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Voci
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E-book167 pagine2 ore

Voci

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Info su questo ebook

Come delicatamente suggerisce il titolo, Voci è un romanzo corale, fatto di tante voci e modi di sentire quello che accade nel mondo, un mondo condiviso e osservato da sguardi diversi. È la storia di vicini di casa e spesso amici, scossi da un evento inaspettato e dagli effetti che questo ha nella vita di ognuno di loro. Ci parla di emozioni, dell’amore più estremo e del dolore che ti scava dentro generando le sensazioni più impensate, della morte e di come la affronta chi resta in vita. Parla anche di passioni e desideri, di un presente incerto e di un futuro che lo è ancora di più. Con questo romanzo, Maria Serena Saragozza ci porta con sé a indagare gli animi umani e lo fa con una chiarezza narrativa travolgente, che non permette al lettore di distrarsi.

Maria Serena Saragozza è nata e cresciuta a Milano, ma la sua terra d’adozione è la Sardegna, terra con la quale ha creato, nel corso degli anni, un forte legame emotivo. Ormai ritiene di appartenere, per affinità tra loro contrastanti, a entrambe queste realtà, che ama in ugual misura.
Ha vissuto un periodo della sua vita a Londra, esperienza importante che l’ha avvicinata al mondo anglosassone e aperto nuovi orizzonti.
Scrivere è sempre stata la sua passione, ispirata dalla figura di suo padre, amante della cultura in generale e della letteratura in particolare. A lui deve la curiosità e quel desiderio di conoscere che, mai soddisfatto, cerca sempre nuove strade.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2023
ISBN9788830677197
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    Anteprima del libro

    Voci - Maria Serena Saragozza

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    VOCI

    Vanno, vengono, ogni tanto si fermano…

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice. Qualunque somiglianza con fatti o persone reali è del tutto casuale.

    A mio padre

    MAX

    Buio. Buio pesto. Devo essere prigioniero di uno di quei sogni sciagurati che non ti permettono neppure di aprire gli occhi: le palpebre rimangono ermeticamente serrate, malgrado indicibili sforzi per scollarle. Non mi succedeva da tempo di provare questa acuta sensazione di sdoppiamento: la spasmodica ricerca di luce e la frustrante negazione; pare proprio che la mia muscolatura oculare si rifiuti cocciutamente di rispondere.

    Buio. Che giorno è oggi? Silenzio totale intorno. Che sia domenica? Tutti ancora riposano nel loro letto, al caldo. Non c’è fretta la domenica.

    Buio. Forse è ancora notte fonda. Eppure mi sento sveglio. Lucidamente sveglio. E leggero! Non percepisco il peso della mia testa sul cuscino e neppure del mio torace. E le gambe? Sono distese o piegate? Un momento, devo riflettere: secondo la fisica, il peso è la forza che il campo gravitazionale esercita sulla nostra massa; quando saliamo sulla bilancia, ciò che leggiamo è il risultato della pressione con cui il nostro corpo comprime una molla, esercitando una forza verso il basso. Ricordo bene questo capitolo del libro; sono ben preparato, casomai domani dovessi essere interrogato! Lunedì, alla seconda ora, c’è fisica.

    Buio nella mente: i pensieri arrivano, tanti, a frotte, ma non riesco a trattenerli. Che sia questo il motivo per cui mi sento così leggero, quasi sospeso? Idea interessante: le preoccupazioni, le ansie, le responsabilità contribuiscono ad appesantirci, forse non solo metaforicamente. Quindi la massa eterea dei nostri pensieri influenza il peso corporeo! Si sa che, quando si è innamorati, spesso si dimagrisce. Dicono sia perché non si ha tempo per mangiare. Ma può trattarsi di una semplice legge fisica: il nostro corpo si alleggerisce perché la felicità dell’amore agisce come uno scudo, tenendo lontani apprensioni, inquietudini, doveri quotidiani, che, diventati inutile zavorra, vengono con assoluta nonchalance buttati a mare. L’amore ci rende di colpo più leggeri, potremmo quasi volare e, come gli uccelli, alzarci in aria senza peso. E io ora galleggio, fluttuo, come un elastico potrei espandermi e dilatarmi, con un semplice passo sarei in grado di raggiungere le cime innevate delle amate montagne. Questa sensazione di leggerezza è inebriante. Ma la mia fissazione per la fisica insiste nella ricerca di un dettaglio che in qualche modo mi sfugge. Sono certo che nella massa che costituisce il nostro corpo abbiano un notevole peso - peso reale e, quindi, fisiologico - lo spirito e le energie che ci muovono. Lo spirito ha un suo peso? O meglio, l’anima ha un suo peso? E non l’avevano forse capito gli antichi Egizi? Quanto doveva pesare l’anima per entrare nell’aldilà? Quanto una piuma! Energia, materia: cosa diceva Einstein? Non ricordo, non riesco a ricordare più niente.

    Buio. Una cerniera tirata da un’estremità all’altra delle palpebre mi nega un benché flebile spiraglio di luce. Assenza di suoni, silenzio ovattato. Che sia nevicato? Certo! Deve essere scesa tanta neve durante la notte. Si spiegherebbe questa strana assenza di qualsiasi rumore.

    Buio profondo e vuoto di ricordi. Anche se… sì, qualcosa di vago si affaccia ai confini della mia memoria e, forzando i suoi margini frastagliati, lentamente si va delineando: è una sensazione di paura, o forse di rabbia; una nube nera si abbassa minacciosa su di me e io serro gli occhi, per attutire il colpo. È come un fronte temporalesco enorme che s’avvicina a velocità supersonica. Ed esplode. Ricordo un boato nella mia testa e un macigno che mi schiaccia il torace.

    Buio. Buio pesto. Nastro adesivo sulle palpebre. Ma non faccio più alcuno sforzo per aprirli. Sento energia pura e trasparente percorrere invisibili canali. È l’energia a conservarsi, non la massa. Lo dirò al prof di fisica, lunedì.

    Buio. Buio pesto. Nessun rumore. Sarà ancora notte, notte fonda…

    Prima parte

    "Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

    Silenziosa luna?

    Sorgi la sera, e vai,

    Contemplando i deserti; indi ti posi.

    Ancor non sei tu paga

    Di riandare i sempiterni calli?"

    G. Leopardi,

    Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

    VIOLA

    -Abuso sessuale- stava ripetendo Orchideo per l’ennesima volta, fissandomi con i suoi occhi spalancati da miope, -ho sentito nettamente queste due parole, mentre ero nell’orto a raccogliere le melanzane-.

    Quella mattina spirava un leggero vento di ponente e, come sempre, le parole salivano clandestine in vettura e si lasciavano trasportare, felici di fare visita, non richiesta, a qualcuna delle case disseminate in quei ventiquattro ettari di campagna. A seconda della direzione da cui proveniva il vento, una volta viaggiavano in un senso, una volta in quello opposto, tanto per non fare discriminazioni, di modo che tutto il vicinato, a turno, potesse essere equamente informato e aggiornato sui fatti altrui.

    Quando soffiava il maestrale, tutti gli abitanti, situati a sud-est rispetto a casa mia, potevano usufruire gratuitamente delle mie lezioni di inglese impartite nel porticato che, tra l’altro, faceva anche da cassa di risonanza, permettendo quindi un ascolto ancora più netto e chiaro.

    D’altra parte, quando si trattava del vento di levante, ero io a dovere subire, a seconda dell’ora, l’assordante scoppiettio della moto da cross del figlio di Tea, le urla dei bambini di Caterina, la litigatina serale dei Fadda o la musica latino americana della figlia di Isabel che teneva il volume così alto che sembrava di essere in discoteca.

    -Sei sicuro? Hai proprio sentito dire abuso sessuale?- chiesi scettica, -chi l’ha detto e rivolto a chi?-

    -Mi sembrava la voce del padre di Jacopo. E mi è parso che gridasse: chiamiamo i carabinieri!- rispose Orchideo. Rigirò la grossa e lucida melanzana nella sua grande mano screpolata dalle dita nodose, soppesandola con uno sguardo da intenditore, sollevò il lungo braccio abbronzato e ispido di peli sbiancati dal sole, fece per deporla nel cesto sopra le altre e poi, come per un improvviso ripensamento, me la porse con noncuranza, guardandomi di sbieco da sotto le palpebre abbassate. Con altrettanta noncuranza la presi, ringraziai asciutta, sapendo che i convenevoli e le moine lo infastidivano.

    -I carabinieri???- e lo dissi con l’enfasi di chi sa che le persone in questione di solito preferivano risolvere tra loro qualsivoglia divergenza, piccola o grande che fosse, senza coinvolgimento dei tutori dell’ordine.

    Ci guardammo perplessi, pensando ciascuno dentro di sé probabilmente la stessa cosa: cosa c’entrava Max con abusi sessuali e carabinieri?

    Max conosceva tutti, era il trait d’union tra i vari abitanti della zona, una sorta di portinaio di campagna, che univa al gusto per il pettegolezzo il sincero desiderio di favorire buoni rapporti di vicinato, creando quasi una grande famiglia, i cui componenti, diversissimi tra loro per cultura, età, etnia, non mostravano un altrettanto vivo e onesto interesse per le relazioni sociali.

    Io stessa non sempre avevo voglia di condividere tempo e pensieri con i miei vicini, anche perché con parecchi di loro sentivo proprio di non avere nulla in comune. Mi sforzavo a volte di essere più socievole; con qualcuno mi veniva semplice, altri cercavo accuratamente di evitarli. Dai Fadda, ad esempio, preferivo girare al largo: il capofamiglia si sentiva il rais del quartiere e come tale si comportava, affrontando a muso duro gli uomini e mostrandosi ironicamente condiscendente verso le donne, soprattutto quelle come me che vivevano sole. E non ero l’unica. Pareva che negli ultimi tempi la nostra zona avesse attirato come una calamita donne sole. C’era l’argentina Isabel, giunta con la figlia da Buenos Aires, dove, a quanto si diceva, aveva lasciato un marito e un mare di debiti. C’era Tea, anche lei in fuga da un marito, in linea d’aria molto più vicino, il quale, approfittando dell’appuntamento settimanale con il figlio, non perdeva occasione per urlarle epiteti irripetibili, per i tanti reali o presunti tradimenti che ancora parevano bruciargli molto. C’era Clara, venezuelana, vedova da pochi mesi, che viveva in un container nell’ultimo ettaro di territorio edificabile, all’ombra di un roccione di granito a forma di dinosauro che pareva incombere con un testone enorme sopra la minuscola casetta di metallo aranciato. E

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