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Bastardo fino in fondo
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E-book288 pagine4 ore

Bastardo fino in fondo

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Info su questo ebook

A volte è necessario perdere tutto per capire di che cosa abbiamo davvero bisogno

Bestseller del New York Times 

Un australiano sexy e arrogante di nome Chance. Era davvero l’ultima persona in cui mi aspettavo di imbattermi nel mio viaggio attraverso il Paese. Quando la mia macchina si è rotta, abbiamo fatto un accordo: niente programmi, saremmo andati avanti per miglia e miglia passando notti sfrenate in motel sconosciuti senza limiti e senza una meta precisa. E così quello che doveva essere un normale viaggio si è trasformato nell’avventura della vita. Ed è stato tutto davvero incredibile finché le cose non sono diventate serie. Lo desideravo, ma Chance non si esponeva. Pensavo che mi volesse anche lui, invece qualcosa sembrava trattenerlo. Non avevo intenzione di perdere la testa per quel bastardo arrogante, soprattutto da quando avevo saputo che le nostre strade stavano per dividersi. D’altra parte si dice che tutte le cose belle prima o poi finiscono, o no? Forse è così, o forse ero io che non volevo vedere la fine della nostra storia...

Dalle due autrici bestseller del New York Times
Il romanzo più sexy dell’anno

«Coinvolgente e con un colpo di scena impossibile da indovinare. Una delle migliori letture dell’anno!»
The Rock Stars

«Stupendo, stupendo, stupendo!»

«Bastardo fino in fondo è uno dei miei libri preferiti di sempre.»
Penelope Ward
È un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Wall Street Journal». È cresciuta a Boston con cinque fratelli più grandi e ha lavorato come giornalista prima di diventare una scrittrice. Vive nel Rhode Island con il marito e due figli.
Vi Keeland
Con più di un milione di libri venduti, Vi Keeland si è affermata come una delle autrici di maggiore successo della sua generazione e i suoi romanzi sono tradotti in dodici lingue. Vive a New York con il marito, che ha incontrato all’età di sei anni, e i loro tre figli.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2017
ISBN9788822709943
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    Anteprima del libro

    Bastardo fino in fondo - Penelope Ward

    1675

    Titolo originale: Cocky Bastard

    Copyright © 2015 by Penelope Ward and Vi Keeland

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Brunella Palattella

    Prima edizione ebook: giugno 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0994-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Penelope Ward – Vi Keeland

    Bastardo fino in fondo

    Ai nostri mariti, i veri bastardi impertinenti.

    Indice

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    PARTE SECONDA

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Parte prima

    Capitolo 1

    Chissà se le vibrazioni avrebbero avuto un effetto piacevole tra le mie gambe…

    La Harley-Davidson cromata, parcheggiata poco più avanti, brillava sotto il sole afoso di mezzogiorno. Mentre aspettavo che terminasse la canzone dei Maroon 5 alla radio, osservavo quel giocattolino maschile a due ruote e rovistavo nella borsa in cerca del mio cellulare. La moto era semplice, nero lucido e argento splendente, sacche di pelle consunta con un teschio inciso sotto le iniziali C.B..

    Quanto sarebbe stato bello salirci sopra. Il vento che soffia tra i miei lunghi capelli, le braccia strette attorno a un uomo con un soprannome da duro, il motore rombante tra le cosce fasciate nei jeans. Horse? Drifter? Guns? Aspetta. No. Pres. Il mio motociclista immaginario si chiamava sicuramente Pres. E assomigliava a Charlie Hunnam.

    Sull’iPhone trovai almeno sei nuovi messaggi di Harrison. Feci un sorrisetto tra me e me: di sicuro nessun Harrison aveva mai guidato una Harley. Misi il telefono nella borsa, spensi il motore della BMW strapiena e lanciai un’occhiata al sedile posteriore. Le scatole impilate fino al tettuccio iniziavano a rendere claustrofobica la mia auto full-size.

    Un autobus di turisti si fermò all’autogrill. Fantastico. Avrei fatto meglio a entrare subito a comprare da mangiare, o non me ne sarei mai andata di lì. Dopo dieci ore di guida attraverso il Paese, da Chicago a Temecula, in California, mi trovavo da qualche parte in Nebraska, con almeno altre venti ore di viaggio davanti.

    Dopo aver aspettato quindici minuti per una Pepsi e delle crocchette di pollo fritto che avevo intenzione di mangiare in macchina, mi fermai nel piccolo negozio di souvenir. Ero stanchissima e non avevo voglia di guidare altre cinque ore prima di trovare un posto in cui passare la notte. Assonnata, diedi un’occhiata in giro per qualche minuto. Tra i vari oggettini esposti scelsi un pupazzetto di Barack Obama con la parte superiore mobile e lo agitai stupidamente, guardando quel sorriso maniacale mentre la testa sballonzolava avanti e indietro.

    «Prendilo. Si vede che lo vuoi», disse una voce profonda e rauca alle mie spalle che mi spaventò. Il pupazzetto mi cadde dalle mani e la testa rotolò via.

    La donna alla cassa urlò: «Mi dispiace, signorina. Deve pagarlo. 20 dollari».

    «Maledizione!», esclamai. Mi chinai per prendere ciò che restava di quel souvenir e sentii di nuovo la voce dietro di me.

    «E pensare che per molti è uno con la testa sulle spalle». L’accento sembrava australiano.

    «Credi sia divertente, coglione?», domandai prima di girarmi a guardare per la prima volta chi mi aveva rivolto la parola.

    Rimasi di stucco.

    Oh, merda.

    «Non c’è bisogno di fare la stronza». La sua bocca si curvò in un sorrisetto malizioso quando mi passò la parte inferiore di Obama. «E per la cronaca, sì, per me è stato molto divertente».

    Mi sembrò di aver perso la capacità di parlare mentre osservavo l’Adone di fronte a me. Avrei voluto togliergli quel sorriso arrogante dal viso – un viso splendido, squadrato e vissuto, incorniciato da folti capelli ramati. Cazzo. Quell’uomo era incredibilmente sexy, non certo il tipo che ti aspetteresti di incontrare in un posto simile. Ero nel bel mezzo del nulla negli Stati Uniti, non nell’entroterra australiano.

    Mi schiarii la voce. «Be’, per me non lo è per niente».

    «Allora dovresti toglierti la scopa dal culo e rilassarti un po’». Tese la mano e disse: «Dallo a me, principessa. Lo pago io». Prima che potessi rispondere prese i due pezzi e un brivido mi corse lungo la schiena quando la sua mano sfiorò per un attimo la mia. Aveva anche un profumo fantastico, ovviamente.

    Lo seguii alla cassa e rovistai nel caos della mia borsa per cercare i soldi, ma lui era stato più veloce e aveva già pagato.

    Mi diede il sacchetto di plastica con il pupazzetto rotto. «Il resto è qui dentro. Comprati un po’ di senso dell’umorismo».

    Oddio, quell’accento.

    Spalancai la bocca mentre lo seguii con lo sguardo uscire dal negozio.

    Che culo.

    Aveva proprio un bel fondoschiena. Un culo sodo, sexy, tondo su cui aderivano i jeans. Dio, avevo davvero bisogno di scopare, perché, anche se quel tizio mi aveva appena insultata, le mie mutandine erano praticamente zuppe.

    Dopo aver fissato nel vuoto per diversi minuti una mensola con le magliette dei Nebraska Cornhuskers, provai a riprendermi. Era evidente che la stanchezza stava avendo la meglio su di me. Di solito non ero così irascibile. Dovevo dimenticare quello strano incontro e rimettermi in marcia. Lo stomaco brontolava e non vedevo l’ora di mangiare il pollo fritto una volta ripreso il viaggio. Ne presi un pezzo dalla confezione che avevo in borsa, uscendo dall’edificio. Ma smisi di masticare quando lo vidi fermo, poco oltre la mia auto, seduto sulla moto che mi aveva fatto fantasticare poco prima.

    Avvicinandomi lentamente alla mia macchina sperai che non si accorgesse di me, ma non fu così. Anzi, quando mi vide, mi rivolse un sorriso smagliante e mi salutò con la mano.

    Mentre cercavo affannosamente le chiavi, alzai gli occhi al cielo e mormorai: «Ancora tu».

    Lui ridacchiò. «Sei riuscita a trovare un po’ di umorismo?»

    «Ho usato il resto per comprarti delle buone maniere».

    Divertito, scosse il capo. Si passò una mano tra i capelli, infilò il casco nero lucido e mise in moto la Harley. Il rombo mi scosse dentro.

    Entrai in macchina sbattendo lo sportello e lanciai un’ultima occhiata a quell’uomo che non avrei mai più rivisto. Lui mi fece l’occhiolino da sotto la visiera e il mio patetico cuore iniziò a palpitare.

    Guardai dallo specchietto retrovisore mentre faceva retromarcia nel parcheggio. Pensavo che sarebbe sfrecciato via, ma dopo essersi mosso lentamente, si fermò. Cercò ripetutamente di far ripartire la moto, ma niente. Alla fine spense il motore, si levò il casco e si passò la mano tra i capelli con frustrazione, prima di capire cos’era successo. Io sarei dovuta andar via, ma non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Maledizione.

    Inzuppai una crocchetta di pollo nella salsa di mostarda di miele e la misi in bocca, osservando la scena ancora per qualche minuto. Poi chiamò qualcuno, camminando avanti e indietro.

    Quando rimise il telefono in tasca, si girò verso di me e mi guardò storto. Beccata a osservarlo, risi nervosamente. Lo feci d’istinto, e quando inarcò un sopracciglio risi ancora più forte. Venne verso di me a rallentatore, tenendo puntato il casco sul fianco. Bussò al finestrino e io lo abbassai.

    «Credi sia divertente, principessa?»

    «Non proprio… forse», risposi.

    «Be’, sono felice che tu abbia finalmente trovato un po’ di senso dell’umorismo».

    Dio, aveva un accento davvero sexy.

    Allungò il collo per guardare dietro e notò le tante scatole. «Sei una senzatetto o cosa? Vivi qui dentro?»

    «No. Mi sto trasferendo dall’altra parte del Paese».

    «Dove vai?»

    «Temecula».

    «California. Anche io».

    Guardai la sua Harley. «Be’, al momento tu non vai da nessuna parte. Credo sia quello che ti meriti per avermi definito una stronza».

    «Sì, è proprio così».

    «Che te lo meriti?»

    «No, che sei una stronza».

    «Molto divertente».

    «Sai cos’è meglio di ciò che merito io?», mi chiese, appoggiandosi al finestrino e inebriandomi con la sua colonia.

    «Cosa?». Agitò le sopracciglia in modo allusivo. «Il Karma».

    «Di che parli?»

    «Vieni a vedere il retro della tua Beemer».

    BI-MAA.

    Uscii e mi resi conto che la ruota posteriore era completamente sgonfia.

    Cosa? Non può essere vero.

    Con una mano sulla fronte, guardai la sua espressione compiaciuta. «Mi prendi in giro? Sapevi già che la mia ruota era sgonfia?»

    «L’ho notato quando ti ho beccata a mangiare pollo e a ridere di me. È stato davvero difficile far finta di niente».

    Non sapevo cambiare una ruota della macchina. Non potevo credere che stavo per chiedergli di darmi una mano.

    «Sai cambiare una ruota?»

    «Certo. Che uomo sarei, altrimenti?»

    «Mi aiuteresti? So che non hai alcun motivo per farlo… dopo la nostra piccola lite, ma sono disperata. Non voglio restare tutta la notte qui da sola».

    «Posso farti una domanda?»

    «Dimmi».

    «Cosa sei disposta a fare per questa ruota?», chiese, massaggiandosi la barbetta sul mento.

    Io indietreggiai. «Dove vuoi arrivare?»

    «Niente di male, tesoro. Non ti sto proponendo quello che pensi. Non sei il mio tipo».

    «E qual è esattamente il tuo tipo?»

    «Di solito preferisco le donne che non hanno la personalità di un pomello».

    «Grazie».

    «Prego».

    «Quindi, quali sono le tue condizioni?»

    «Be’, come è evidente dalle tue risatine, la mia Harley ha qualche problema tecnico al momento. Mi serve una parte che non ho. Ho chiamato un carro attrezzi. Non ho molto tempo e, come te, devo arrivare in California».

    «Non vorrai chiedermi di…».

    «Esatto. Se ti cambio la ruota, tu mi fai montare con te».

    «Montare con me?»

    «Montare su di te».

    «Cosa hai detto?»

    «Hai le allucinazioni».

    Scossi il capo per allontanare quell’immagine dalla mente. Era stata la stanchezza a farmelo immaginare o mi stava prendendo in giro?

    «Non posso guidare per centinaia di chilometri con uno sconosciuto», dissi.

    «È molto più sicuro che guidare da sola».

    «Non se sei un serial killer!».

    «Senti chi parla. Sei tu che hai decapitato un presidente degli Stati Uniti».

    Scoppiai a ridere. La situazione era parecchio bizzarra.

    «Santo cielo, principessa, stai ridendo davvero?»

    «Credo che tu mi stia facendo delirare».

    Lui tese la mano. «Allora, ci stai?». Io incrociai le braccia. «Ho altra scelta?»

    «Be’, potresti sempre chiedere a lui di cambiarti la gomma». E indicò un uomo grosso e spaventoso che ci stava osservando. Quel tizio sembrava Frankenstein in carne e ossa.

    Feci un bel respiro e mi arresi. «Ci sto. Ci sto! Portami via di qui».

    «Immaginavo. Dimmi che hai una ruota di scorta».

    «Sì, ma dovrò spostare alcuni scatoloni per prenderla».

    Lui scoppiò a ridere non appena si rese conto della situazione del mio bagagliaio. «Maledizione, che diavolo è questa roba?». Lo guardai dritto negli occhi e risposi sinceramente: «Tutta la mia vita».

    Impilai temporaneamente gli scatoloni sul marciapiede. Il ragazzo prese la ruota di scorta e si mise subito al lavoro.

    Mentre armeggiava col cric, la maglietta bianca si sollevò mettendo in mostra gli addominali scolpiti e abbronzati, e una striscia di peli che scompariva nella biancheria. Non era il momento di eccitarsi. Dovevo distrarmi, così andai a sedermi sulla sua moto, afferrando i manubri e immaginando come sarebbe stato guidarla. In realtà, l’unica cosa che riuscivo a vedere era lui davanti a me, e ciò non aiutava.

    Il ragazzo si sollevò da terra. «Attenzione, bambina. Non è un giocattolo».

    Io scesi e passai le dita sulle lettere incise sulle sacche. «Che significa C.B.?»

    «Sono le mie iniziali».

    «Fammi indovinare… Cretino Bastardo

    «Ti direi come mi chiamo, ma dato che fai la saputella, ti lascerò indovinare».

    «Come ti pare, cretino».

    Lui si inginocchiò. «Devo solo stringere questi bulloni e poi possiamo andare».

    «Bulloni?»

    «I bulloni… della ruota».

    «Ah».

    Rimettendosi in piedi, sollevò la maglietta per asciugarsi la fronte. «Fatto».

    Maledizione.

    «Sei stato veloce. Sicuro che sia a posto?»

    «C’è qualche rotella fuori posto, in effetti, ma come scoprirai presto, non è sulla ruota». Mi fece l’occhiolino e per la prima volta notai le fossette. «Dovremmo fermarci domani per mettere una ruota nuova. Questa di scorta non può essere usata a lungo».

    Domani. Wow. Sta accadendo davvero.

    «È meglio che andiamo», dissi. «Guido io. Devo avere la situazione sotto controllo».

    «Come vuoi», rispose lui.

    Sentii la tensione sul collo mentre facevo retromarcia. Era una circostanza a dir poco interessante. Quello sconosciuto si mise subito a mangiare le mie crocchette di pollo.

    Gli diedi uno schiaffo sulla mano. «Ehi, lascia stare il mio cibo».

    «Mostarda di miele? Preferisco la salsa barbecue». Si leccò il pollice e imprecai tra me e me per essermi eccitata un pochino. Sarebbe stato un viaggio davvero lungo.

    Lui fece un sorrisetto e sollevò il sacchetto del negozio di souvenir. «Lo hai aperto?»

    «No, perché? È un pupazzetto rotto».

    Passandomelo, disse: «Sicura?».

    Con una mano sul volante, tirai fuori il pupazzetto… intero.

    «Cosa… come hai fatto?»

    «Sembrava ti piacesse, così ho pagato l’altro e te ne ho preso uno nuovo. Eri troppo occupata a rovistare nella borsa per accorgertene».

    Io sorrisi, scuotendo il capo.

    «Ma guarda un po’. Un sorriso sincero». Tese la mano. «Ecco… dammi». Quando glielo diedi, tolse l’adesivo dal fondo e lo incollò al cruscotto. La testa di Obama si muoveva avanti e indietro a ogni movimento dell’auto.

    Io scoppiai a ridere per l’assurdità, ma non potevo ignorare la sensazione piacevole che mi suscitò quel suo gesto dolce. Forse non era un bastardo.

    Restammo in silenzio per un po’, lui poggiò la testa sul sedile e chiuse gli occhi. Mentre eravamo sulla I-76, dopo che il sole al tramonto aveva dipinto d’arancione l’orizzonte, si voltò verso di me.

    «Io sono Chance», disse con voce roca.

    Dopo qualche secondo di silenzio, risposi: «Aubrey».

    «Aubrey», ripeté sottovoce, come se stesse contemplando il mio nome prima di richiudere gli occhi e girare il capo dall’altra parte.

    Chance.

    Capitolo 2

    «Vuoi far rispondere la segreteria?». Chance guardò storto il telefono che vibrava sul cruscotto. Quel maledetto aggeggio aveva vibrato ogni mezz’ora, ma ora l’intervallo tra una chiamata e l’altra si era ridotto a dieci minuti.

    «Sì». Il telefono smise di muoversi e io non diedi alcuna spiegazione. Magari avrebbe capito che era meglio lasciar perdere.

    Ma ovviamente non fu così. Cinque minuti dopo il cellulare ricominciò daccapo e Chance lo afferrò prima che potessi rendermene conto.

    «Ti chiama Harry». Fece ciondolare il telefono tra il pollice e l’indice, avanti e indietro finché non glielo strappai di mano.

    «È Harrison. E non sono affari tuoi».

    «Sarà un lungo viaggio, principessa. Sai che ne parleremo prima o poi».

    «Fidati, non succederà».

    «Lo vedremo».

    Dopo qualche minuto, il telefono iniziò di nuovo a vibrare. Prima che potessi fermarlo, Chance lo prese e rispose alla chiamata.

    «Pronto».

    Strabuzzai gli occhi. Stavo quasi per sbandare, eppure rimasi lì, muta.

    «Harry, come va, amico?».

    Il leggero accento australiano all’improvviso si fece marcato. Sentii Harrison alzare la voce al telefono, anche se non riuscii a capire cosa stesse dicendo. Lanciai un’occhiata all’espressione impertinente di Chance. Lui fece spallucce, mi sorrise e si appoggiò al sedile. Era divertito. In quel momento decisi che il nostro viaggio era terminato. All’uscita successiva lo avrei mandato via a calci nel sedere. Quella massa di muscoli perfettamente scolpita poteva attraversare tutto il Nebraska a piedi, per quel che m’importava.

    «Sì, certo. È qui. Ma abbiamo un po’ da fare al momento».

    Sentii chiaramente la domanda successiva. Chance allontanò il ricevitore dall’orecchio mentre Harrison sbraitava: «Chi cazzo sei?»

    «Mi chiamo Chance, Chance Bateman. Alcuni amici mi chiamano Cretino», disse con una perfetta intonazione. La vena sul collo di Harrison stava sicuramente per scoppiare. «Passa. Il. Cazzo. Di. Telefono. A. Aubrey». A ogni parola corrispondeva un breve scatto intermittente di rabbia. All’improvviso, non ce l’avevo più con Chance per aver risposto al telefono. Ero furiosa per la faccia tosta di Harrison di essere arrabbiato per ciò che stavo facendo.

    «Non può, Harry. È… indisposta al momento».

    Udii un altro ringhio di imprecazioni provenire dal telefono.

    «Ascolta, Harry. Te lo dico da uomo a uomo, perché sembri una brava persona. Aubrey sta evitando le tue chiamate per educazione. La verità è che non vuole parlarti».

    La mia rabbia balzava rapidamente da un uomo all’altro. Eppure… AH-BRII. Volevo strangolare Chance, ma allo stesso tempo avrei voluto che ripetesse il mio nome. Che diavolo di problema avevo? Non riuscii a sentire la risposta di Harrison perché ero intenta a riascoltare il suono del mio nome pronunciato con l’accento australiano. Il modo in cui scorreva sulla lingua di quel bastardo presuntuoso mi faceva sentire le farfalle nello stomaco. Potrei aver perso momentaneamente la cognizione del tempo mentre immaginavo di sentirlo sussurrare nell’orecchio con voce gutturale. AH-BRII.

    Sbattei le palpebre per tornare alla realtà, Chance sospirò esageratamente al telefono. «Okay, allora, Harry. Ma ora faresti meglio a smetterla. Stiamo facendo un bel viaggio e le tue continue chiamate fanno innervosire la nostra ragazza. Quindi, fai da bravo e smettila di interromperci per un po’. Chiaro?».

    La nostra ragazza. La vena sul collo di Harrison doveva essere già esplosa.

    Chance non aspettò una risposta e chiuse la chiamata.

    Per cinque minuti nessuno dei due disse una parola. Probabilmente si aspettava una ramanzina.

    «Non me ne dirai quattro per aver chiacchierato con Harry?».

    Strinsi forte le mani sul volante. «Sto valutando».

    «Valutando?», disse lui, quasi divertito.

    «Sì, valutando».

    «E che diavolo significa?»

    «Significa che non dirò la prima cosa che mi viene in mente. Diversamente da certa gente, io penso a cosa provo e lo esprimo in modo appropriato».

    «Filtri le cose».

    «Non è vero».

    «Sì, invece. Se sei incazzata, dillo. Urla, se devi. Ma fallo adesso e poi basta, smetti di fare sempre la stronza».

    La strada era quasi deserta, non sarebbe stato un problema inchiodare e accostare al lato della strada. Attraversai tre corsie e mi fermai. Era buio, l’unica luce era quella dei miei fari e delle auto che passavano di tanto in tanto. Scesi dalla macchina e andai dal lato del passeggero, in attesa che lui mi raggiungesse.

    Con le mani sui fianchi, esclamai: «Hai una bella faccia tosta. Ti ho salvato il culo alla stazione di servizio e tu sei entrato nella mia auto, ti sei mangiato metà del mio cibo, hai cambiato la stazione alla radio e, per finire, hai risposto al mio telefono».

    Lui incrociò le braccia sul petto. «Non mi hai salvato il culo, ho mangiato una crocchetta di pollo, hai dei gusti musicali terribili e Harry con la scopa in culo ti stava innervosendo».

    Lo guardai storto. E lui fece lo stesso.

    Oh, mio dio. I fari di un’auto che passava gli illuminarono il viso e lo vidi. Il numero tredici. I suoi occhi arrabbiati avevano lo stesso colore del numero tredici. Toglievo sempre la carta attorno al blu cadetto della confezione da sessantaquattro pastelli a cera, prima ancora che gli altri avessero

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