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La rosa nera di Halfeti: Maria Teresa Pasqualitti
La rosa nera di Halfeti: Maria Teresa Pasqualitti
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E-book237 pagine3 ore

La rosa nera di Halfeti: Maria Teresa Pasqualitti

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Info su questo ebook

È la storia di un’amicizia tra due donne, due spiriti liberi che si incontrano attraverso i complessi labirinti della vita, e si ritrovano a combattere una battaglia contro l’accettazione supina di molte donne del nostro secolo. 
Nella vita hanno sempre agito con rettitudine morale, non si sono abbassate a comportamenti meschini pur di arrivare alla meta prefissata. Sono state delle combattenti, hanno sempre rialzato la testa con fierezza senza farsi intimorire e senza piangersi addosso.
All’inizio fu per un principio, poi ne fecero una battaglia e vinsero la loro guerra aiutandosi l’una con l’altra, per non soccombere ai drammi che la vita gli metteva davanti. Sono le donne come loro che hanno contribuito all’emancipazione delle future generazioni, sperando che queste prenderanno coscienza e consapevolezza della loro forza e delle loro grandi capacità. 
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2024
ISBN9788867935680
La rosa nera di Halfeti: Maria Teresa Pasqualitti

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    Anteprima del libro

    La rosa nera di Halfeti - Maria Teresa Pasqualitti

    La vita di allora

    Il silenzio e l’oscurità avvolgevano il borgo, i rintocchi della campana ricordavano agli uomini che era tempo di alzarsi dal letto per andare in mare. Le finestre si illuminavano della luce fioca delle candele, e mia madre Danae si alzava anche lei, devotamente si faceva il segno della croce e si buttava uno scialle sulle spalle per raggiungere la cucina e mettere dentro una sacca, ormai lisa, il pasto che mio padre portava via. Era solo un pezzo di pane scuro, un pezzo di feta e una manciata di olive nere.

    Poi l’accompagnava fino all’uscio e lo salutava dicendo: «Il Signore ti protegga».

    Al tramonto le donne, come tante Penelope, sedute accanto alle finestre aspettavano con ansia il rientro dei loro uomini sferruzzando e lanciando di tanto in tanto uno sguardo verso quel mare amato e temuto.

    E quando all’orizzonte vedevano spuntare le prime barche con le vele spiegate, accompagnate da stormi di gabbiani stridenti, i loro cuori si alleggerivano. Lasciavano cadere i ferri in terra e raggiungevano il molo per aiutarli a sistemare il pescato e le reti ad asciugare.

    Dalla piccola finestra seguivo con lo sguardo mia madre allontanarsi a passi svelti, vestita perennemente di nero, con il fazzoletto annodato dietro al collo che le copriva gran parte dei capelli come se dovesse espiare una colpa che solo lei conosceva. Non le chiesi mai se fosse felice, se avesse dei desideri. No, non glielo chiesi mai perché le mie energie, i miei pensieri in quegli anni erano focalizzati su me stessa, come fossi presa da un vortice di egoismo che non mi consentiva di vedere e pensare altro.

    Eppure, se mi fossi soffermata a guardare anche per un istante i suoi occhi neri come la notte, incredibilmente dialoganti, come sono gli occhi delle donne greche, avrei potuto cogliere i segreti che racchiudevano.

    La famiglia

    Mio padre Hosios era un esperto pescatore, parlava poco e non faceva mai trapelare i suoi sentimenti come se provasse pudore a mostrarli. I suoi rari sorrisi erano dovuti a due soli avvenimenti: «Un fruttuoso pescato e una sosta all’osteria a bere un bicchiere di rosso prima di rientrare a casa».

    L’osteria era per molti uomini un rifugio da un mondo irriconoscente, fatto di privazioni, dove cercavano di stordirsi per dimenticare le angustie della vita.

    Mio fratello Ares, il primo di quattro figli, era un giovane con i capelli neri e gli occhi profondi ed espressivi, capaci di riflettere tutti gli stati d’animo che provava.

    Il taglio del suo viso era diverso da quello di tutti noi. Aveva una continuità tra la fronte e il naso, e noi sorelle ci divertivamo a prenderlo in giro quando di sera, la luce della candela disegnava il suo profilo sulla parete. Non avrebbe voluto fare il pescatore, non gli piaceva affatto, lo detestava lo trovava faticoso, e diceva che a forza di tirare reti le vene delle braccia gli sarebbero diventate grosse come funi.

    Amava i motori, le macchine da corsa, la sua grande aspirazione era quella di andare a lavorare in un’azienda meccanica in Germania, ma era consapevole che il suo sarebbe rimasto soltanto un sogno irrealizzabile.

    Avrebbe ereditato la barca di nostro padre, come lui a suo tempo ereditò quella del suo, che aveva costruito da solo essendo un valente maestro d’ascia. Una tradizione che si perdeva nella notte dei tempi. Nei momenti tristi, Ares tirava fuori da un angolo del pagliericcio fatto di foglie di granturco la pagina piegata di un giornale che ritraeva la foto di una macchina nera, profilata di metallo, tirata a lucido e si consolava guardandola.

    Adelia, la seconda di noi, era una ragazza molto bella, aveva degli occhi grandi e neri come quelli di nostra madre e una massa di capelli corvini ondulati che le ricadevano sulle spalle. Aveva stampata sul volto un’espressione perennemente triste, come se avesse la consapevolezza che la sua vita non sarebbe stata felice. Nei giorni di pioggia, quando eravamo costrette a stare in casa, la sorprendevo a scrivere sul vetro appannato della finestra i desideri che custodiva dentro di sé e che prontamente cancellava quando sentiva qualcuno arrivare.

    L’altra sorella Tabetha non era un granché fisicamente, le sue spalle erano piuttosto strette se confrontate al bacino fin troppo ampio. In compenso aveva ereditato la pazienza di nostra madre: qualunque cosa le capitasse o le si dicesse, sopportava tutto con un infinito spirito di rassegnazione e molti se ne approfittavano senza ritegno… compresa me.

    Ed eccomi, alta, magra, di bell’aspetto, irrequieta, irriverente, sempre in affanno, alla ricerca di qualcosa che mi sorprendesse e caricasse di emozioni per sfuggire mentalmente da quel cerchio costrittivo in cui mi sentivo sin da piccola. Nella mentalità di allora, la totalità dei genitori (molti di loro non sapevano neppure scrivere il proprio nome) non sentivano la necessità di dare un’istruzione ai propri figli, non lo ritenevano importante, era solo roba per signori. In nessuna occasione che io ricordi, ho visto libri per il piacere di leggere all’infuori di quelli scolastici. Sul mio libro di geografia passavo i momenti più belli: tracciavo con il dito un itinerario che sognavo un giorno di realizzare, mi fermavo in un luogo per poi ripartire per un altro e infine, stanca di tanto viaggiare, il mio dito cadeva dalla pagina, chiudevo il libro e alzavo lo sguardo per seguire un geco che si muoveva a scatti lungo il bordo del soffitto per poi sparire nelle fessure del muro. Così i miei occhi, stanchi e appagati, si chiudevano per il sonno, mi addormentavo e continuavo il mio viaggio in sogno.

    Il mondo femminile

    Le donne, a quel tempo, vivevano in un mondo circoscritto, in una sorta di voliera dove avevano l’illusione di volare ma di fatto svolazzavano soltanto. Potevano lavorare nei campi, eccome, caricarsi sul capo fascine di legna per scaldare la casa, eccome, cucinare, occuparsi dei figli, lavare la biancheria nei fontanili con l’acqua che gelava le mani fino a non sentirle, ma senza dimenticare la sudditanza alle varie figure che rappresentavano il potere nella famiglia: «Padre, zio, fratello e marito».

    Le mani di questi uomini, in caso contrario, si sarebbero alzate pesantemente su di loro. La donna aveva smesso di pensare, e non so neppure se avesse mai provato a farlo, per la semplice ragione che non le era permesso. Figuriamoci decidere! Quello era compito degli uomini… come se fossero dotati sin dalla nascita di un’intelligenza superiore.

    Era così radicata quella mentalità che erano le stesse nonne, madri e zie, prigioniere loro stesse, a insegnare alle figlie quelle regole e a non farle trasgredire. E guai ad essere troppo disinvolta, ridere mostrando tutti i denti o scambiarsi uno sguardo con un ragazzo, si rischiava di essere additata come una ragazza leggera, come se la leggerezza fosse un peccato e non una virtù.

    Davanti a quella desolante prospettiva, alle ragazze non restava che sottostare alle regole imposte e sognare di trovare un ragazzo diverso dal proprio padre che la chiedesse in moglie, e una cosa speravano, che non alzasse facilmente le mani alla prima risposta non allineata al suo pensiero.

    E qui si apriva un altro e ampio capitolo: quando ciò accadeva, il ragazzo chiedeva il permesso al padre di lei e, una volta accettato, poteva farle visita sotto lo sguardo attento della famiglia.

    Solo la domenica avevano l’autorizzazione ad andare insieme a messa, ma sempre accompagnati dalla madre o da un parente prossimo. Solo in un momento di distrazione voluta i due potevano stringersi le mani e sfiorarsi le labbra. Nessuno dei due conosceva veramente l’altro, in fondo a cosa serviva? Avevano ben chiaro i ruoli che avrebbero ricoperto una volta sposati. Lui si sarebbe comportato come suo padre e lei come sua madre e di notte si sarebbero accoppiati e avrebbero dato sfogo alle necessità sessuali. Di logica conseguenza sarebbero nati dei figli che avrebbero fatto il loro stesso percorso e la benedizione di tutta la comunità era assicurata.

    Provavo rabbia fin da allora e promettevo a me stessa che non mi sarei sottomessa a quell’assurda logica di sudditanza. Quando sarebbe arrivato il mio momento, in qualche modo avrei provato a squarciare quel muro invisibile cementato nelle loro menti, anche se cosciente che non sarebbe stato facile.

    Di certo non avrei avallato quella mentalità retriva fino a proporla alle mie figlie, se un giorno ne avessi avute.

    Il lavoro nei campi

    A quel tempo i contadini lavoravano nei campi senza sosta, sotto il sole cocente dall’alba al tramonto.

    Chi non conosce quella realtà potrebbe pensare erroneamente che quella fosse una vita semplice, ma in realtà era dura, sofferta, piena di sacrifici: vivevamo nel timore di una siccità o di un’improvvisa grandinata che rovinasse l’intero raccolto insieme alle speranze di tutta un’annata.

    Solo in un periodo preciso dell’anno, per alcuni, il morale si sollevava di molto. Succedeva all’inizio di luglio, nel mese della mietitura, quando le spighe raggiungono il massimo dell’estensione e, i campi si colorano del colore dell’oro. Gli uomini con i toraci villosi, nudi fino alla cintola, falciavano e le donne chine con il corsetto sbottonato per il caldo mostravano i seni pieni, rigogliosi, mentre rastrellavano e raccoglievano il grano in fascine. Poteva capitare che un giorno dopo l’altro a stretta vicinanza, tra due nascesse un’intesa e dopo un’occhiata condivisa, si ritrovavano a fare una sveltina sopra gli spuntoni rimasti nel terreno.

    Era un modo per sopperire alla noia di quella vita grama, faticosa, piatta, come fossero treni senza anima che viaggiavano sempre alla stessa velocità, su rotaie parallele senza stazioni per fermarsi.

    Oggi sorrido nel pensare a quanti figli siano nati in quei rapporti occasionali attribuiti agli ignari mariti, in fondo era un dare e avere, nessuno ci perdeva o guadagnava, alla fine era uno scambio alla pari.

    Anche mio nonno August, padre di mia madre, era un contadino e lavorava la terra. Me lo ricordo sempre curvo a zappare i vitigni a pianta bassa e asciugarsi il sudore che gli colava dalla fronte.

    Per capire se era tempo di tornare a casa non serviva l’orologio, in quell’epoca quelli da polso erano rari e assai costosi, non tutti potevano permetterseli. Per giunta, quando si guastavano, non si trovava facilmente qualcuno in grado di ripararli e bisognava spostarsi nel capoluogo.

    Ma non disperavano, c’era sempre la campana della chiesetta che scandiva le ore del giorno. A mio nonno bastava alzare la testa e, scrutando il Sole, capiva con precisione, o sbagliava di poco, l’ora che si era fatta.

    Solo un giorno contava per lui: la festa di San Nikolaos. Quel giorno lasciava qualsiasi cosa stesse facendo, tornava a casa, si metteva l’unico abito scuro che teneva nell’armadio, quello con il quale si era sposato, con la naftalina ancora nelle tasche, e con tutta la famiglia andava in chiesa ad ascoltare la messa.

    Finita la funzione seguivano la processione, preceduta da quattro forti giovani che portavano sulle spalle l’architrave con il santo che si snodava lungo le viuzze del borgo, e seguita dal coro di preghiere. Di tanto in tanto ci si soffermava lungo il percorso, davanti alle piccole nicchie votive sulle facciate dell’abitazione delle famiglie committenti, per poi riprendere fino ad arrivare al porto per la benedizione delle barche. Conclusa la cerimonia, il santo veniva riportato in chiesa, mentre la folla dei paesani si fermava a salutare amici e parenti molti dei quali arrivati dai paesi limitrofi.

    Era l’occasione per rivedersi e pranzare insieme gustando le buone pietanze che le donne avevano preparato fin dal mattino presto, senza mai dimenticare i deliziosi baklavas, dolci che trovavo celestiali, fatti di zucchero, mandorle e cannella. Finito di pranzare, le donne si apprestavano a sparecchiare la tavola, poi andavano in cucina a lavare i piatti e spettegolare, unico loro passatempo, mentre gli uomini si trattenevano a parlare sempre degli stessi argomenti che riguardavano la pesca, o cosa ripiantare la prossima stagione, sorseggiando un bicchiere di mastika e fumando una sigaretta fino a bruciarsi le labbra. Nel frattempo noi bambini giocavamo a rincorrerci nello spazio fuori casa.

    Nel pomeriggio si riscendeva al porto, si passeggiava tra i banchetti degli ambulanti che vendevano ogni tipo di mercanzia e ci si alleggeriva dalle ataviche preoccupazioni ascoltando la musica del sirtaki suonato con fervore e passione da un gruppo di musicisti arrivati per la festa.

    Qualcuno tra i giovani non resisteva a quella musica trinante, le sue gambe iniziavano a muoversi, e accennava un passo di danza, altri, presi dallo stesso entusiasmo, lo seguivano a ruota e si creava un gruppo festoso di danzatori scandito dal battito delle mani di chi restava a guardare… e tutto il Philotimo Greco veniva fuori. Poi si aspettava impazienti la sera per vedere i fuochi d’artificio brillare nel cielo.

    Per le ragazze, le feste erano un’occasione per farsi notare dai giovanotti carichi di ormoni, e le pettegole di mestiere godevano nel dare fiato alle trombe sapendo che il giorno dopo tutto sarebbe tornato lento e sempre uguale. La monotonia si sarebbe riappropriata dei gesti e delle parole, e gli anni tardavano a passare come avessero i piedi di piombo mentre l’agire dentro di me aspettava intrepido.

    L’occasione che aspettavo

    Una mattina mi mandarono al porto per fare una commissione, e mi capitò di ascoltare dei pescatori discutere ad alta voce sulla mancata consegna di vele per barche da parte di un tale che non riusciva a confezionarle per scarsità di operaie. Parlandone rivelarono il nome e la zona in cui l’uomo si trovava…

    All’improvviso nella mia piccola testa si accese una luce, pensai che fosse l’occasione che aspettavo da troppo tempo. Dimenticai quello che ero andata a fare e presi a correre come una forsennata verso casa di zia Margherita. Quando arrivai, la trovai fuori dalla porta come se mi stesse aspettando.

    Tutto d’un fiato le raccontai quello che avevo sentito e la mia intenzione di presentarmi sperando di essere assunta. Lei mi ascoltò senza mai frenare il mio entusiasmo e promise che mi avrebbe accompagnata. La mattina seguente, senza dire nulla ai miei, andai in piazzetta dove zia mi aspettava e insieme prendemmo la corriera. È inutile dire che eravamo prese da una forte apprensione, la mia dovuta alla giovane età e la sua per avermi accompagnata senza il permesso dei miei.

    Ci impiegammo circa mezz’ora per arrivare nei pressi della piccola azienda, un caseggiato basso e lungo, fatto di pietre e calce con il tetto in lamiera e piccole finestre di legno verniciate di azzurro, distante un centinaio di metri dalla spiaggia.

    Mi avvicinai alla porta semichiusa e sentii un forte rumore di macchine in funzione, allungai il collo e sbirciai all’interno per vedere se ci fosse qualcuno a cui chiedere informazioni. Un uomo si accorse di noi, ci venne incontro e, con un fare piuttosto brusco, tipico degli uomini di quel tempo, chiese cosa stessimo cercando. Risposi che ero là per chiedere lavoro.

    L’uomo tirò indietro la testa, aggrottò le sopracciglia, mi dette una sbirciata da capo a piedi e con un tono di sufficienza rispose: «Cerchiamo operaie che sappiano cucire a macchina»

    «Lo so fare, risposi decisa»

    «Domani alle sette!» rispose lui.

    Non chiese che età avessi e la cosa non ci meravigliò: a quel tempo i datori di lavoro e le istituzioni non erano particolarmente attenti all’età in cui si iniziava a lavorare, si era grandi anche se non lo eravamo, bastava che ci reggessimo sulle gambe ed eravamo pronti ad accudire gli animali, e bagnare l’orto di casa. Aspettai di allontanarmi dal caseggiato e detti sfogo a tutta la mia gioia, spalancai le braccia e, con il viso rivolto al cielo, iniziai a girare su me stessa finché non persi l’equilibrio e mi ritrovai seduta in terra. Ero felice, era ciò che avevo sognato di fare, ma nel viaggio di ritorno mi lambiccai il cervello a pensare a come dirlo ai miei, sapendo che non sarebbe stato per nulla semplice. Già immaginavo la scena plateale di mio padre che avrebbe dato di matto, mia madre si sarebbe chiusa in totale silenzio e avrebbe abbassato la testa in segno di sottomissione, i miei fratelli si sarebbero messi in un angolo impauriti sperando che mio padre non sfogasse la sua rabbia su di loro.

    Per questo pregai zia di esserci anche lei quando gliene avrei parlato, sapendo che aveva un forte ascendente su di loro. Come sempre fu unica, meravigliosa: si prese l’impegno di andarci a parlare il giorno stesso, ma non volle che fossi presente.

    Aspettai con trepidazione la sentenza sperando fosse d’approvazione, in

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