Fuga da Raggiropoli
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Info su questo ebook
Speculare, rispetto a A Scuola di Futuro, Fuga da Raggiropoli vede la stessa protagonista in due momenti di vita molto diversi e in due contesti diametralmente opposti: la scuola del Futuro che guarda dall’alto del suo ‘sesto senso’ agli errori del passato e una scuola calibrata per una società furbocentrica, una scuola per non soccombere, dove trionfa l’intelligenza della prepotenza, dove si insegna al contrario l’ABC dell’inganno e dell’opportunismo.
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Anteprima del libro
Fuga da Raggiropoli - Caterina Peschiera
dell’Editore.
IL POSTO VUOTO
Cecilia aveva la testa piena di bella musica e di brutti pensieri. Sedeva su una poltroncina del pullman accanto al suo zainetto. Aveva sbirciato dietro, davanti e di lato: nessuno, proprio nessuno, si trovava senza compagnia. Lei invece, nella poltrona a fianco, aveva solo quel suo zainetto arancione, muto e immobile. Poteva benissimo sembrare un oggetto appoggiato per occupare il posto di un compagno ma, mentre il paesaggio sfilava vuoto sotto il suo sguardo, quel compagno non sarebbe mai arrivato. Qualche sforzo, un paio di cuffiette e forse le sarebbe passato. Ma quella brutta stretta che sentiva al centro del petto era una nota terribilmente stonata in quell’atmosfera festosa da cui avrebbe dovuto sentirsi circondata: era alla partenza per una settimana verde con la sua scuola, non stava andando al patibolo! Il guaio era che l’atmosfera festosa c’era, eccome: la circondava e da ogni direzione, nelle risate, nell’allegro parlottio, nelle canzoni più o meno sguaiate che le giungevano da ogni lato, ma lei, in quella poltrona solitaria, si sentiva come in un’isola in mezzo al mare. Le pareva di essere coi piedi sulla sabbia a scrutare il gran fermento dei pesci sotto il pelo dell’acqua, eccitati per la magnifica festa sottomarina che avrebbe dovuto tenersi di lì a poco e con la quale non avrebbe mai potuto avere a che fare. Ammesso di non farsi crescere prima o poi un bel paio di branchie.
Chi avrebbe potuto sentirsi a quel modo? Sfogliò con la mente un po’ dei suoi bei libri di fantasy che divorava la sera prima di dormire. Ma la figura che più la consolò alla fine fu Cenerentola, proprio la Cenerentola delle fiabe per bambini, di quando lei era bambina. La Cenerentola disprezzata, denigrata, incompresa con tutta quella sua bellezza sfolgorante apprezzata proprio da nessuno. Forse anche lei, da qualche parte, dentro o fuori, aveva una qualche bellezza. Bellezza invisibile per il momento a tutto un intero pullman. Sorellastre, agghindate per la vacanza, tutte allegre e ridanciane da dar fastidio. Si sentiva esattamente come quando, alla vigilia del ballo al castello, la poverina piangeva, credendo che una cosa così bella non l’avrebbe mai potuta riguardare, lei che era coperta di stracci ed aveva solo il gatto a farle compagnia.
A pensarci bene si sentiva anche messa peggio perché doveva accontentarsi di uno zainetto che nemmeno avrebbe mai fatto le fusa.
Una gran sfigata insomma, così sfigata da dubitare che i suoi compagni non si sbagliassero poi di molto ad accennare a lei con quell’orribile termine. Ci sarebbe mai stata una zucca nel suo futuro, pronta a trasformarsi in carrozza e a portarla verso un castello meraviglioso in un imprecisato regno di felicità?
Certo era che lo zainetto non si sarebbe mai trasformato per l’occasione in cocchiere e la meta, verso la quale stava correndo a cento all’ora su quell’autostrada, mai sarebbe stata un castello nel quale entrare acclamata da tutti, ma un albergotto della Val Pusteria, dove contare i minuti che l’avrebbero separata dalla partenza. Dove, nel frattempo, avrebbe strisciato come un lombrico in una sala da ballo nel terrore di venire calpestato.
In breve: una settimana di sopportazione, d’imbarazzo, di sofferenza da sperare con tutta l’anima di beccarsi un’influenza e farsi recuperare al più presto dai genitori.
Ma perché, si domandava, perché si era fatta convincere dalla mamma che quella era una buona occasione per stringere rapporti migliori? L’unica stretta che in quel momento funzionava era quella attorno al suo collo, tanto si sentiva mancare il respiro dal disagio che la tormentava.
Perché non aveva approfittato di quella sua magnifica scuola praticamente vuota, visto che quasi tutti gli alunni erano migrati in montagna? Perché non era restata a casa sua a leggere le fiabe alla sorellina di quattro anni? Gliele leggeva volentieri perché, in fondo, piacevano anche a lei, la facevano sognare. Per certi versi sapeva di essere ancora molto bambina e il mondo della fantasia se lo teneva ben stretto. Guai a portarglielo via. Alle volte la realtà le pareva troppo arida, la sua immaginazione invece aveva ali grandi e forti per volare ovunque.
«Scusa, le fai un po’ di spazio? Si sente poco bene.»
Artusi, la professoressa d’inglese, stava accompagnando una ragazzina della sua classe in preda ad un certo malessere da autobus, proprio verso il posto occupato dal suo zainetto. Matilde non aveva nessunissima voglia di sedersi accanto a lei, Cecilia glielo lesse chiaro in viso e il suo volto sofferente in quel momento le sembrò dovuto non solo al mal di macchina. E come avrebbe potuto essere diversamente, viste le liti furibonde che c’erano già state tra di loro a proposito di almeno un milione di cose? Purtroppo per entrambe, quello era l’unico posto davanti disponibile e a Matilde non restava altra alternativa che riempire il suo sacchettino per il vomito proprio in compagnia di Cecilia con la quale avrebbe dovuto condividere conati e malumore.
Nel posto sbagliato e con la persona sbagliata. Ma perché diavolo si era messa davanti, si domandò Cecilia, lei che non aveva mai sofferto di mal di macchina? Avrebbe voluto dire all’insegnante che poteva anche spostarsi, ma per guadagnarci cosa poi? Nel caso avesse proposto un cambio di posto, ci sarebbero stati sicuramente altri sguardi seccati ad attenderla, tanto valeva non scomodarsi.
Tutto questo lo pensò in una frazione di secondo.
«Sì sì certo, è libero» disse senza batter ciglio, spostando prontamente il suo zainetto sulle ginocchia. Certo che era libero, occupato da chi se no? Dallo zainetto, poverino? Perché avesse detto una cosa così stupidamente ovvia non lo sapeva neanche lei. Non sapeva dire che cose stupide in quei casi, ma ciò che meno riusciva a perdonarsi era quel mezzo sorriso con il quale era riuscita a tradire il suo reale stato d’animo.
E la sua isola ora era ancora più stretta.
Il viaggio proseguì perché il tempo comunque passa e la fine delle disgrazie arriva sempre. Ma fu atroce.
Venne anche a lei qualcosa di molto simile al mal d’auto, anche se ciò non si era mai verificato in tutta la sua vita. Si era fatta persino dare una pastiglia. Mise i piedi a terra che non stava neanche in piedi, poi l’aria frizzantina della montagna le riempì il petto e riuscì a trascorrere almeno dieci secondi di serenità lanciando uno sguardo veloce alle montagne svettanti nel cielo azzurro.
Fu il tempo esatto che le ci volle per andare dall’autobus all’entrata dell’albergo, dove realizzò con orrore che si sarebbe dovuto decidere lì per lì per le camere.
«Ragazzi, non voglio che s’inizi a litigare per i posti letto. Le camere sono da due, qualcuna da tre, e io ho già sistemato tutto mentre eravamo in autobus. Ho guardato com’eravate seduti e sulla base di questo ho fatto l’elenco. Vi avverto: potete solo ascoltare, prendere le valigie e salire su per quelle scale.»
Artusi, la prof d’inglese, era grandiosa quando decideva che nessuno e per nessuna ragione avrebbe dovuto fiatare e così avvenne. Letto l’elenco, ognuno si avviò verso la sua camera senza batter ciglio.
Probabilmente il sistema aveva accontentato i più che, seduti vicini per propria volontà, ora si trovavano di buon grado a condividere la stessa camera. Ma Cecilia non aveva scelto che il suo zainetto come compagno e Matilde era stata spinta accanto a lei più da vomito che da amicizia. Così, nel momento esatto in cui venne decretato che loro due e solo loro due avrebbero condiviso la numero ventinove, rivide lo stesso sguardo sofferente della compagna quando in autobus si era seduta accanto a lei tutta pallida e ansimante. Ora ansimavano in due ma entrambe cercavano di dissimulare: Matilde guardava i quadri appesi alla parete, Cecilia rovistava senza scopo nello zainetto alla ricerca di un fazzoletto che non le serviva. Aprendo e chiudendo cerniere, Cecilia lanciava fugaci sguardi in direzione di tre delle sue compagne, quelle vicino a cui Matilde si era accomodata all’inizio del viaggio. Sedute negli ultimi quattro posti in fondo all’autobus, avrebbero avuto tutte le buone intenzioni di ridere come matte per l’intero viaggio, magari sparlando di questa o quella ed in quelle conversazioni, poteva starne certa, il posto per lei era assicurato. E un posto d’onore, probabilmente. Poi c’era stato il problema del vomito ed ora, pur soddisfatte della loro sistemazione tutte e tre nella stessa stanza, cercavano con lo sguardo la quarta socia colpita da sciagura.
Ma il verdetto era intoccabile e le due infelici poterono solo salire le scale verso quella camera numero ventinove che le attendeva, certa come la morte, alla fine di un corridoio interminabile quanto il silenzio che le accompagnò.
LA DOCCIA
Matilde aprì la porta: la camera tutta linda e infiocchettata alla tirolese, completa di orsetto sulla cassapanca, avrebbe messo di buon umore chiunque. A parte chi temeva sinceramente di dover passare lì dentro la peggior settimana della propria vita.
Anche i piumini tutti gonfi e ben sprimacciati sarebbero stati in altra situazione una tentazione senza limiti per entrambe. Nessuna ragazza di tredici anni infatti avrebbe rinunciato ad un bel tuffo sul materasso con tanto di rimbalzi, stiracchiatine e rotoloni. Probabilmente era quello che stava accadendo ovunque in quell’albergo preso d’assalto da un’intera scuola media.
Cecilia e Matilde, invece, si erano sedute in totale mutismo sui rispettivi letti a disfare le valigie.
Le loro spalle erano girate in modo perfettamente simmetrico per mai e poi mai rischiare di incrociarsi con lo sguardo. Quanto avrebbe potuto durare quel silenzio? In fondo, senza parlare, si stavano intendendo benissimo: nessuna lite per la scelta del letto, né dell’armadio, né della sedia sulla quale appoggiare i vestiti. Proprio come due grandi amiche a cui basta guardarsi per intendersi. Ma a loro riusciva di fare anche meglio: per intendersi, nemmeno di guardarsi avevano bisogno.
Poi, in quel silenzio