Agata e le scarpette tecnomagiche
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Anteprima del libro
Agata e le scarpette tecnomagiche - Nicoletta Parigini
quaggiù.
1. GENTE DI MARE
Agosto 1989
Il grande orologio della stazione segnava le sedici, quando Lidia Corner passò accanto alla ferrovia, superò il passaggio a livello e imboccò il viale che portava a casa.
Abitava in uno stravagante villino ottocentesco, con pareti tappezzate di cupa edera screziata, alte finestre con i vetri riquadrati e con una graziosa veranda, gravida di luce, addossata alla parete sud. Il tetto, di lavagna nera come la pece, era coronato da snelle torrette e comignoli aguzzi, che sembravano rispondere al vento dell’est con un impercettibile dondolio.
Una fitta e alta siepe (tra cui serpeggiavano tenere roselline selvatiche che a primavera regalavano bracciate di piccole corolle nivee) circondava il giardino, e poiché la casa era piuttosto arretrata rispetto alla strada, i passanti vedevano spuntare dalle fronde soltanto il cigolante galletto segnavento che svettava dalla cima della torretta a ovest, e i pennacchi di fumo lattiginoso che il comignolo a forma di drago (il più alto tra tutti) sputacchiava incessantemente da novembre a marzo.
La casa sorgeva in un tranquillo quartiere, dove la notte c’era un silenzio soprannaturale, e dove la gente, forse troppo presa a potare rampicanti, trapiantare bulbi, tagliare l’erba o fare il bagno al cane, si faceva gli affari propri.
Lidia apprezzava enormemente la discrezione che contraddistingueva i suoi vicini. Si dava il caso infatti, che lei fosse stata fino a pochi anni prima una famosa ballerina classica e, benché ormai poche persone la riconoscessero, sentiva di dover fare vita piuttosto ritirata per sfuggire alle seccature che rendono difficile l’esistenza alle celebrità. Così passava il suo tempo a curare il giardino, mandare avanti la casa, leggere i suoi libri, e badare ad Agata, la sua nipote preferita, una dodicenne alta e tutta ossa, che aveva pagliuzze dorate negli occhi verdi (gli occhi della sua bisnonna), e che si guardava in giro con l’aria di essere sempre un po’ sovrappensiero.
Nonna e nipote vivevano insieme da quando la madre di Agata, Margherita Minelli, aveva cominciato a lavorare nelle ambasciate; da allora la donna girava il mondo senza sosta, e poiché aveva rotto con il padre della bambina prima che lei nascesse, Agata stava dalla nonna. Era impensabile che seguisse Margherita nei suoi vagabondaggi, e anche se sembrava crudele, non c’era stata altra scelta.
Non è che Lidia approvasse troppo le scelte di sua figlia, e le spezzava il cuore assistere agli addii tra la bambina e sua madre quando quest’ultima tornava al lavoro dopo un periodo di vacanza, ma, chiaramente, non poteva rifiutarsi di tenere con sé la piccola, né, d’altra parte, l’avrebbe mai voluto fare.
Certo, ogni tanto Agata le procurava qualche piccolo grattacapo, ma lei tendeva a essere piuttosto indulgente e sorvolava su cose come gli orari di rientro, l’ordine in camera, la dieta vegetariana (pensa nonna, era un vitellino...
uggiolava Agata con occhi imploranti, rifiutando una squisita fettina) e così via.
Del resto Agata aveva sempre dimostrato di essere ben più matura di quanto ci si sarebbe potuto aspettare da una ragazzina della sua età; leggeva moltissimo, teneva un diario e guardava poca tivù.
Le cose sarebbero andate avanti così per molto tempo ancora, pensava Lidia (contava di vivere ancora a lungo, visto che godeva di ottima salute e tutti nella sua famiglia erano stati longevi), almeno fino a quando Agata fosse stata abbastanza grande da andare a vivere da sola. Fino a quel momento, avrebbero continuato ad abitare la vecchia casa di famiglia nella tranquilla Sabbiafine, una piccola città di mare.
Nonostante fosse originaria di Sabbiafine, Lidia Corner non era mai stata in spiaggia: non ne aveva mai avuto il tempo, né la volontà. Da giovane, durante gli anni di studio e poi di attività come ballerina, stava a Milano, e spesso era all’estero. Tornava a Sabbiafine d’estate, solo per godere del fresco del suo giardino e della tranquillità del suo quartiere.
Quando poi aveva sposato Oreste Minelli, un famoso industriale piemontese, le sue visite a casa si erano ridotte perché suo marito trovava la provincia scomoda e banale, e soprattutto, aveva a noia il suocero.
Lidia aveva ricominciato a frequentare assiduamente Sabbiafine dopo la separazione da Oreste (il quale a un certo punto aveva chiuso baracca e burattini, era partito per l’India o giù di lì), e dopo qualche anno, quando si era ritirata dall’attività, era tornata a vivere stabilmente nella casa della sua famiglia.
A quel punto avrebbe potuto frequentare la spiaggia ogni giorno, ma ormai si sentiva troppo vecchia per indossare un costume da bagno. Poteva andarci con una vestaglia addosso, le avevano detto alcune sue conoscenti quando l’avevano invitata ad andare a giocare a bocce con loro, ma in fondo a lei la spiaggia non era mai piaciuta.
Non per questo impediva a sua nipote di andarci, anzi, Agata c’era andata tutti i giorni quell’estate, e la sua pelle, di solito molto pallida, aveva assunto una bella sfumatura ambrata.
Pensava a lei quella sera, mentre guardava una foto fatta a Capri una primavera di tanti anni prima, quando aveva la stessa età di Agata ed era con i suoi da certi loro parenti. I visi sorridenti della sua famiglia, stampati in bianco e nero su un cartoncino un po’ sgualcito, la guardavano da una cornice d’argento, posata su un mobile dell’ingresso.
Provò a calcolare quanti anni fossero passati da allora. Un’intera esistenza. Eppure riusciva a ricordare con precisione certi particolari di quella vacanza; se solo si sforzava un istante, improvvise e lucide reminiscenze investivano i suoi sensi e la stordivano quasi come un’allucinazione: l’odore acre dei mitili aggrappati agli scogli, la risata cristallina di sua madre, il riverbero del sole di mezzodì, affioravano alla sua coscienza portandosi dietro una struggente nota di malinconia.
Le sembrava che soltanto un soffio di vento separasse quella gita, la sua giovinezza, dal presente. Lidia si era ritrovata vecchia all’improvviso. A un certo punto della sua vita (più o meno quando aveva scoperto folti ciuffi canuti accanto alle tempie e profonde increspature sulla fronte, e dal tacco dieci
che aveva sempre portato con disinvoltura, era dovuta passare al sette
), a un certo punto della sua vita dunque, il tempo aveva preso a correre, i mesi erano diventati lunghi come giornate e le stagioni si alternavano serrate, lasciandole appena il tempo di fare il cambio del guardaroba.
E lei era stata costretta ad accelerare il passo, e nel giro di poco aveva smesso di tingersi i capelli (perché ormai erano di un bel bianco uniforme), e aveva scelto definitivamente di portare solo comode calzature con la pianta larga e un accenno di tacco appena.
Un sospiro le scappò dalle labbra. Così è la vita degli uomini, pensò: sono nati per affannarsi e intanto i loro giorni fuggono via. Meglio andare a dormire…
«Signorina Teresa, vuole mettere Notte d'estate, per favore?».
Una ragazza prese il vecchio vinile che le porgeva il giovane dal palco, lo ringraziò graziosamente con il capo e disse qualcosa come Notte d'estate? Subito!"; andò alla sua postazione, e con disinvoltura, mentre posava il disco su un cassone, schiacciò il pulsante del mangiacassette che aveva di fronte facendo ripartire la cassetta con le musiche dello spettacolo registrate tutte in fila.
Una melodia allegra si diffuse nell’aria, e i ragazzi sul palco cominciarono il loro numero acrobatico. Poi le luci si affievolirono, creando il giusto grado di suspense, la musica quasi si spense, riducendosi a un incalzante ritmo di percussioni, e i giocolieri accesero le clavette.
Le lanciavano, scambiandosele e facendo fare loro piroette, voli incrociati, cerchi e tutte le evoluzioni permesse dalla forza di gravità. Nell’aria si disegnavano traiettorie luminose che il pubblico ammaliato cercava di seguire con gli occhi. Centinaia di teste ciondolavano seguendo le torce, migliaia di occhi si sgranavano meravigliati, decine e decine di bocche si socchiudevano in ovazioni accompagnate da applausi nei momenti di maggiore tensione.
Agata, mescolata tra la folla delle prime file, guardava incantata la danza dei fuochi, percepiva la concentrazione dei due giocolieri, coglieva i sussurri e le occhiate che si lanciavano per scandire i tempi del difficile esercizio.
I minuti sembravano dilatarsi e lei scivolò pian piano in una specie di torpore: la musica diventò un sottofondo appena percettibile, l’umida brezza notturna diventò una lieve carezza, la gente le sembrò meno vicina e rumorosa. Il suo sguardo salì dal fuoco delle torce alla fredda luce delle stelle e poi alla luna, con la sua faccia ottusa, sbigottita e, quella sera, color dello champagne. Lontano, grosse nubi grigiastre sembravano riflettere la luce di mille, insonni città.
«Signorina! Ci vuoi aiutare per il prossimo numero?»
«Ehilà! Signorina?»
La voce giunse ovattata alle orecchie di Agata, ma bastò a riportarla alla realtà e in un secondo la musica le sembrò assordante, il vento fastidioso, e la gente incredibilmente numerosa e impaziente.
«Dici a me?» esclamò Agata sentendosi inaspettatamente chiamata in causa.
«Ma certo, proprio tu! Dai su, vieni sul palco e aiutaci per il prossimo numero!».
La voce era quella di uno dei due giocolieri, che piegato verso di lei le tendeva una mano dal palco ormai da quasi mezzo minuto. In verità il giovane cominciava a stancarsi di quella ragazzina tentennante e non riusciva a capire come il suo specialissimo intuito avesse potuto fare cilecca: capiva subito chi voleva salire sul palco e non sbagliava mai. Pensò che forse era la stanchezza, o forse chissà, l’espressione ingannevole della bambina.
Agata voleva scomparire, non era fatta per il palco, lei; e su questo punto era irremovibile.
Cercò affannosamente qualche parola per giustificarsi con il giovane, ma non le veniva in mente niente; si guardò intorno furtiva, sentendosi braccata, perquisita, studiata con piglio indagatore dalla gente.
Su di lei erano fissati sguardi incoraggianti, sguardi curiosi, sguardi stupiti per la sua lentezza di reazione; sguardi che rimbalzavano da lei al giovanotto e viceversa, e che, finalmente, cominciavano a mostrare irritazione. Il giocoliere fece caso soprattutto a questi ultimi e senza troppi rimpianti traslò il braccio come se fosse quello di una gru, ricompose l’espressione del viso facendo risalire gli angoli della bocca in un accattivante sorriso, e si trovò con la mano tesa verso una bambina bionda che accolse prontamente il suo invito.
Agata allora mormorò «Grazie, ma non me la sento», ma anche se l’avesse urlato, nessuno se ne sarebbe accorto, perché il numero era ricominciato e la bambina boccolidoro era disinvolta e a suo agio. La gente non aveva occhi che per quello che si svolgeva sul palco.
Poi, all’improvviso, il botto d’inizio dei fuochi d’artificio fece sussultare la folla, e Agata decise che quello sarebbe stato il segnale di coprifuoco per quella sera. Si fece largo tra la ressa e si diresse verso la sua bicicletta.
Ma era appena montata in sella quando vide sopraggiungere, con una corsetta aggraziata, la sua amica più cara, Cecilia Acquaviva, che la salutò con un gran sorriso.
«Ciao Cecilia! Non sapevo che eri qui... hai visto lo spettacolo?», le rispose Agata, sperando che la sua amica non avesse assistito alla scena che l’aveva coinvolta qualche minuto prima.
«No! Sono arrivata ora, è stato bello?»
«Diciamo di sì», rispose Agata, decisamente sollevata. «Sei sola?», buttò lì tanto per dire, anche perché sapeva che Cecilia non aveva il permesso di uscire la sera da sola.
Cecilia, come risposta, le indicò i suoi genitori che, a qualche metro di distanza da loro, chiacchieravano vivacemente con un gruppetto di conoscenti. Proprio in quel momento, quasi per una sorta di telepatia, la signora Acquaviva si voltò cercando la figlia con lo sguardo, e la scoprì in compagnia dell’amica. La donna fissò Agata per un istante, e poi, come se volesse distogliere gli occhi da una visione spiacevole, chinò brevemente il capo in un frettoloso cenno di saluto e ritornò ai suoi amici.
La mamma di Cecilia era famosa tra i suoi conoscenti per le sue occhiate profondamente significative. Possedeva la rimarchevole capacità di dir tutto con gli occhi, e non certo perché il suo sguardo fosse una finestra sulla sua anima, anzi! Amanda Acquaviva aveva precisa coscienza, e governava senza indugi, ciò che i suoi occhi facevano trapelare.
Quella sera, comunque, guardando Agata, le sue esigenti sopracciglia s’inarcarono perplesse e le sue labbra affilate si strinsero con disappunto sino a ridursi a una sottile linea color corallo. E Agata comprese che alla mamma della sua amica non piaceva la camicia antiquata, con polsini di vaporoso merletto, che indossava quella sera; che trovava inadatto a una bambina il vistoso fiore di seta bianca che tratteneva a stento la sua folta chioma fulva; e che, soprattutto, giudicava indecente che una dodicenne se ne andasse a zonzo la sera, sola soletta.
Agata sostenne lo sguardo della signora Acquaviva con indomito coraggio: in fondo che le importava di ciò che pensava la madre di Cecilia?
In realtà, quando Agata e la signora Acquaviva si incontravano, era la più vecchia delle due a essere colta da vero e profondo turbamento; e ciò non avveniva a causa del bizzarro vestiario di Agata Minelli...
La vista di Agata gettava nello scompiglio l’animo della signora Amanda, perché quella ragazzina assomigliava tremendamente a sua madre, Margherita, la quale in gioventù aveva fatto perdere la testa al signor Acquaviva. Egli fu un corteggiatore talmente infelice, perché non corrisposto dalla sua amata, che una sera di settembre del 1963 – era il giorno del suo ventisettesimo compleanno – aveva tentato di togliersi la vita.
Era davvero un’indecenza, un’assurda bizzarria del destino, pensava Amanda Acquaviva, che una scioccherella come Margherita Minelli fosse stata la causa dell’unica sciaguratezza commessa da un uomo, altrimenti saldo e irreprensibile, come suo marito. Fortuna che erano davvero in pochi a sapere di quello spiacevole incidente, e chi ne era a conoscenza, badava di relegarne il ricordo in qualche stanzetta cieca e ben sprangata della propria memoria.
A dire il vero, Margherita Minelli era sempre stata piuttosto chiacchierata. Appena ebbe quindici-sedici anni, infatti, l’attenzione di tutti, che fino ad allora era stata polarizzata dalla madre (hai sentito? Pare torni a vivere qui… divorzia dal marito!
), si spostò su di lei: viaggiava già all’estero, studiava in un liceo fuori città e ostentava grande libertà e indipendenza di pensiero! E aveva occhi ammalianti e una liscia chioma rosso fuoco…
Così, quella gravidanza prematura vissuta in solitudine, e la nascita di una bambina, figlia di un padre che nessuno del paese aveva mai visto e ora abbandonata
a casa della nonna, suonò come una conferma di tutto ciò che le malelingue avevano supposto e insinuato sino ad allora...
A ogni modo, la signora Acquaviva pensava che Agata stesse meglio con la nonna che con la madre, e tollerava che lei e sua figlia si frequentassero soltanto perché, dopotutto, la vecchia ballerina le sembrava possedere una sufficiente dose di buon senso.
«Domani che fai?» disse Agata svogliatamente.
«Non lo so, ti va se andiamo al Chiosco Bianco in bici?»
«Ci troviamo alle due, davanti a casa tua?» chiese Agata di rimando.
«D’accordo. Ora vado, sai che mia mamma non mi concede più di dieci minuti lontano da lei...»
«Sì, sarà meglio... Ti sta guardando...» suggerì Agata che aveva intercettato lo sguardo inquieto della signora Acquaviva.
Le due amiche si salutarono, Cecilia si voltò e corse via in un fruscio di nastri di seta.
Agata restò lì ancora un attimo e vide la madre di Cecilia ravviarle i capelli e aggiustarle il colletto del grazioso vestito di sangallo.
Pensò a sua madre, che non le aveva mai ravviato colletti di sangallo e, mentre formulava fra sé il proposito di procurarsi un abito con fiocchi e colletti per quando fosse tornata la mamma, venne raggiunta dalle voci del signor Acquaviva e dei suoi amici, rimasti indietro di qualche passo rispetto alle mogli e