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Pacific Vortex
Pacific Vortex
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E-book357 pagine5 ore

Pacific Vortex

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Cecilia, una ragazzina di terza media, scopre che il suo universo simbolico fatto di situazioni e personaggi immaginari può realizzarsi compiutamente attraverso la parola scritta e ciò la porta a trovare una dimensione nuova e prorompente di se stessa nella realizzazione di un romanzo. La scoperta del proprio talento la condurrà sulle prime ad uno stato di estasi solitaria, un vortice di autogodimento e di alienazione da cui si farà risucchiare fino a creare una distanza incolmabile dalla realtà.
La vicenda personale di Cecilia si interseca con la storia di Scilli, il personaggio uscito dalla sua fantasia e in cui la ragazza si identifica in modo inquietante. Si tratta di una creatura disadattata come lei, un incrocio bizzarro tra una sirena ed un umano. Stupenda o mostruosa, a seconda dei punti di vista.
Torna l’istanza ecologica del primo libro attraverso il romanzo stesso di Cecilia ambientato presso il Pacific Vortex Trash, immenso accumulo di spazzatura in mezzo all’Oceano Pacifico. Trovandosi a contatto con questa curiosa massa che invade il loro mondo, la colonia di Sirene e Tritoni in cui vive l’emarginata Scilli, cede alle lusinghe della novità, che portano i più ad interpretare la nostra spazzatura come progresso.
Torna anche l’istanza morale, proposta nel primo libro e amplificata nel secondo in cui la coerenza etica di Cecilia diventa quasi ossessiva fino a sconfinare in una pericolosa diffidenza anche verso chi non se lo merita.
Nello scritto di Cecilia lo snodarsi della vicenda segue in modo simmetrico l’evolversi di quella della giovane autrice, finchè in entrambi i casi, la via d’uscita consisterà nel cedere all’apertura verso le persone giuste, ragazzi come lei con i quali poter vivere un contatto profondo e soddisfacente, finalmente riuscendo a sperimentare amicizia, fiducia, condivisione e amore.
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2012
ISBN9788866900450
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    Anteprima del libro

    Pacific Vortex - Caterina Peschiera

    dell’Editore.

    1 - Pacific Vortex

    Pacific Trash Vortex è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante (soprattutto plastica) situato nell'Oceano Pacifico. La sua estensione non è nota con precisione: le stime vanno da 700.000 km² fino a più di 15 milioni di km², pari a tre volte la superficie della Penisola Iberica. 

    Cecilia aveva gli occhi grandi come lanterne.

    Sulla schermata di Wikipedia, quell’ammasso gigante di schifezze in mezzo al Pacifico stava assorbendo tutte le sue funzioni mentali. Le sembrava di sentirlo circolare all’interno della sua testa, inesorabilmente in senso orario come le correnti oceaniche che lo avevano generato, mentre si espandeva a dismisura come un gigantesco minestrone di plastica. C’era di tutto: bottiglie, contenitori, flaconi, imballaggi, borse, borsette, anche qualche paperetta per le vasche da bagno.

    «Cecilia, mi fai vedere?»

    Le si era avvicinata quella nuova. Le pareva si chiamasse Laura.

    «Sì, certo, certo» rispose Cecilia, ancora rapita da quelle immagini, ma sufficientemente in sé per capire che quella cosa che le era appena successa aveva qualcosa di assolutamente insolito. Pur con la mente occupata da tonnellate e tonnellate di rifiuti profondi trenta metri dal pelo dell’acqua, non se l’era lasciata sfuggire l’occasione del secolo e aveva risposto come se tutto fosse stato normale. Non lo era invece, non lo era per niente, non lo era da due lunghissimi anni, esattamente da due lunghissimi anni e due giorni. Il terzo anno di sciagura era appena iniziato, infatti, in quella favolosa III D, popolata da un’intera colonia di vampiri. Ventidue: 8 maschi e 14 femmine. Ora erano in 23 per la precisione ma l’ultima arrivata non aveva ancora individuato di che specie fosse.

    Era stato bello sentirsi chiamare, dall’inizio dell’anno non era ancora mai successo. Sembrava che, dopo tutto quello che era accaduto in passato, dopo i pettegolezzi, dopo le liti e dopo le burle, Cecilia non potesse essere, per i suoi compagni, che qualcosa di simile ad un disturbo cronico con il quale rassegnarsi a convivere.

    Sentirsi chiamare. Sentirsi chiamare per nome. Sentirsi chiamare per nome e da una sconosciuta. Forse quel nobile isolamento del quale, con lacrime a fiumi, aveva imparato a sentirsi fiera, poteva essere finalmente infranto e la porta della sua anima, blindata con scrupolosa attenzione, aperta ad una nuova speranza.

    Nel solito posto vuoto, destinato a restare tale, era accaduto il miracolo e la sconosciuta di nome Laura si era seduta sulla sedia a fianco della sua, davanti al suo stesso computer.

    «Perché ti sei spostata?» chiese Cecilia, incuriosita dal fatto che avesse lasciato proprio Matilde per venire da lei.

    «Per forza...» e si interruppe. Cecilia la guardò incuriosita.

    «Li vedi quelli a destra di Matilde?» fece Laura sottovoce «anche quelli a sinistra, veramente» e riprese ancor più sottovoce «naviga, naviga, sai dove sono finiti ‘per caso’? Prova ad indovinare!»

    Cecilia si sentì decisamente a corto di idee e pensò fosse più elegante rispondere con un cauto silenzio.

    Laura continuò: «Guarda, mi danno i nervi, non dovevamo cercare notizie sulla plastica? Sai quelli di che plastica si stanno occupando?» Cecilia continuava a navigare nell’ignoto. «‘Bambolone di plastica’ ma non quelle dei negozi di giocattoli. Mi capisci?»

    Non capiva. Peccato, pensò Cecilia, inaugurare un incontro così promettente con un’espressione idiota come quella che si sentiva addosso. Tutto sommato, però, non provò un grande imbarazzo: erano lontani quei dannati momenti in cui si vergognava terribilmente per qualunque cosa. Aveva capito che sentirsi deficiente ogni tanto non era poi la fine del mondo. Ora si sarebbe sentita deficiente nel vergognarsi.

    «Le bambolone dei sexy-shop! Laggiù vanno a caccia di siti porno, ci sei?» ed aggiunse, sorridendo:«Forse credono di essere rimasti in tema: sempre di plastica si tratta. Io, invece, preferisco navigare un po’ nel tuo mare di rifiuti. Ti dispiace?»

    Uaooh. Che presentazione. Laura le aveva sottoposto nel giro di pochi istanti un curriculum da capogiro: decisa, impegnata, intelligente, ironica. Senza dubbio più informata di lei, almeno su certi temi. Forse non quelli fondamentali, ma utili, se non altro, ad evitare figuracce.

    In altre parole, assunta a tempo indeterminato.

    «Pacific Vortex» pronunciò Laura dinanzi all’immagine di rifiuti a perdita d’occhio galleggianti per l’Oceano Pacifico. «Pensa un po’, proprio a nord delle Hawaii, le isole più belle del mondo, c’è l’isola più brutta, un ammasso grande come mezza Europa.»

    Ma dove stava leggendo? Cecilia quelle cose le sapeva perché le aveva appena viste in un’altra pagina, ma davanti a loro c’era solo un’immagine e nessuna spiegazione. Era informatissima quella ragazza e non solo sui siti porno, grazie al cielo.

    Chissà se viveva i problemi ambientali come lei, come se si sentisse responsabile con le sue azioni dirette, quotidiane, come se il futuro del Pianeta dipendesse dal suo comportamento. In prima fila in una battaglia dagli accenti epocali.

    Tutto quell’eroismo le era già costato in classe parecchie batoste. Meglio evitare le crociate, si era detta da un pezzo ed ora, che era cresciuta, sentiva di aver abbandonato l’ingenuità di quei giovanili ardori, coltivando i suoi principi all’ombra di una preziosa solitudine.

    «Hai provato qui?» propose Laura cliccando su una nuova pagina.

    Lo chiamano Pacific Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell'Oceano Pacifico, ha un diametro di circa 2500 chilometri, è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e per il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove. È come se fosse un'immensa isola nel mezzo dell'Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità del materiale ha raggiunto un tale valore che il peso complessivo di questa ‘isola’ di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate, spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco, da poco tornato da un sopralluogo.

    Questa incredibile e poco conosciuta discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all'esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti ad alta pressione.

    Storicamente i rifiuti di origine biologica erano spontaneamente sottoposti a biodegradazione, mentre in questo luogo si sta accumulando una enorme quantità di plastica e di rottami marini.

    Anziché biodegradare, la plastica si fotodegrada, disintegrandosi in pezzi sempre più piccoli, fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono la cui ulteriore biodegradazione è molto difficile.

    La fotodegradazione della plastica può produrre inquinamento da PCBs. 

    Il galleggiamento di tali particelle che apparentemente assomigliano a zooplancton, inganna le meduse che se ne cibano, causandone l'introduzione nella catena alimentare.

    «Che disastro, pensa un po’ a quei poveri pesci che si trovano nella pancia microscopici pezzettini di plastica» commentò Laura.

    «Le tartarughe invece si mangiano i sacchetti di plastica direttamente» aggiunse Cecilia. E continuò: «Se ci abitassero delle sirene? Ci pensi tu a come potrebbe prendere una cosa del genere un intero popolo di sirene?»

    Le era scappato. Quella sua esplosiva fantasia non sapeva restarsene al suo posto. Mai.

    «Come, scusa?» Laura sembrava non aver capito.

    Murene. Poteva dire murene. Era facile scambiare sirene con murene. E tutto sarebbe tornato al suo posto. Non voleva che quelle sirene piombate all’improvviso rovinassero quell’inatteso miracolo e la dividessero subito da quella ragazza nella quale sperava tanto di trovare un’amica. Troppo impegnative da portarsi appresso come tutto quel suo mondo fantastico con il quale amava condividere gran parte del suo tempo. Ma di bugie non se ne parlava: accettarla doveva voler dire accogliere anche tutte le sue sirene e con le sirene tutto ciò che di fantastico popolava la sua mente.

    «Non ho capito. Hai detto sirene?» ribadì la ragazza.

    «Sì, pensa un po’ se proprio in quella zona fossero vissute da migliaia di anni una popolazione di sirene e tritoni, magari in qualche modo legate proprio a quelle correnti...»

    «... che servivano per una migliore ossigenazione dell’acqua, ideale per il loro particolare sistema respiratorio misto branchie-polmoni. Quelle correnti, ognuna con la propria velocità, creavano autentiche strade che quelle popolazioni percorrevano instancabilmente da migliaia di anni in una città frenetica fatta di pura acqua...»

    «Quelle correnti, ognuna con le proprie caratteristiche di temperatura e salinità, colore e trasparenza, creavano ambienti ai loro occhi diversissimi: condomini, ricchi palazzi, viottoli, parchi e zone ricreative dove un occhio terrestre avrebbe visto solo e nient’altro che acqua...»

    Laura avrebbe continuato imperterrita il suo viaggio in quelle favolose correnti popolate da un antico popolo del mare, quando vide che Cecilia la fissava. Laura sembrò spaventarsi, forse aveva l’impressione di aver corso troppo e tacque. Cecilia si era già pentita amaramente per quello sguardo sbagliato. Sbagliato e nel momento sbagliato. Non sapeva più cosa dire. Era stata proprio lei a riportare Laura alla realtà, proprio lei che non era riuscita a lasciarsi andare in quel gioco meraviglioso. Era passato diverso tempo da quando, con le amichette delle elementari, riusciva a vivere una realtà parallela fatta di lotte tra buoni e cattivi, di magie e poteri usando tutto il suo nutrito esercito di Barbie e affini. Ora l’esercito se ne stava impolverato a guardarla dalla mensoletta della sua camera ma la sua immaginazione continuava a portarla ovunque ed era tutt’altro che impolverata. A differenza del passato, però, le sue avventure le conduceva rigorosamente in solitaria. Chi mai l’avrebbe più seguita nelle sue meravigliose storie ricche di personaggi, ambienti fantastici, amori, dolori e colpi di scena? E così esse si svolgevano principalmente prima di addormentarsi, nel calduccio del suo letto, e spesso anche nel tragitto casa-scuola. Talvolta finiva persino per sbagliare strada.

    Ora però era stata la realtà a vincere anche su di lei con tutto il suo carico di arida normalità. E proprio lei si era ritrovata a guardare Laura come fosse strana. Proprio lei l’aveva fatto, proprio lei che ormai era convinta di essere strana per vocazione.

    Laura si alzò senza dire una parola, approfittando del suono della campanella che indicava il cambio dell’ora e scivolò in silenzio in mezzo al gruppo di tutti gli altri ragazzi che, un po’ chiacchierando e un po’ spintonandosi, usciva dall’aula di informatica.

    Gli unici ad indugiare furono Matilde e compagni, impegnati a contenere un’ilarità gonfia di soddisfazione per quell’avventura così ben riuscita a dispetto di regole e professori. E in barba anche a quella gente strana, come quella nuova, Laura, o quella solita, Cecilia, della quale non valeva nemmeno più la pena di parlare.

    2. Quattro penne per l'ambiente

    A scuola, Cecilia passò i giorni seguenti alla solita maniera. Si era assuefatta da tempo alla propria invisibilità ma non altrettanto riusciva a digerire l’atteggiamento di Laura. La netta impressione era che la stesse deliberatamente evitando. Non si sarebbe potuto dire diversamente infatti di una persona che abbassa gli occhi quando passi o si gira dall’altra parte se per caso si sente osservata. Anche riuscire a non trovarsela mai in bagno a ricreazione era un dettaglio da non sottovalutare, come pure non finire una sola volta per incrociarla quando si trattava di prendere il materiale dagli scaffali. Che tristezza.

    «E adesso, ragazzi, ascoltatemi perché ho una proposta interessantissima da farvi.» Fu così che esordì coraggiosamente, dopo appena una settimana dal suo arrivo, la giovane professoressa Nivato, che avrebbe supplito quella d’italiano per un bel po’ di tempo, visto che la poveretta, durante le vacanze, si era rotta femore e clavicola cadendo da una scala.

    Cecilia guardò quella giovane insegnante con una certa compassione. Di bell’aspetto, con abbigliamento da ragazzina, perché ragazzina lo era per davvero, aveva pochissime probabilità di uscire viva dalla lunga permanenza che le si prospettava in quella classe. La proposta interessantissima, per interessantissima che potesse essere, sapeva bene come sarebbe andata a finire in quella bella classetta.

    «Quattro penne per l’ambiente, un concorso a premi per ragazzi come voi.»

    Ci fu un attimo di attenzione che l’insegnante badò bene a non farsi scappare.

    «Sapete perché si chiama così? Provate ad immaginarlo.»

    Fu subito travolta da uno stuolo di braccia alzate e di risposte caotiche che andavano a parare in diverse direzioni, le più disparate. Venne fuori che penne stava per uccelli e che bisognava salvaguardare quattro tipi d’uccelli o che le penne erano quelle per scrivere e che ognuno avrebbe dovuto realizzare un bel tema con penne di quattro colori. Quell’esercizio di fantasia era riuscito per davvero a catturare l’attenzione dei ragazzi e questo apparve a Cecilia già un successo insperato. Fu contenta di essersi sbagliata: forse non tutto era perduto per quella ragazzetta che giocava a fare l’insegnante. Magari sarebbe riuscita davvero a tirar fuori del buono anche dai suoi compagni.

    Persa ad indagare nel futuro di quell’innocente, Cecilia si accorse che in quel gioco a chi ne sparava di più, lei proprio non c’era. Eppure la fantasia non le mancava. Iniziò a pensarci ma il frutto della sua immaginazione la colse di sorpresa spaventandola per la sua pericolosa veridicità.

    Ricordò la fissa di quella giovane supplente: i lavori di gruppo. Aveva annunciato quella calamità sin dal primo giorno e, fresca di studi ed ansiosa di fare i suoi esperimenti didattici, con tutta probabilità, aveva deciso di passare finalmente all’azione. L’idea che con orrore si materializzò nella mente di Cecilia era che, dietro a quelle maledette quattro penne, dovessero situarsi altrettanti cervelli. Un concorso per gruppi. Per la precisione: gruppi di quattro. Quattro penne da usare poco per scrivere e molto per ficcarsele negli occhi, in senso figurato e non.

    Ah, com’era bella la vecchia lezione d’italiano con la terribile ed anzianotta Candiali, che spiegava e interrogava con note e registro, ognuno da solo, sul suo banchetto. Nessun pericolo di innovazioni strampalate che la mettessero in contatto con quella brutta gente che le stava attorno. Per rapportarsi coi compagni restavano solo quei pochi minuti di ricreazione, che si potevano anche sopportare ma solo perché erano dieci, nei casi più fortunati anche cinque, se la prof non aveva finito l’argomento. Ma c’erano anche le giornate di vera pacchia, quelle in cui, causa comportamento, la ricreazione si saltava del tutto e si andava in bagno rigorosamente uno alla volta. Bei tempi.

    La situazione intanto era degenerata e la giovane professoressa stentava a ritrovare quel silenzio necessario per portare avanti il suo piano pernicioso. Cecilia cominciò a sperare: si sarebbe esasperato chiunque al suo posto.

    Ed invece la sospirata nota di classe non arrivò. Al suo posto la folle proposta avanzò con l’inesorabile tenacia di un carrarmato.

    La furbastra aveva colpito con una mossa inattesa e più di qualcuno iniziò a drizzar bene le orecchie: era entrata nello specifico a parlare di premi. Nessuno sapeva cosa avrebbe dovuto fare, il contenuto, il modo, eppure il premio, quello sarebbe stato il primo punto da trattare per poter ottenere un po’ di attenzione. Era una dritta quella ragazzetta vestita da prof. Sta a vedere che sul serio avrebbe dovuto condividere banco e foglio con tre di quei suoi bravi compagni. Chi? Un esercizio di fantasia, quello, che non le piacque per niente.

    «E partiamo allora dalla fine e cioè dal premio: una vacanza-natura a Lampedusa con il WWF per il gruppo dei quattro giovanissimi scrittori più meritevoli. Che ve ne pare?»

    Cecilia fu sul punto di svenire. La sua ipotesi era dannatamente giusta. E dopo il danno si prospettavano anche le beffe, perché, nel malaugurato caso in cui avesse vinto il concorso, avrebbe dovuto essere premiata con un soggiorno ad Alcatraz. Perché, si fosse chiamata Lampedusa, Seychelles o in-capo-al-mondo, sempre di un penitenziario si sarebbe trattato.

    Non era infatti distante né dal tempo né dal cuore la brutta faccenda della settimana verde, nella quale, per un’odiosa burla di quattro compagne, capeggiate da quella iena di Matilde, si era trovata a passare un’intera nottata nel seminterrato dell’albergo e precisamente nella casetta dei Tre Porcellini della stanza-giochi, in attesa di una festa che mai si sarebbe tenuta. Era finita che la professoressa d’inglese, per fortuna, aveva scoperto tutto: a Matilde & C arrivò una bella sospensione mentre Cecilia si dovette accontentare del ludibrio dell’intero Istituto. Non gliel’aveva mai perdonato.

    Catturati i pollastri con la faccenda del premio, la giovane insegnante pensò di cavalcare l’onda di quel suo successo con un discorsetto ben fatto.

    «Io non vi conosco, quindi la cosa migliore è che decidiate voi come formare i gruppi. Prima di iniziare a dividervi, ascoltatemi bene però: il concorso non ha solo il fine di farvi riflettere sui problemi ambientali ma ha un altro scopo ben preciso: quello di stimolare i ragazzi a lavorare in cooperazione. Significa che bisogna imparare non solo a parlare ma anche a farsi capire e per farsi capire bisogna che gli altri abbiano imparato ad ascoltare.»

    Cecilia trovava interessanti quelle parole, in teoria s’intende, ma vide che, mentre si parlava di ascolto, ad ascoltare era solo lei. Lei e Laura, per la precisione, situata al capo opposto della classe. Dei suoi compagni non ce n’era uno che ponesse attenzione a quelle parole tanto accorate. Passati direttamente alla fase pratica, stavano già applicando consolidate strategie cooperative quali: parlottare a voce più o meno alta e fare gran uso delle mani per far segni molto espliciti, del tipo Vieni con me, Vai con loro, e così via, con gran profusione di indici in movimento puntati verso questo o quella e quell’altra no, pure in gola per le sistemazioni meno gettonate.

    Fatto sta che, alla fine del discorsetto, ognuno aveva capito poco o nulla di quella proposta ed al contrario aveva un’idea già abbastanza chiara di come si sarebbe ripartita in gruppi la classe.

    Ma c’era un problema.

    «Ho capito perché vi state agitando» disse la Nivato, stremata e con la gola che urlava rabbia e dolore, in senso metaforico naturalmente, visto che la sua potenza vocale si stava pian piano stabilizzando verso uno stato di semi-afonia. «È evidente che ventitré non è divisibile per quattro. Tranquillizzatevi, faremo cinque gruppi da quattro e uno da tre. Quattro penne è indicativo, serve a richiamare in voi lo spirito di collaborazione, anche il gruppo da tre è ammesso, nel caso di esigenze particolari.» E, frustando le corde vocali, riuscì ad aggiungere nel fracasso oramai incontenibile: «Adesso che ne direste di ascoltare quello che dovete fare?»

    Nessun risultato. Semplicemente perché il problema non era solo matematico. Ce n’era uno di molto più serio e di tutt’altra natura. Tragicamente evidente appariva il pericolo che incombeva su ognuno dei presenti in quella classe: Cecilia. A chi sarebbe capitata la mina vagante?

    Matilde era agitatissima: con il suo gruppetto storico, Fiorenza, Annalisa e Raffaella, aveva malauguratamente avuto un piccolo diverbio poco prima. Aveva fatto l’offesa e si era girata dall’altra parte senza badare a loro per tutta la mattinata, tanto sapeva che, come al solito, non sarebbe durata. Ma ora, in quel gioco ai quattro cantoni, rischiava seriamente di farsi fregare il posto da altri, appostati come falchi.

    Tutto per quella brutta storia della matematica che non voleva il ventitré in nessun caso divisibile per quattro. Per tutti era chiaro infatti che nel resto di tre ci sarebbe stata sicuramente Cecilia e assieme a Cecilia quella nuova che non piaceva a nessuno. Ma per arrivare a tre mancava ancora uno. Uno solo abbandonato al suo misero destino: ecco spiegato il perché di tanto allarme, ecco spiegato perché con una calamità del genere nessuno potesse avere nient’altro in testa che la propria sopravvivenza.

    «Visto che non mi state ad ascoltare, sistemiamo questa storia dei gruppi una volta per tutte. Collocatevi, senza rovesciare la classe, mi raccomando, nei sei punti raccolta che vi indicherò ora.»

    Non fu una buona idea, anzi pessima. Chissà se gliel’avevano insegnata all’università. Fatto sta che si scatenò un putiferio: ognuno correva cercando di mettersi in salvo al riparo di qualcun altro, spostando sedie e urtando banchi al proprio passaggio. Tra urla selvagge e qualche spintone, cadevano gli astucci e venivano calpestati piedi e quaderni. La cosa colse di sorpresa la supplente, lasciandola senza parole, che peraltro nessuno stava udendo da un pezzo.

    Poi, come per miracolo, cadde nell’aula una quiete strana.

    Venti paia di occhi, al sicuro dai loro punti raccolta, osservavano attenti le mosse delle ultime pedine che si muovevano incerte sulla scacchiera.

    Veramente l’unica delle tre pedine a muoversi era Matilde, che si aggirava spaesata come uno spettro inquieto. Guardava ora a destra, ora a sinistra, poi si girava su se stessa colpendo ogni angolo di banco che le passava a tiro. L’avevano mollata le sue fedeli compagne, abbandonata al suo infelice destino. Non ci poteva credere, non si capacitava di come fosse arrivato un simile tiro e proprio da loro. Ad un tratto si sedette e abbassò gli occhi, arresa all’evidenza della propria sciagura.

    Cecilia invece non si era mossa dal proprio banco, tutto a destra in prima fila. Nemmeno Laura da quello più indietro all’estrema sinistra. Al segnale della giovane professoressa erano restate sulle proprie seggiole come se la cosa non le riguardasse.

    Per alcuni istanti rimasero sedute in tre, sotto gli sguardi insistenti dei compagni, poi, insieme, si alzarono e si diressero verso la supplente.

    «Non venite da me, avete il vostro punto raccolta, quello del sesto gruppo. Quello! Ma... mi capite quando parlo?» specificò la Nivato, indicando la zona accanto alla lavagna.

    Farfugliarono ognuna qualcosa ma, quando tutte si accorsero che la loro unanime richiesta era quella di andare in bagno, tacquero simultaneamente. Cecilia fu la prima a dirigersi verso la lavagna. La seguì Laura, Matilde invece chiese ripetutamente, disperatamente, di andare in bagno e la professoressa gliel’accordò senza dire altro, colpita da quegli occhioni azzurri che sembravano un mare di lacrime. Poi proseguì con la sua spiegazione: «Bene ragazzi, ora che abbiamo affrontato con successo lo scoglio più duro, possiamo cominciare a lavorare, che ne dite?»

    I più stavano ancora commentando le sorti di Matilde.

    «Allora vi interessa o no sapere come meritarsi una bella vacanza a Lampedusa?» L’argomento riuscì a riportare sul binario giusto gran parte della classe e, confortata, la Nivato entrò finalmente nel merito.

    «Una storia, scrivere una storia tutta vostra, un romanzo breve costruito da voi con tanto di capitoli. Abbiamo un mese per lavorarci e consegnare il lavoro entro la data di scadenza: il sette novembre.»

    I ragazzi, ancora raccolti a capannelli lungo i lati dell’aula, iniziarono a sedersi chi su una sedia, chi sull’angolo di un banco, scambiando sguardi poco convinti con i vicini. Ma ancora tacevano.

    «Vi si chiede di scrivere ma su un argomento specifico. Come potete indovinare dal titolo del concorso, le penne lavoreranno assieme per l’ambiente. Ambiente: sarà questo il vostro tema. Sia ben chiaro: non una ricerca sui pinguini...» La giovane insegnante aveva creduto con la battutina di guadagnarsi qualche altro mezzo minuto di attenzione e ci restò un po’ male nel vedere che con quelle parole non era riuscita a strappare loro nemmeno il più piccolo sorriso.

    «Volevo dire: non si tratta di mettere assieme delle conoscenze, ma di muovere la fantasia per dar vita, come vi dicevo, ad una storia fantastica o verosimile, ad un’avventura, una fiaba o che ne so anche ad un... thriller...» Concluse la frase un po’ sottovoce, con un lampo di suspense negli occhi. I ragazzi risero. La professoressa allora continuò più rinfrancata. Peccato che il successo non fosse dovuto alla sua breve interpretazione alla Dario Argento ma alla battutina sommessa di Silvio sul pinguino squartatore.

    Cecilia dentro di sé aveva una rivoluzione. Avrebbe voluto gridare tutta la sua gioia per quello che le si stava proponendo di fare. Finalmente scrivere per qualcosa che le interessava davvero, utilizzare la scrittura per dar voce al meraviglioso mondo della propria immaginazione. E per l’ambiente, oltretutto. Sembrava pensato apposta per lei, quel concorso! Avrebbe urlato il suo entusiasmo, baciato la prof, saltato per tutta l’aula dalla contentezza. Ed invece non aveva il coraggio di muovere nemmeno gli occhi. E a paralizzarla non era il disinteresse dilagante nell’aula che avrebbe tagliato gli entusiasmi a chiunque temesse di sentirsi diverso, a quello Cecilia c’era abituata per bene e la veste dell’alieno non le andava più così stretta. Teneva gli occhi bassi perché aveva paura di incontrare quelli di Laura. Di Matilde non le interessava niente, con quelli come lei aveva già vinto la sua battaglia: ora sarebbe riuscita perfettamente a non soffrire per qualunque cosa avesse potuto farle. Se c’era o non c’era o se restava in bagno ancora per un’ora o due giorni, poco le importava.

    Era Laura che temeva, quella Laura che ora le stava finalmente vicina.

    Come lei, in piedi accanto alla lavagna: il loro punto raccolta. La paralizzava l’idea che, alzando lo sguardo, avrebbe potuto incontrare sul suo viso un’espressione anche solo neutra. Il suo più grande desiderio in quel momento era di vedere quegli occhi, di cui non ricordava nemmeno il colore, brillare di gioia come i suoi: il solo pensiero di dar vita assieme a dei personaggi usciti dalla loro immaginazione non poteva lasciarla indifferente. Un pezzo di quella storia viveva già dentro di loro. Ed anche se era una storia lasciata, anzi interrotta, appena agli inizi, c’era, esisteva ed urlava il suo desiderio di farsi raccontare. Possibile che quell’urlo lo sentisse solo lei?

    Cecilia alzò gli occhi, decisa a rompere quel ghiaccio che lei stessa aveva creato e parlò: «Pacific Vortex, ricordi? Noi l’idea ce l’abbiamo già, vero Laura?»

    Laura finalmente incrociò il suo sguardo e non esitò: «Sì, ma parla piano, altrimenti ce la rubano...» le rispose sottovoce, sorridendo.

    «Hai ragione, magari le sirene si arrabbiano...» aggiunse Cecilia, scoprendo tutte le sue carte. Laura rise e più che per la battuta rise perché era contenta, contenta che le sue sirene esistessero anche per Cecilia.

    In quel momento le due ragazze capirono di avere davanti a sé un viaggio meraviglioso da intraprendere assieme: iniziato tra i rifiuti dell’Oceano Pacifico, le avrebbe portate chissà dove. Magari, perché no, proprio verso le coste di Lampedusa. Dovunque fossero arrivate, comunque, l’avrebbero fatto insieme. Primo premio: un’amicizia vera.

    3. Piedi molli

    I ragazzi disposero i banchi in gruppi di quattro come era stato loro comandato e, quando il fracasso di tavoli e sedie si fu attenuato, l’insegnante si rivolse agli alunni: «Ora ascoltate bene come dovrete svolgere il lavoro: prima di tutto avete bisogno di una buona idea che piaccia a tutto il gruppo. Mi rendo conto che questa decisione possa farvi impiegare un bel po’ di tempo. Pazienterò. Trovare il soggetto giusto è molto importante.»

    Cecilia e Laura si guardarono scambiandosi un sorrisetto vittorioso: sapevano di avere un bell’asso nella manica. La buona idea, anzi la buonissima idea, era già nel cassetto e che piacesse a tutto il gruppo, a Matilde in

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