora scoperti gli altarini con la stagista amica sua, la Levischi – rispose lui sbagliando tutte le pronunce e allontanandosi per prendere un’altra ordinazione.
– Effettivamente sembrava proprio in buona salute, eh?! – osservai divertito.
– Grazie Raul per avermi portato qui – mi disse Floriana, guardandomi con tenera riconoscenza.
– Davvero non c’eri mai stata?
– Proprio così. Sì, lo so, è vergognoso. Ma ci sono tante cose che non ho mai fatto e che non ho mai visto in questa città. Tu lo sai bene, da quando ero adolescente ho dovuto sempre lavorare per dare una mano a mamma. Da sole è stata dura andare avanti. Quindi, non ho avuto mai tanto tempo, e forse nemmeno la serenità giusta, per divertirmi e per conoscere nuovi luoghi. In più, il fatto di vivere in provincia, mi ha ulteriormente allontanata dalla città.
– Ti capisco – risposi annuendo.
– Le settimane scivolano via in fretta in un vorticoso alternarsi di lavoro, riposo e faccende da sbrigare. Senza nemmeno che tu te ne accorga trascorrono i mesi e gli anni in questo modo.
– Parole sante! Dovremmo essere noi a condurre e a gestire il tempo e non il tempo a governare noi. Bisognerebbe ritagliarsi degli spazi per sé, per lo svago, per la cultura, altrimenti il mondo diventa solo una cornice della tua vita, che rimane lì passivamente a osservarti e quasi a compatirti nella tua vuota frenesia quotidiana.
– È grazie a te, però – continuò Floriana – che mi sto riappropriando della mia terra. Te ne sarò sempre riconoscente.
– Da quanto tempo ci conosciamo? – le chiesi cominciando a sorseggiare la mia birra.
– Tra poco potremo festeggiare il primo anniversario del nostro incontro.
– Ma cosa vuoi festeggiare?! Alla mia età non ho voglia di far festa. Non mi va di ricordare a me stesso che è trascorso un altro anno.
– Ma smettila! Hai da poco superato i sessantacinque anni, sei giovane. Tu, poi, che tieni la mente sempre in attività non invecchierai mai. Quando assumi quest’atteggiamento ti detesto! – mi disse imbronciandosi.
– Vorrei tanto avere io i tuoi trent’anni! – esclamai con un pizzico di amarezza.
Floriana nemmeno mi rispose.
– Va bene – glissai – cambiamo argomento. Che te ne pare di questo posto?
– Avevi proprio ragione. Qui si sente il respiro vitale di Napoli – osservò lei sospirando e guardando dall’alto il vicolo su cui si affacciava la pizzeria.
– Ci troviamo nelle viscere pulsanti del centro storico! – le dissi entusiasta, suggerendo con un gesto delle mani il senso del bollore.
Ho sempre creduto che la vera Napoli, quella cantata dai poeti e dai musicisti, in cui sono nato e ho vissuto, fosse nascosta nelle ramificazioni del centro storico, dei decumani, dei vicoli da cui si sprigiona l’odore ardente di cucinato e l’intimo sapore di casa. In quell’intricato labirinto riconosco l’essenza e la storia della mia città.
Non mi stancherò mai di ammirare le meraviglie architettoniche che sembrano quasi intrappolate in quella ragnatela inaccessibile di viuzze.
Quella mattina io e Floriana avevamo fatto una lunga passeggiata a Spaccanapoli e nelle strade che l’intersecavano, durante la quale ero salito un po’ in cattedra, pavoneggiandomi a guida, con la mia passione per la storia e l’arte.
Floriana sembrava davvero interessata. Ciò mi gratificava e non faceva che accrescere l’enfasi delle mie descrizioni.
Le sottoponevo anche particolari apparentemente insignificanti e facevo in modo di farle respirare il folklore. Infatti la conducevo in luoghi dove sapevo che si poteva essere distratti dal carretto di un uomo che vendeva, senza pretese, compact disc di musica classica partenopea, facendola sentire a tutto volume oppure non si poteva fare a meno di sorridere divertiti di fronte a scene di colorita e sana quotidianità, tutta intrisa di una inconsapevole e genetica teatralità musicale.
In Floriana ammiravo la voglia di apprendere e di stupirsi. Quasi riconoscevo in lei me stesso alla sua età: il Raul trentenne assetato di vita e curioso.
La gita era terminata a Piazza San Gaetano, vicino alla pizzeria dove stavamo mangiando.
Si tratta di un luogo in cui bellezza e arte sembrano voler gareggiare. Da una parte, si erge la Basilica di San Lorenzo Maggiore, risalente al XII secolo.
– Ti confesso che è la mia preferita! – le avevo confidato.
– Perché? – mi chiese lei.
– È di un’eleganza sobria e unica. All’interno si respira un’atmosfera suggestiva e magica. Io non lo posso confermare perché sono ateo, ma dicono che Dio sembra ti sia più vicino. Inoltre, il fatto che sia legata a due grandi poeti, non fa che accrescerne il fascino e il prestigio; nel convento annesso, infatti, ha soggiornato Francesco Petrarca, mentre nella Basilica si dice che Giovanni Boccaccio abbia incontrato la sua Fiammetta.
Dall’altra parte, un’imponente scalinata, conduceva alla Basilica di San Paolo Maggiore, con due possenti colonne all’ingresso, resti dell’antico Tempio dei Dioscuri.
A pochi metri da lì, attraverso bui e sinistri varchi, si schiudeva l’accesso alle meraviglie e al mistero di Napoli sotterranea e ancora poco più in là, ecco che si snodava l’affascinante universo di S. Gregorio Armeno. Per finire, a poche decine di metri da dove stavamo pranzando, sotto il pavimento di un basso, sorprendentemente, si trovavano i resti archeologici di un teatro romano, dove si era esibito Nerone con la sua cetra e con tanto di claque al seguito, che ovviamente feci visitare a Floriana.
– Ti ho voluto condurre fin qui perché è un posto unico. In pochi metri quadrati si concentra una ricchezza immensa. – le avevo detto prima di entrare in pizzeria.
Floriana mi disse che aveva sempre notato lo stridente contrasto tra l’arte e la storia che si respirava in quei luoghi e la turbolenza della popolazione locale, quasi ignara e forse disinteressata all’immenso patrimonio culturale che contorna e orna la loro vita di tutti i giorni.
– È proprio così, – risposi – pensa che il proprietario del basso sotto cui hanno ritrovato il teatro romano utilizzava quello strano spazio sottostante
come garage per i motorini dei figli! Questa è una delle tante contraddizioni di questa città. Storia, arte e cultura sono concentrate proprio nella sua anima più schiettamente popolare, inquieta e povera.
Il locale della pizzeria dove avevo condotto Floriana rispecchiava fedelmente la vitale animosità del luogo. Sui tavoli non c’erano raffinate tovaglie, ma solo piatti, posate raccolte in tovaglioli di carta e bicchieri di plastica. Lo stile era, insomma, a dir poco spartano, ma ciò nonostante non mancava un’ineccepibile pulizia.
Il compito di servire ai tavoli era affidato a ragazzi efficienti, anche se non troppo eleganti nei modi e nei gesti. Spesso si udivano le loro urla che rappresentavano l’ordinario modo di comunicare, incuranti della privacy e dell’agio dei clienti.
Floriana si guardava intorno, inizialmente un po’ disorientata. Osservava incuriosita il frenetico andirivieni, a tratti fluttuante,