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Il viaggio di una stella
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E-book378 pagine5 ore

Il viaggio di una stella

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Info su questo ebook

“Ero ancora io, a New York? Americana di mezz’età, antropologa, archeoastronoma, strana scienziata un poco pazza con venature di misticismo, il pomeriggio di Natale, seduta nel seggiolino avvolgente del mio amato planetario come nella placenta della mia vita? O la giovane ch’ero stata, mentre arrivava oltre il novantanovesimo gradino di Machu Picchu? O la terra stessa nel suo vorticare? O un Inca del passato? O ancora, molto prima, uno sciamano forse… un paqo, dinanzi a quello che voleva dire per lui la precessione? Lasciai che accadesse!” Inizia così, da New York alle Ande, un viaggio straordinario negli ultimi anni del grande impero inca, prima della conquista spagnola. Su un territorio enorme e variegato, sorprendenti avventure si accompagnano a una vibrante ricerca interiore. Il 25 dicembre di un altro Natale, il terribile rito della capacocha attende, a Cuzco, le processioni dei fanciulli per il sacrificio. I giovanissimi Coyllur e Huantàr riusciranno a salvarsi? La domanda s’intreccia ad altre. E alla fine arriveranno anche le risposte.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2015
ISBN9788869630323
Il viaggio di una stella

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    Anteprima del libro

    Il viaggio di una stella - Susanna Trippa

    Susanna Trippa

    IL VIAGGIO DI UNA STELLA

    Elison Publishing

    ***Le illustrazioni contenute in questo romanzo sono dell’autrice.

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    Via Milano 44

    73051 Novoli (LE)

    ISBN 9788869630323

    A Luca  

    Indice

    Prologo

    Parte prima

    Come in un tempio

    Il paco racconta

    La casa del mondo è in pericolo

    Guerra al tempo

    La verde miccia

    Là dove tutto era nato

    Il popolo delle nuvole

    Inizia il viaggio

    Assalti e misteri

    La Mama racconta

    Il sogno

    La Raya

    Il puric soldato

    Un piccolo lama

    Piqui Chaqui

    La danza

    Il grande parlatore

    L’inganno del Condor

    Cuzco

    Lo yana Yauri

    La fuga di Huantàr

    Huayna Capac

    Conquistadores

    Parte seconda

    Il ritorno

    Epilogo

    Il viaggio di una stella* come una parabola

    Il viaggio di Coyllur lungo la Collasuyu (cartina)

    Il viaggio di Huantàr lungo la Chinchaysuyu (cartina)

    Glossario

    Bibliografia

    Sitografia

    Prologo

    Vi sono forze meravigliose e stupefacenti dentro di noi.

                                                                     SAN FRANCESCO D’ASSISI

    Le creature che abitano questa terra – siano essi animali o esseri umani – sono qui per contribuire, ciascuno nel suo modo particolare, alla bellezza e alla prosperità del mondo.                                                             TENZIN GYATSO, XIV DALAI LAMA

    La zolla di terra, una qualsiasi, racchiude un mondo.

    Se è così, non importa quale scrutiamo, quale iniziamo ad osservare.

    Ognuno, a seconda delle proprie inclinazioni, sceglierà quella a sé più congeniale o che, per uno strano motivo difficile da rintracciare, l’ha preso all’amo. Può trattarsi della minuscola zolla del giardino accanto o di un’altra, miglia e miglia più in là per spazio e tempo e apparentemente così differente da noi, quelli che ora la stanno guardando.

    Ma miglia e miglia a volte spariscono in un soffio e, come sappiamo, il lieve battito d’ala d’una farfalla in Cina può provocare un mutamento proprio qui.

    Il mutamento. Come ne abbiamo paura! Come se stare fermi in idee e convinzioni, potesse poi evitare il peggio.

    Agire, imparare ad agire, soprattutto con il cuore e la mente, è quanto forse c’insegnerà quest’era dell’Acquario{1}?

    Profeti{2} , in bilico tra scienza e spiritualità, ci stanno ammaestrando. C’invitano ad esplorare al nostro interno qui e ora; e a guardare, non solo al futuro verso cui siamo sempre ansiosamente proiettati, ma al passato. Al passato, perché già ci avevano parlato in molte forme e modi, ma le nostre orecchie erano chiuse, ermeticamente chiuse, come le pareti stagne d’un sommergibile inabissato nel fondo scuro dei mari.

    Ora è giunto il momento di aprirle. È il momento di aprire l’orecchio interiore e risvegliarci dall’assopimento. Abbiamo la capacità di cambiare, migliorare le nostre vite, molto più di quanto finora abbiamo creduto.

    E così, partendo da qualcosa che mi ha catturato, ho guardato una zolla{3} , quella verso cui andava il mio cuore.

    Qui cercando, là facendo tesoro di quanto man mano scoprivo, ho immaginato…

    PARTE PRIMA

    Come in un tempio

    Bagliori sull’asfalto bagnato, nevischio indeciso nell’aria. Nella sera che avanza la mia città sguazza nel suo solito vorticare, in scala ridotta però… è Natale!

    Sfrigolano nelle vie brandelli di ciò che è stato, come frittelle nell’olio di una fiera al termine.

    Il buio è lontano da noi. Dall’alto siamo il brulicare di luci più scintillante di tutto il pianeta.

    Siamo ricchi, almeno qualcuno. Siamo grandi e forti, mangiamo grosse bistecche e dolci, tanti dolci, davanti a schermi fagocitanti, qualche volta… spesso.

    Siamo americani, io più degli altri.

    Tutte le volte che ascolto l’inno nazionale, c’è qualcosa che sale e scende lungo la mia spina dorsale, sì è proprio un brivido; mi capita anche con Bianco Natal, Ginger Rogers e Fred Astaire che si amano ballando, James Stewart e Doris Day a lottare in Marocco contro i cattivi, e poi con Singing in the rain, Casablanca, È arrivata la felicità.

    Forse vorrò chiudere la giornata con qualcosa del genere; ognuno si accomoda per la notte nel suo piccolo nido, proprio come il più piccolo dei passerotti; ma è per il momento prima del sonno, ora è presto. Ogni cosa a suo tempo!

    A dirlo sembra finto come un film dei peggiori, ma è così: sto camminando tra la folla della grande mela a Manhattan.

    Tra poco prenderò un taxi, è tardi per la metro da sola. Ma non ancora… adesso ho voglia di camminare.

    Abbiamo bisogno di un poco di tutto per stare bene: mangiare e bere discretamente, un rifugio accogliente per il sonno e il riposo, sano movimento per il corpo e la mente, coccole per la riproduzione e non, affetti… tanti, compagnia… tanta, sacri momenti di solitudine, e qualcosa dentro… oltre tutto questo.

    Chiamatelo come volete: mischiotto chimico o anima.

    È un fatto che dal più grande mistico al più semplice di noi, in un angolino nascosto dei nostri cuori, abbiamo bisogno, ma proprio bisogno, di alzare gli occhi alle stelle affidando a loro quella domanda, o sogno o ricordo, di qualcosa che ci accompagna per tutta la vita. E mentre gli occhi vagano tra finti Babbi Natale sulla mia strada, ripenso a questa giornata sotto l’Albero con i miei, a scambiare abbracci e doni, momento che mai vorrei perdere, per scoprire cosa poi? Che il mio Natale è una cipolla con lettura a strati.

    Battezzata con l’acqua benedetta, mentre ad occhi attoniti stavo in braccio alla mia madrina, oggi 25 dicembre, dovrei celebrare con semplicità e amore la nascita di Gesù.

    Ma non è così.

    Americana da poco sbucata nel Duemila, sono ben lontana dalla religione dell’infanzia!

    Ora so, o credo di sapere: Gesù nasce nel giorno in cui il sole riprende la sua risalita nel cielo.

    A mezzogiorno del nostro solstizio invernale è basso all’orizzonte, e pare sostare in quella che è la sua altezza minima per quattro o cinque giorni. Il 25 di ogni dicembre, proprio come un dio che nasce, si leva.

    Proprio come un dio che nasce!

    Egiziani… Babilonesi… Persiani… i loro dei solari nascevano il 25 dicembre. E nel V° secolo Macrobio annotava Il Sole, astro del giorno nel solstizio d’inverno, è come un bambino-dio che nasce e cresce nel suo Oriente..

    Così Natale non è più Natale, oppure lo è anche ma in altro modo. Sì perché, quando arrivi a quella che tu ravvisi come prima – ma sarà poi la prima? – pelle, non riesci più a dire, e a credere, che il 25 dicembre è nato Gesù e basta, almeno non io.

    Teneri e lucidi strati si avvolgono l’uno sull’altro. Natale è dunque la sfera dorata che sfolgora sulla cima dell’abete; è l’odore penetrante degli aghi di pino e il nevischio a battere lieve sul viso; è il vapore che dalle nostre gole esce nell’aria fredda; è la neve bianca che scende e per pochissimo resta nel suo candore, come ogni cosa poi; è il tepore dolce della casa; o quando levi cappello e guanti e intirizzito entri in un bar, con altri a far tardi mentre fuori è freddo; è un ponche a scaldarti mentre di sera, il tuo gatto accanto, fissi le braci del camino.

    Per me il Natale è tutto questo.             

    È celebrare l’inverno, il suo nucleo profondo di tenebre, riscaldarlo con luci e suoni per farci coraggio tra noi, quasi l’oscurità della vita da vincere, da esorcizzare, insieme a chi ci è più caro.

    Prepariamo dunque la festa, aiutiamo questo dio a nascere!

    Grande è il timore che quello stare basso all’orizzonte, per giorni, lo faccia poi sprofondare, e che l’oscurità ci tenga per sempre. Dentro di noi, in fondo in fondo, oltre le certezze del nostro sapere, ci aspettano le paure del passato.

    Il passato! Coloro che ci hanno preceduto ci hanno condotto fin qui per mano.

    borbotto mentre cammino .

    Scegliere giustamente è come camminare in alto su di un filo.

    Il pensiero va a quei piccoli circhi itineranti di un tempo: chi è in alto lassù, con la lunga asta sottile a bilanciare, sceglie passo dopo passo. Massima concentrazione senza alcun cenno di tensione. Lo sguardo va dinanzi a sé, non deve abbassarsi; altrimenti l’equilibrista sbaglia, cade… e muore.

    La morte, come avviene per i riti iniziatici, non è solo fisica ma anche spirituale. Chi non riesce a stare lassù, guarda, partecipa, e si emoziona. Chi sta sul filo, passo dopo passo, sceglie anche per lui.

    Tutto questo, e altro ancora nella mia mente, mi portarono a svoltare qua e là.

    Finché, prima le mie gambe, poi un taxi troppo malandato per la zona, mi condussero sino alla grande entrata del planetario, quello vecchio. Lo preferivo al nuovissimo Rose Center, non avevo voglia di viaggi interstellari virtuali da cinque dollari. Mi bastava la mia mente per scivolare tra una costellazione e l’altra.

    Sempre, prima di entrare, i miei occhi si levavano ad abbracciare tutto l’edificio, reverenti, come dinanzi ad un grande dio pronto a dispensare doni meravigliosi in cambio di purezza ed onestà.

    Il dubbio di noi moderni è che nel tutto vinca il caos. Anch’io annaspo a volte nelle angosce del dubbio, ma infine preferisco credere all’armonia.

    Entrai, e la reverenza mi accompagnò anche allora.

    Le stelle erano lassù. E il regno delle costellazioni zoomorfe, quella stretta fascia attorno a noi con cui avevamo tentato di rendercele amiche, stava là ad abbracciare il nostro piccolissimo mondo.

    Di solito gironzolavo assorta, lasciandomi cullare dall’atmosfera in penombra.

    Buffo… per me, vagare trasognata nell’amato planetario era come, per un credente, fermarsi in preghiera nell’ombra di una chiesa.

    Quella sera mi attirò la voce della guida, una ragazza che mi ricordò la giovane ch’ero stata.

    Il turno di Natale! pensai non tanto amato…. Ma entusiasmo e fervore trasparivano dal tono della voce e dalle guance che s’arrossavano. Mi ritrovai nella scia di chi l’ascoltava.

    Le costellazioni scorrevano su di noi, sino a ritrovarci nell’emisfero australe.

    Le parole fluivano, per me niente di nuovo. Iniziavo a distrarmi nella solita dinamica dei pensieri che arrivano da una parte e dall’altra, quando la voce della giovane, che oltre le teste giungeva sino a me, quella voce nominò gli antichi abitanti delle Ande, il loro osservare le stelle, le costellazioni che allora vedevano, e di come proprio oggi, nel giorno del nostro Natale, cinque secoli prima gli Incas fossero intenti a celebrare la loro festa più importante, il Capac Inti Raymi del solstizio di dicembre.

    E mi venne in mente un altro Natale, non il solo lontano da New York.

    Rannicchiata nel sedile avvolgente, nella solitudine della folla silenziosa, protetta dalla grande volta celeste sul mio capo, socchiusi gli occhi e come allora immaginai.

    Vidi me e noi tutti sulla nostra palla-terra, e sopra di noi… spazio, stelle e pianeti – il livello visibile del nostro mondo – e tutt’attorno ancora rocce.

    È la visione del cosmo di tante civiltà del Sud America. E perché no? pensai come allora.

    Poi, all’improvviso, cominciai ad avvertire un rumore, e subito dopo un sobbalzare che mi faceva sbattere, con movimenti alterni, dal sedile allo schienale di una dura panca di legno.

    Il suono che avvertivo era ritmico, e guidava un movimento del mio corpo che lo era altrettanto.

    Aprii gli occhi. Erano le otto del mattino di un 25 dicembre di più di trent’anni fa.

    Il treno locale, che da San Pedro di Cuzco in quattro ore mi avrebbe portato a Puente Ruinas, rappresentava il passaporto per quella che sarebbe divenuta la passione della mia vita.

    Centododici chilometri in quattro ore. pensavo allora. Tanto erano lo spazio e il tempo che mi separavano da Machu Picchu in Perù.

    Ora vi si può arrivare, non solo con un più comodo treno turistico o con l’autovagon, persino in elicottero.  Ma allora! Era la mia prima volta ed ero emozionatissima.

    Niente avrebbe potuto rendermi più felice di quel trenino giallo rosso che stava per condurmi tra picchi e nubi. Sarei arrivata lassù!

    E mentre tenevo ben stretto il mio pensiero felice, intanto mi guardavo attorno.

    Io e Marion, l’amica del cuore al mio fianco, ci trovavamo in un vagone di seconda classe, strette tra una folla che saliva e scendeva ad ogni fermata, tra capre tenute alla cordicella e polli in gabbia, mentre spezie e foglie di coca fluttuavano nella mia anima.

    Il mio cuore batteva forte, non solo per l’altitudine; dai tremilaquattrocento metri di Cuzco ai duemilaottocento di Machu Picchu, con discese e risalite brusche fino ai quattromiladuecento; il suo tu-tum tu-tum accompagnava lo zigzagare del trenino. Mi pareva d’incoraggiarlo, nel suo arretrare sul binario di scambio a prendere la rincorsa per la rampa successiva, così fino al passo El Arco a nordovest della città. Da là in poi ci sarebbe stata solo discesa fino alla valle dell’Urubamba.

    Alla mia destra, spalla contro spalla, una donna allattava il suo bambino che, nel succhiare, teneva una manina levata e volta un poco all’indietro; e nel muoversi ritmico del treno, ogni volta sfiorava il mio viso.

    In mezzo a dominanti crinali o in bilico su costoni di roccia, verdeggiare e pietre sotto i nostri occhi, frizzante l’aria all’esterno, tiepida all’interno del vagone tra odori e colori.

    Annuvolamenti e squarci d’azzurro, al culmine dell’estate peruviana, mentre giù sotto l’Urubamba snodava le sue rapide nel verde della gola. 

    Arrivammo a Puerte Ruinas tra i colori di un mercato, non ancora a Machu Picchu.

    E allora, noi e pochi altri, dietro al poncho d’una guida improvvisata, percorremmo in quota gli otto chilometri che ancora ci separavano da lassù; tornante dopo tornante… e i novantanove ultimi gradini!

    La vidi finalmente.

    L’enorme indice di Machu Picchu a nord, Huayna Picchu più piccola a sud, e in mezzo si rivelavano nel nostro graduale avanzare i resti di ciò ch’era stato.

    Avevo letto e riletto di Hiram Bingham{4} e di altri… ma avevo vent’anni… e ciò che provai una volta salito l’ultimo gradino non si può descrivere.

    Decisi là sul momento, mentre senza fiato per la salita e per tutto, Marion arrancante dietro di me, arrivavo a vedere oltre l’ultimo gradino.

    Quella sarebbe stata la mia vita!

    Nel silenzio rarefatto di Machu Picchu o altrove.

    Tra resti, sempre resti, di quanto era stato molto molto prima; a fantasticare su vite passate mentre il filo d’erba mi avrebbe ricondotto ogni volta, come prendendomi per mano, a ciò che in quel momento viveva; e sopra di me le costellazioni zoomorfe; e di nuovo indietro, a casa, dove tutto quello che si raccoglieva sarebbe stato soppesato, in silenzio misurato e confrontato con pagine e pagine fruscianti.

    Divenne la mia vita.

    Ricercare nel passato era per forza ricercare anche al mio interno.

    Era un rimando continuo, un pendolo, come il treno che arretrava nell’altro binario a prendere la rincorsa, o la nostra cara vecchia terra oscillante nel fenomeno della precessione{5}. Un’intera oscillazione – andata e ritorno – in poco meno di 26000 anni.

    Immaginai la terra sul suo asse inclinato, e mi lasciai andare all’interno di quell’oscillazione.

    Ero ancora io? Americana di mezz’età, antropologa, archeoastronoma, strana scienziata un poco pazza con venature di misticismo, il pomeriggio di Natale, seduta nel seggiolino avvolgente del mio amato planetario come nella placenta della mia vita? O la giovane ch’ero stata, mentre arrivava oltre il novantanovesimo gradino di Machu Picchu? O la terra stessa nel suo vorticare? O un Inca{6} del passato? O ancora, molto prima, uno sciamano forse… un paqo, dinanzi a quello che voleva dire per lui la precessione?

    E lasciai che accadesse…

    Divenni un paco andino, uno sciamano del passato, del tutto digiuno di scrittura se non per i quipu{7}, ma non per questo privo di straordinarie conoscenze.

    Il paco racconta

    Nella nostra lingua ci chiamano paco{8}, come il maschio del lama, perché come lui viviamo in campagna, accontentandoci di poca acqua e poco cibo.

    E sempre abbiamo raccontato.

    Quelli che verranno dopo collocheranno me e i miei, la mia gente, in un’età che chiamano preistoria, e così ben poco capiranno di quanto arriverà fino a loro.

    Ma noi dobbiamo ugualmente raccontare e far capire.

    Ognuno di noi, quando nasce, deve portare un fardello: dentro c’è quello che è accaduto prima e quello che seguirà. È nel fiume della vita che lo porta; deve guardare indietro e avanti, altrimenti si perderà nel nulla.

    È il sentirsi responsabile del passato e del futuro che gli dà il suo posto nell’armonia del tutto, del pacha.

    Per questo carichiamo un piccolo peso sulle spalle dei bambini, fin da piccoli, per abituarli a portare il fardello della vita. La vita! che non è solo quella di ognuno.

    Così il mito, arrivato a noi e in transito verso le vostre età, è come un piccolo fardello, e non pesa più di tanto perché contiene l’essenziale.

    Da sempre osserviamo le stelle. Quando appaiono, dopo le nubi scurissime e la pioggia, brillano come non mai. Le stelle formano disegni: noi ci vediamo i nostri animali, e poi avvenimenti e persone di un passato molto lontano, che ci è stato raccontato.

    Il nostro mondo, quello dove viviamo e fatichiamo e gioiamo, non l’abbiamo inventato noi; ci è stato dato.

    Di notte, tra le miriadi di stelle e il pulviscolo interstellare del grande fiume celeste{9}  si racconta come.

    L’inizio di tutto noi lo chiamiamo Viracocha.

    Egli apparve nel nostro grande lago Titicaca, e là sulla rupe nera, a Titikalla nell’isola del Sole, creò ogni cosa… tutto quello che serviva: il sole e la luna e le stelle, e la terra con i suoi monti, e laghi e fiumi, e i frutti, e tutto quanto. Ordinò poi ai primi viventi, i nostri antenati, di uscire da grotte e cavità d’alberi e sorgenti; e loro a coppie da là uscirono, dalle paqarinas. E paqarina vuole dire il posto dell’alba, dove tutto ha avuto inizio; da là provengono le tribù andine.

    Tutto questo avvenne tanto tempo fa, voi dite verso il 200 a. C.

    Fu Viracocha che c’insegnò, e noi divenimmo agricoltori.

    Mais e patate fino a quattromila metri d’altezza, lassù nella puna; poi giù giù, oltre gli scoscesi fianchi delle Ande invasi dalla giungla, a milleottocento, ci mettemmo a coltivare coca e frutti; e di nuovo su, oltre i quattromila, divenimmo allevatori di lama e alpaca.

    Il lama maschio si chiama paco come me, lo sciamano, o meglio… sono io che mi chiamo come lui.

    Per quattrocento anni, tutt’attorno al lago Titicaca, sperimentammo.

    Viracocha c’insegnò a terrazzare e a irrigare, ci fece vedere come scavare fossati dove le acque del lago potevano defluire e non gelare; e là vivevano i pesci che servivano per mangiare e concimare.

    Ma più importante di tutto, c’insegnò a collaborare.

    Le nostre comunità, gli ayllu, si estendevano in verticale, dall’alto della puna fino alla montana; così ogni vallata aveva i prodotti che servivano, e insieme si svolgeva la vita.

    Poi, così com’era apparso, Viracocha sparì. Alcuni l’hanno veduto camminare e camminare sino a raggiungere la costa. L’oceano non ha interrotto il suo andare, e sin quasi all’orizzonte si è intravisto nella spuma bianca{10} .

    Se ne andò, ma ci aveva insegnato. A nostra volta raccontammo e insegnammo a quelli che vennero dopo.

    A Tiahuanaco, vicino al lago, il suo volto fu inciso nella pietra della Porta del Sole perché nessuno dimenticasse.

    Le tribù si moltiplicarono e ci espandemmo oltre l’altopiano del Titicaca. Ogni tribù aveva un suo luogo sacro – paqarina – e là venerava il suo huaca, l’immagine che rappresentava il primo antenato.

    Il primo antenato teneva il filo con Viracocha, noi tenevamo l’altro capo del filo, con lui e con i nostri morti, e lo tenevamo per passarlo a quelli che sarebbero venuti dopo.

    Sapevamo chi eravamo, e questo ci dava la percezione della reciprocità{11} nel tutto.

    Pacha era il nostro spazio-tempo. Pacha significava vivere e gioire e soffrire, e poi morire. Significava anche avere dietro la storia, tante storie, tante vite… e poi la nostra; e poi di nuovo quelle che sarebbero seguite, in un ordine che esisteva nel nostro sentirci responsabili all’interno di un tutto, che non avremmo mai potuto comprendere.

    Quella era la malinconia che ci prendeva quando sentivamo l’intensità della vita, del pacha, eppure consapevoli di non poter capire. E quando l’uomo sente questo, non può più combattere; abbandona il suo abito guerriero e ne mette un altro.

    C’era un ordine che vegliava su ogni cosa e noi ne facevamo parte.

    Sopra di noi era la fascia delle costellazioni ad indicarci, con il trascorrere regolare delle loro posizioni, le stagioni e gli anni.

    Esistono traiettorie sacre: Viracocha comparve a sudest nel Titicaca e viaggiò, fino a scomparire, in direzione nordovest.

    Così nel cielo appaiono due grandi cerchi, voi li chiamate coluri, e da là passano le stelle che segnano i solstizi del sole.

    Così i nostri villaggi sono divisi in quattro parti da due grandi sentieri che s’incrociano tra i punti cardinali, uno da nordest a sudovest e l’altro da sudest a nordovest, seguendo le albe e i tramonti dei solstizi.

    Il pacha, il nostro spazio-tempo, si allinea a quello sopra di noi.

    L’incrocio solstiziale è come il tetto della nostra capanna; e le due stagioni, l’inverno e l’estate, la secca e la piovosa, si uniscono, come si uniscono gli opposti, l’acqua e il fuoco, l’uomo e la donna.

    Nella grande volta celeste le stelle si guardano da un solstizio all’altro, da una stagione all’altra; l’una si leva e l’altra si corica, ma riappaiono sempre, vegliano su di noi, lavorano insieme in sincronia.

    E così noi.

    Insieme, noi uomini dissodiamo i campi; insieme, prepariamo le case per i giovani sposi; insieme, sugli altopiani raccogliamo gli escrementi dei lama per concimare; insieme, i bambini badano alle greggi; insieme, le donne si dedicano alla filatura e alla tessitura; e al momento della semina, mentre l’uomo affonda la vanga nel terreno, la donna con attenzione vi mette il seme.

    Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza i ponti che uniscono l’esistenza dei vivi a quella invisibile degli dei e degli antenati.

    La via della reciprocità era tracciata sopra il nostro capo nei cieli; su di noi scorreva il grande fiume, Mayu, percorso dagli dei e dalle anime dei morti per raggiungere il mondo dei vivi.

    Mayu ha due rami, visibili ora al solstizio d’estate e ora al solstizio d’inverno, che s’intersecano idealmente e di nuovo dividono il cielo in quattro parti.

    Quattro è il numero della stabilità, dell’ordine, quattro va bene; da qui viene il simbolo della vostra croce.

    Mayu ha meandri ed anse, tra cui si schiudono passaggi di collegamento fra i mondi, differenti per spazio e tempo. Occorre cercare tali passaggi: i ponti – chaca – che dal nostro mondo, quello di mezzo, portano a quello superiore, hanaq pacha{12} , verso il ramo nord del fiume al solstizio di giugno, e a quello inferiore, ukhu pacha, verso sud al solstizio di dicembre, nella zona del cielo in cui si vedono insieme la Volpe, il Lama e la Cruz Calvario{13}.

    All’alba del solstizio di dicembre, mentre il Sole sedeva per quattro giorni nella finestra solstiziale, si schiudeva un passaggio… e i morti potevano tornare alla terra.

    Dall’altra parte della croce solstiziale, il ponte riappariva al tramonto del solstizio di giugno; e allora noi sacerdoti risalivamo il corso del Vilcamayu, a sudest, fino alla sorgente che si trova in cima al monte Vilcacoto{14}.

    E nel cielo di giugno noi sciamani, insieme ai contadini, scrutavamo il cielo a spiare il sorgere eliaco{15}  delle Pleiadi. La loro lucentezza, come da voi, indicava il tempo preciso per la semina, ma altro ancora per noi.

    Ci fu una volta, voi dite nel 650 d. C., in cui noi sciamani osservammo il cielo con più attenzione del solito, e ciò che vedemmo l’abbiamo raccontato.

    A voi comprendere.

    Un lama maschio che pascolava su una collina, divenne all’improvviso triste, piangeva e non mangiava né beveva più; al pastore che gli chiedeva perché, rispose Fa’ attenzione e ricorda quello che ti dico: fra cinque giorni l’Acqua Madre del mare traboccherà e inonderà il mondo.

    Il pastore, che credeva al suo lama, si spaventò molto e decise di fuggire sul monte Vilcacoto insieme alla sua famiglia e al suo lama, portando cibo per cinque giorni, e quando arrivarono in cima dovettero stringersi insieme agli altri animali che erano arrivati là prima di loro.

    Cinque giorni e cinque notti durò il diluvio, poi le acque si ritirarono, e di nuovo poterono scendere.

    Cinque è un numero che inquieta.

    E le acque avevano sfiorato e bagnato la coda della volpe, ed ecco perché da allora fu nera.

    La casa del mondo è in pericolo

    Sono ad occhi chiusi nel mio sedile avvolgente, e ad occhi chiusi resto.

    Solo un leggero battito delle palpebre, sono le mie o quelle del mio amico predecessore, il paco delle Ande?

    Cosa mai aveva visto il paqo-lama? E chi era davvero?

    Di quali fonde acque si parlava? Di quale diluvio?

    Quale mai pachacuti, capovolgimento di spazio-tempo, si stava preparando?

    Per capire, bisogna dimenticare la forza di gravità e osservare

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