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Il desiderio
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E-book320 pagine4 ore

Il desiderio

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Info su questo ebook

Pleasure Series

Una serie da oltre 2 milioni di copie nel mondo
Tradotta in 18 lingue

Ci sono voluti anni prima che Giselle riuscisse finalmente a completare il lungo viaggio che da Orleans la portasse a New Orleans, a chilometri e chilometri di distanza. La splendida campagna francese sulle sponde della Loira, infatti, è il luogo dove i suoi genitori si trovavano al momento della sua nascita prematura, durante alcuni giorni trascorsi nella villa di famiglia. E nel corso della sua infanzia il ricordo di Giselle è vivido di tutti i racconti che i parenti e gli amici facevano di quella “nuova” Orleans in America, così grande e scintillante. L’ha immaginata per anni come la versione abbagliante della pigra cittadina di provincia in cui è nata. Ma è stato solo dopo averla finalmente vista con i suoi occhi che Giselle si è resa conto di quanto New Orleans fosse completamente diversa: una città oscura, piena di segreti e leggende. Il posto perfetto per un’avventura.

Una serie bestseller del Sunday Times 

«Una bellissima e sorprendente scrittura.»
Publishers Weekly

«Il desiderio ha molte più sfumature del grigio.»
Belle de Jour

«Dà seriamente dipendenza.»
Look Magazine
Vina Jackson
È lo pseudonimo di due autori affermati che lavorano insieme. Provenienti da due diversi continenti, le due metà di Vina Jackson condividono l’amore per le atmosfere dark nelle loro storie romantiche ad alto tasso erotico. Parlano in totale quattro diverse lingue, ma ne hanno solo una in comune. Il loro lavoro è un fenomeno internazionale.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2018
ISBN9788822724687
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    Anteprima del libro

    Il desiderio - Vina Jackson

    Capitolo uno

    Spogliata a Londra

    La musica era alta. L’oscurità nella discoteca quasi totale. Aveva la gola secca, ci voleva un altro drink.

    Mentre si dirigeva verso il bancone, si lasciò distrarre dall’intreccio colorato che le luci stroboscopiche disegnavano a intermittenza sul pavimento.

    Un volto familiare. Una mano posata sul fianco di una donna. Una coppia che si baciava.

    Li riconosceva anche nella penombra.

    Olen. E Simone.

    Giselle stava per scoppiare a piangere.

    Corse verso il canale, sul selciato scivoloso e, nel buio assoluto, attraversò con prudenza lo stretto ponte di legno. In lontananza, il rombo del tuono annunciava una tempesta imminente.

    La pioggia cominciò a cadere quando raggiunse l’acciottolato della banchina di sinistra. Era già stata a Camden Market diverse volte ma sempre di giorno, quando il quartiere brulicava di vita e rumore. Di notte era un luogo desolato e inquietante, una di quelle città fantasma che si vedono nei film.

    Il cuore era pesante come un macigno nel petto. Il suo corpo era un’unica fitta di dolore, un peso terribile le gravava sulle spalle, anche se non c’era nulla di puramente fisico in quel malessere. Aveva radici più profonde, come se la sua anima fosse stata lacerata.

    Rallentò per non cadere.

    Avrebbe voluto essere ovunque in quel momento tranne che a Londra. Di nuovo a casa magari, a Parigi. O a Orléans, la città dove era nata e in cui aveva passato l’infanzia. Chissà perché le era tornata in mente, in realtà ne aveva ricordi piuttosto confusi, forse inaffidabili, ma di certo più felici. Oppure, sempre sulle ali della fantasia, sarebbe potuta scappare in America, verso la tanto sognata New Orleans – un luogo che non aveva mai visitato, ma che nella sua fervida immaginazione brulicava di vita e magia nera. Lì avrebbe potuto vivere come uno di quei personaggi nelle storie di vampiri di Anne Rice che amava tanto. Mentre cercava di scacciare quell’illogica e assurda fantasia, si rese conto che era da tanto tempo che non pensava alla città sulle sponde del Mississippi. Come mai proprio ora?

    «Giselle!».

    Si voltò.

    «Possiamo parlare? Ti prego».

    Era Olen.

    Il suo primo istinto fu scappare. E invece aspettò che Olen andasse da lei sulla riva del canale che dolcemente degradava verso Camden High Street, dove con un po’ di fortuna avrebbe preso l’autobus sfuggendo alla tempesta sempre più furiosa. I capelli le si erano già appiccicati al viso e al collo.

    Olen era più scarmigliato che mai. La T-shirt bianca e leggera e i jeans attillati gli fasciavano il corpo alto e robusto, i ricci neri e indomabili erano completamente appiattiti per la pioggia. Non aveva più un briciolo della sua solita sicurezza, e anzi adesso aveva un’aria parecchio patetica.

    La raggiunse.

    «Grazie per avermi aspettato», disse.

    La rabbia le montò improvvisamente nell’animo, e Giselle desiderò con tutto il cuore di punirlo per averla umiliata in pubblico. Non disse una parola, si limitò ad asciugarsi il fiume di acqua e lacrime che le rigava il volto.

    Olen la fissava con occhi da cane bastonato, implorando silenziosamente il suo perdono. Era come se diventasse sempre più piccolo in mezzo all’infuriare della tempesta.

    Quando aveva visto il suo ragazzo baciare la sua amica, Giselle aveva capito una cosa importante.

    Non era innamorata di lui.

    E quella scoperta era stata come una coltellata improvvisa. Non le importava assolutamente nulla di Olen. Per tutto quel tempo, non aveva fatto altro che mentire a se stessa, innamorata soltanto dell’idea di avere un ragazzo. Dell’idea che uno come Olen – bello, diverso – avesse perso la testa per lei. Ah, quant’era stata sciocca!

    «Che cosa posso dire?», chiese Olen.

    «Niente».

    E così la rabbia cominciò lentamente a scemare, lasciando il posto alla pietà. Non verso se stessa, ma verso di lui. Voleva ancora bene a Olen, o almeno così credeva, anche se non lo amava.

    E ora doveva trovare un modo per spiegargli come mai non le importava più di averlo visto baciare un’altra.

    Eppure si sentiva ancora molto scossa. Persa. Confusa. Aveva una relazione con un ragazzo che non amava affatto, e quella consapevolezza la tormentava. Era come se una parte della sua identità fosse svanita. Non era la ragazza che credeva di essere, ma una persona completamente diversa. Una verità con cui adesso doveva fare i conti.

    Probabilmente doveva soltanto girare i tacchi e andarsene, ma non ne aveva la forza.

    Un silenzio imbarazzato scese tra loro. La pioggia cadeva imperterrita, rimasero a guardarsi, senza dire una parola. A quell’ora della notte praticamente non c’era traffico.

    «Mi dispiace», disse Olen, a testa bassa.

    «Fai bene…».

    Ma non le venivano le parole.

    «Possiamo parlarne?», chiese Olen.

    Giselle sventolò rabbiosamente una mano, indicando il cielo in tumulto e alzando le spalle.

    «Non credo sia il momento né il luogo adatto».

    «Dovrà pur esserci un bar da qualche parte, no?».

    Giselle si guardò intorno, scrutando la strada oltre il ponte. La luce arancione di un taxi brillava in lontananza e quasi cedette alla tentazione di chiamarlo, saltare su e filare dritta a casa. Ma sapeva benissimo che non si poteva permettere un taxi. Se avesse sprecato così i suoi soldi, probabilmente si sarebbe ritrovata a mangiare fagioli in scatola e toast per il resto della settimana, fino a quando non le avessero accreditato la rata della sua misera borsa di studio. D’altro canto, però, era già bagnata fradicia e la lunga camminata fino alla metropolitana più vicina avrebbe soltanto peggiorato le cose. Non poteva neanche rischiare di beccarsi l’influenza adesso che mancava solo una settimana agli esami di fine semestre.

    «Andiamo in un posto asciutto», gli disse.

    Frequentavano la stessa scuola di danza. Olen era un anno avanti a lei e si era trasferito definitivamente a Londra, ormai libero dalla pressione degli esami. Lo aveva visto ballare diverse volte e non c’erano dubbi che fosse una delle stelle del gruppo.

    Sinuoso, elegante e sicuro di sé, fluttuava leggero sul pavimento di legno della sala. Quando ballava lui sembrava tutto così semplice. I gesti armoniosi e l’interazione con gli altri ballerini erano naturali, come se non richiedessero alcuno sforzo, alcuna tecnica. E invece per lei… ogni movimento le comportava un’enorme fatica. Se solo Olen avesse avuto la stessa sicurezza anche a letto.

    «Dove?», le chiese.

    «Ovunque, lontano da qui».

    Il taxi nero aveva attraversato High Street e si trovava soltanto a qualche metro di distanza. Olen sollevò il braccio sinistro per chiamarlo. Suo padre dirigeva un’importante ditta di spedizioni in Danimarca e, al contrario di Giselle, poteva permettersi tutti i taxi che voleva. Non aveva neanche fatto domanda per la borsa di studio.

    Il taxi sterzò e si fermò. Si misero a correre, Olen le aprì lo sportello e la lasciò salire per prima. Giselle venne assalita da un’ondata di aria calda e stantia non appena si lasciò cadere sul sedile di pelle. Anche Olen saltò su, chiudendo di scatto la portiera.

    «Dove vi porto, ragazzi?», chiese l’autista.

    L’ultima cosa che Giselle desiderava in quel momento era tornare al suo minuscolo loft a Dalston, promemoria costante di irraggiungibili sogni e ambizioni infrante, con quella perdita nel soffitto che il padrone di casa non si scomodava ad aggiustare e la caldaia talmente inaffidabile che ogni doccia si trasformava in una pericolosa avventura.

    Guardò Olen dritto negli occhi. Stava aspettando che decidesse lei la destinazione.

    «Da te?», gli suggerì. «Però magari ci fermiamo a bere qualcosa prima. Giusto per sbollire un po’…». Sapeva che in quelle circostanze andare da Olen era la cosa più sbagliata, in quella camera che era almeno il triplo della sua, al terzo piano di un palazzo di Kensington di proprietà della scuola. Assolutamente fuori dal budget di Giselle. Non riuscì nemmeno a finire la frase per la rabbia.

    Olen ordinò al tassista di portarli a Notting Hill. Diedero la precedenza a un autobus notturno che avanzava lentamente sotto la pioggia, girarono a destra sotto il ponte della ferrovia. Giselle avrebbe potuto prendere quello stesso bus che adesso si stava dirigendo verso East London. Ma ormai era troppo tardi. Forse era stato un errore. Sentì la mano di Olen che le sfiorava un ginocchio in cerca di perdono o rassicurazione, o magari entrambi, e subito rimpianse di non aver avuto la forza mentale di girare i tacchi e abbandonarlo sotto la pioggia incessante. Inghiottito dalla notte, il taxi si diresse verso sud.

    «In realtà non te ne frega niente, vero?», le chiese con aria afflitta mentre bevevano sui divanetti di pelle rossa dell’Electric Diner.

    Infischiandosene dell’orario e del buonsenso, Giselle aveva ordinato un caffè sperando che la caffeina le schiarisse le idee.

    Aveva aspettato che Olen si sedesse, in modo da potersi accomodare dall’altro lato del tavolo. E ora aveva una vista perfetta del suo labbro superiore sporco di panna e cacao della cioccolata calda che aveva ordinato. Minuscoli marshmallow galleggiavano in superficie. I baffi di latte non le facevano venire voglia di baciarlo come si vedeva spesso nei film. Anzi, Giselle dovette reprimere l’impulso di sporgersi a pulirgli la bocca. Sembrava un ragazzino, e lei non aveva alcuna voglia di fargli da mamma.

    Bevve un sorso di caffè e pensò al modo migliore di rispondere. Era una domanda impossibile. Avrebbe sbagliato comunque.

    Si sistemò i capelli umidi dietro le orecchie, stando ben attenta a non strusciare le maniche della camicetta di seta color crema sul tavolino appiccicoso. Le altre ragazze nel locale erano vestite molto più casual: jeans, minigonne, canottiere fosforescenti e scarpe da ginnastica. E poi avevano i capelli cotonati e un pesante strato di ombretto scuro. Un bel contrasto con il viso pulito di Giselle. Lei non si truccava mai, anche se di certo le sue guance avrebbero avuto bisogno di un po’ di colore, e poi sapeva che le sopracciglia folte e scure le conferivano uno sguardo permanentemente austero e respingente. Aveva i capelli neri – mai fatta una tinta – e, quando non erano bagnati fradici, le incorniciavano il viso in un elegante caschetto con la frangetta che le copriva la fronte.

    Neanche a Notting Hill riusciva a passare inosservata. Spiccava sempre nella folla: era più alta di Olen, anche senza tacchi gli dava un paio di centimetri. E sì che lui non era affatto basso. Si era dovuta sedere a un angolo del divanetto per allungare le gambe sotto il tavolo senza rischiare di toccarlo.

    Con quella camicetta color crema, la gonna nera squadrata e corta – ma non troppo – e un paio di ballerine di vernice, Giselle aveva proprio un’aria… be’, francese. Indossava un paio di calze velate color carne e un reggicalze, e sapeva bene che anche questo era un po’ strano. Quasi tutte le ragazze inglesi della sua età sceglievano spessi collant coprenti e li abbinavano a vestiti coloratissimi, che lei considerava troppo vistosi, e magliette attillate o scollate che mettevano in mostra il décolleté.

    Probabilmente era stato questo ad attirare Olen in un primo momento. Poteva anche sembrare un po’ fredda, ma almeno non se ne andava in giro per locali alle tre del mattino ubriaca e con le tette in bella vista nonostante il maltempo. Giselle sembrava proprio la tipica ragazza da presentare ai genitori. Una volta Olen l’aveva definita di classe.

    Serrò le labbra e decise di dirgli la verità. Glielo doveva. E poi, non le veniva in mente nessuna bugia decente.

    «No», rispose alla fine. «Credo di no».

    Dopo averlo detto ad alta voce sentì il cuore più leggero.

    Olen per poco non si strozzò con la cioccolata. Sputacchiò, poi con il dorso della mano si pulì il naso.

    «Perché, a te importa di me?», chiese Giselle.

    «Certo che mi importa», rispose lui.

    «Be’, stasera non sembrava proprio», ribatté subito Giselle, stizzita. «Quando hai ficcato la lingua in bocca a Simone, intendo».

    «Senti… Mi dispiace. Non so che dire. È successo e basta. Ma non significava nulla. Abbiamo bevuto, e…». Allungò una mano sul tavolo per stringere quella di Giselle. Ma lei si ritrasse alla svelta senza lasciarsi sfiorare.

    «Non avrai mica il coraggio di dare la colpa all’alcol?», lo rimproverò. «Prenditi le tue responsabilità. Mi hai tradito».

    «Be’, così stai esagerando. Non dico che non sia sbagliato, ma era solo un bacio». Aveva messo il broncio come un ragazzino beccato in flagrante che continua a negare l’evidenza. In effetti Olen era poco più che un ragazzino. Non aveva ancora vent’anni, e lei diciannove.

    Rifiutandosi di alzare la voce, Giselle sibilò: «Tu mi hai tradito!».

    A essere sincera era abbastanza d’accordo con Olen. Era francese, dopotutto, e pensava che un bacio fosse solo un bacio. Nel quadro generale delle cose, era una sciocchezza da niente. Ma le piaceva vederlo così in imbarazzo. Sentiva di avere potere su di lui in quel momento. Adesso che l’aveva beccato era come un prigioniero, e lei poteva affibbiargli qualunque punizione volesse. Ah, le piaceva giocare a fare Dio.

    La luce sopra le loro teste cominciò a sfarfallare e a ronzare come una zanzara. Un cameriere venne a sostituirla e se ne andò portando via le tazze vuote.

    Era un ragazzo tarchiato, biondo e con le spalle larghe, un fisico da giocatore di rugby. Si muoveva con una sensualità maldestra ma travolgente, pareva più adatto a spaccarsi la schiena nei campi che a servire il tè. L’esatto opposto di Olen, con la sua grazia raffinata e i capelli scuri.

    Giselle sentì la scia del suo odore, un miscuglio di muschio e sudore. Un vero odore di uomo che le fece stringere involontariamente le cosce. Sentì la fascia di pizzo e la seta del reggicalze che le sfregavano la pelle.

    «Potrai mai perdonarmi?», chiese Olen.

    «Immagino di sì», rispose. «Frequentiamo le stesse lezioni. Non posso fare altrimenti».

    Olen annuì piano. Rilassò leggermente le spalle, sollevato.

    Avevano studiato entrambi danza classica nei rispettivi Paesi di nascita, sentendosi sempre dei pesci fuor d’acqua. Giselle era la più alta della classe, quasi un’amazzone a confronto con le altre ballerine francesi, minute e carine. E Olen era praticamente l’unico danese con i capelli corvini, gli occhi marroni e altezza media di tutta Copenaghen.

    Così erano finiti entrambi nella stessa prestigiosa accademia di danza classica a West London. Giselle, sempre in cerca di nuove avventure, abbagliata dal fascino e dall’eccitazione di un trasferimento all’estero, era giunta a un compromesso con i suoi, che volevano che non si allontanasse troppo e fosse sempre raggiungibile con un solo viaggio in aereo. Olen era un tipo pratico e aveva voluto migliorare l’inglese, in caso gli fosse servito per lavoro una volta giunto al termine della sua carriera da ballerino – sempre che ne avesse avuta una.

    Aveva studiato francese a scuola e aveva abbordato Giselle con il pretesto di esercitarsi a parlare la lingua. Giselle ne era stata lusingata, e poi si sentiva un po’ sola, quindi si era goduta la sua compagnia e le sue attenzioni. Era bello poter parlare di nuovo la sua lingua madre. Inoltre avere un ragazzo le aveva conferito una sorta di ascendente speciale sulle altre compagne. Aveva raggiunto una posizione più solida nella scala sociale, uno status di normalità. Si erano frequentati per diversi mesi.

    E adesso questo.

    Giselle sentiva che la conversazione era giunta alla fine. Cos’altro c’era da dire? Però non potevano rimanere così all’infinito, seduti uno di fronte all’altra, imbarazzati.

    Si schiarì la voce.

    «Tra noi è finita, lo sai, sì? Continueremo a vederci in classe, ma non staremo più insieme». Anche se provava ancora qualcosa per lui, Giselle era troppo orgogliosa per stare con un ragazzo che l’aveva tradita in pubblico. Non aveva alcuna intenzione di lasciarsi prendere in giro.

    Rimase a fissarlo, cercando di capire che cosa l’avesse attratta all’inizio. Ora come ora, non c’era la minima traccia di chimica fra loro. Ma c’era mai stata? Non sapeva neanche che cosa fosse la chimica, ignorava completamente le sensazioni che una donna dovrebbe provare per un uomo e viceversa. Forse era questo il problema. Erano entrambi troppo inesperti.

    «E ora? Cosa facciamo?», le chiese. «Vuoi qualcosa da mangiare? O da bere? O…». Rimase a guardarla con gli occhi pieni di speranza.

    Giselle sospirò. Toccava di nuovo a lei fare la mossa finale, decidere del loro futuro. Era stufa di tirare sempre le redini del loro rapporto, come se lui fosse un cagnolino e lei la padrona.

    «Andiamo a casa tua», rispose, stringendosi nel cardigan.

    Lasciò che Olen pagasse il conto. Solo il cielo sapeva quanto faticasse per tirare avanti, mentre lui era pieno di soldi e insisteva per offrire sempre e comunque.

    Si strinsero sotto la tettoia del locale, cercando di evitare la pioggia mentre aspettavano un taxi. Olen le cinse le spalle con un po’ di timore, ma lei lo lasciò fare. Sapeva benissimo cosa stava per accadere. Sapeva anche che sarebbe stata l’ultima volta. Ormai non le importava più.

    Una memorabile prima volta, una memorabile ultima volta. Forse il loro rapporto si riduceva soltanto a questo. Un inizio e una fine.

    Il taxi arrivò e Olen, da perfetto gentiluomo qual era, le tenne aperta la portiera. Giselle si rilassò sul sedile e pensò alla prima volta che erano stati insieme.

    A Parigi non le era mai capitata l’occasione giusta o, per meglio dire, il ragazzo giusto. C’era sempre un non so ché di troppo ordinario nei tipi che aveva frequentato – amici di famiglia, compagni di scuola o amici di amici. Mai nulla di eccitante. Non che Giselle fosse una persona romantica, ma in cuor suo desiderava che la prima volta fosse con qualcuno di speciale, di indimenticabile. E aveva sempre saputo che sarebbe successo a Londra. I ragazzi lì erano di sicuro molto più eccitanti. Cosmopoliti. Esperti. E quella sera, sarebbe stata la sera giusta.

    Era arrivata tre mesi prima e aveva cominciato la scuola. Gli studenti del suo anno provenivano da ogni parte del mondo, anche se curiosamente Giselle si era ritrovata a essere l’unica francese. C’erano brasiliane dal culo sodo, un paio di mediterranee focose, nordiche che sembravano fatte in serie – avevano zigomi perfetti, erano secche come chiodi e belle da rasentare la perfezione, anche se un tantino distanti e fredde – e, per finire, c’era uno stormo di ragazze dell’Europa dell’Est che se ne stavano sempre appiccicate e non parlavano con nessuno. Gli insegnanti erano esigenti e le lezioni faticose. Tutte le sere Giselle se ne tornava nell’East End e si metteva a letto, con ogni singolo centimetro del corpo che urlava di dolore e la mente completamente offuscata dalla stanchezza. I primi giorni erano stati davvero traumatici: aveva dovuto dimenticare quasi tutto quello che aveva imparato alla scuola di danza di Parigi, che aveva frequentato da quando aveva sette anni. E ben presto era arrivata anche la dura consapevolezza che molti dei suoi compagni di classe avevano decisamente più talento ed erano più portati per il balletto di lei. I loro corpi erano perfetti, le loro evoluzioni erano d’istinto limpide e precise e i loro movimenti leggiadri, mentre lei si sentiva troppo alta e pesante. Sgobbava, senza lamentarsi, solo per mantenersi al loro livello e seguire le continue istruzioni e correzioni dei maestri.

    Dalla finestra Giselle stava guardando gli edifici bianchi sull’altro lato di Lansdowne Road. Con l’inverno alle porte, gli alberi cominciavano a perdere le foglie. La sera stava calando e il cielo si colorava di nero. Anche se in casa faceva caldo, aveva sentito un brivido al pensiero di quello che l’aspettava.

    Olen era in cucina, stava prendendo del vino. La sua camera era enorme, molto più ampia di quella di Giselle. Aveva i soffitti alti, era ammobiliata con gusto e perfettamente ordinata. Le pareti erano tappezzate di vecchie mappe e foto di ballerini leggendari – Fonteyn, Nijinsky e altri di cui Giselle non ricordava il nome – disposte accuratamente in fila. Sulle lenzuola bianche e stirate era sistemato un copriletto beige, che Giselle continuava a guardare nervosamente. Al contrario della sua minuscola brandina a Dalston, che occupava quasi metà della stanza, il letto di Olen era gigantesco, abbastanza grande da ospitare anche più di una coppia.

    «Eccoci qua». Olen era tornato a piedi scalzi, con un passo così leggero che non l’aveva neanche sentito avvicinarsi. Le aveva passato un bicchiere. «Posso farti un caffè, se preferisci…».

    «No, va bene così». Era quasi come se Olen volesse sottolineare che non stava cercando di farla ubriacare.

    Giselle aveva bevuto un sorso. Il vino era ottimo, fruttato e piacevolmente tiepido. Dal sapore sembrava costoso. Non che lei ne sapesse molto di vini, a dispetto delle sue origini francesi.

    Nel corso degli ultimi mesi, la forza d’attrazione tra loro due si era fatta sempre più marcata, si erano ritrovati a gravitare l’uno intorno all’altra a lezione, alle prove e nelle pause.

    Olen era bellissimo. Una bellezza leggermente effeminata, quasi eterea, con quegli occhi di cioccolata e i riccioli scuri che gli ricadevano sulla fronte chiara. Sarebbe stato perfetto nella parte di un elfo o di una creatura dei boschi. Con quelle gambe lunghissime e il passo felpato da gatto, era sorprendente la forza che aveva quando effettuava una presa, come se la partner pesasse poco più di una piuma. Era un tipo tranquillo, flirtare con lui era divertente e aveva un culo favoloso – due spicchi di pesca in perfetto equilibrio sopra le lunghe cosce muscolose. Talvolta, quando lo vedeva fare stretching, a Giselle veniva voglia di inginocchiarsi e mordergli una natica. Olen si era mostrato subito interessato a lei, l’aveva invitata a cena con la scusa di mettere in pratica il francese che aveva imparato alle superiori. Si erano baciati un paio di volte nelle lunghe serate nei locali fumosi di Cromwell Road ed Earls Court, dove gli studenti di tutte le età andavano spesso a concludere la giornata. Una sera Giselle gli aveva permesso di infilarle una mano sotto la camicetta e toccarle il seno. Era stato elettrizzante e audace, di fronte a tanta gente, con tutti gli amici che li incitavano. In un certo senso quasi inevitabile.

    E quella sera, in camera, si era sentita pronta a passare dalla prima alla terza base in un colpo solo. Aveva accettato l’invito a casa sua quel sabato sera. Sarebbero dovuti andare in un locale di Soho ad ascoltare un cantante folk americano sconosciuto. Gli altri compagni di classe li avrebbero raggiunti lì, ma Olen le aveva proposto una tranquilla passeggiata innocente a Portobello Road, e poi una tappa da lui, per cambiarsi. Sapevano entrambi che era solo un pretesto e che non sarebbero più usciti quella sera. In fin dei conti nessuno dei due amava particolarmente la musica folk.

    Giselle sentiva il calore emanato dal suo corpo, così vicino. C’era anche un vago sentore di agrumi nell’aria, forse era il bagnoschiuma o il deodorante di Olen, ma anche qualcosa di più speziato e potente. Una fragranza nascosta ma forte. Forse era l’odore del desiderio. E chissà che odore emanava lei, si era chiesta.

    Olen le aveva sfiorato con le labbra il lobo dell’orecchio, strappandole un brivido.

    Nessuno l’aveva mai toccata lì in quel modo.

    Era stato scioccante e profondamente inebriante al tempo stesso. Completamente diverso dal classico bacio sulle labbra.

    Aveva chiuso gli occhi.

    Sapeva che si trattava solo della calma che precedeva la tempesta, che le sue carezze sarebbero presto diventate più insistenti e che, alla fine, quella sera, avrebbe donato a Olen la sua verginità.

    Capirlo era stato come spalancare una porta: una vibrazione le era partita dallo stomaco e aveva percorso tutto il suo sistema nervoso, il sangue fluiva nelle vene con la potenza di un fiume che ha rotto gli argini.

    Il respiro di Olen a pochi centimetri dalle sue guance accaldate.

    Giselle aveva voltato la testa. Le loro labbra si erano incontrate.

    La lingua di Olen toccava la sua, quell’indescrivibile sapore le inondava la bocca. Umido calore. Piacevole morbidezza. Giselle cercava di elaborare quelle sensazioni, le nuove emozioni che quell’abbraccio privato le scatenava dentro, memorizzando ogni singolo attimo per poterlo riesaminare meglio in un secondo momento. Aveva sentito una mano di Olen che le sbottonava il cardigan di cashmere, l’altra che le tirava giù la zip dei pantaloni. A quanto pareva gli uomini erano capaci di una manualità multi tasking da polpo nel momento del bisogno. Lei se ne stava lì impalata, rigida ma pronta. Non sapeva come muovere le mani, come farle rispondere a quell’assalto, dove spedirle. Sul viso? Sui capelli? Sotto la cintura?

    Olen l’aveva stretta ancora più forte e Giselle aveva sentito il rigonfiamento duro che gli premeva contro i jeans. Sapeva di cosa si trattava, anche se era la prima volta che si trovava di fronte a un’erezione.

    Ancora preso nel vortice di quei baci dolci, con le labbra sigillate alle sue, Olen aveva iniziato a esplorare esitante la pelle nuda sotto i vestiti che in qualche modo era riuscito a scostare. Giselle era arretrata, e arretrata ancora, dirigendosi verso il letto. Olen seguiva i suoi movimenti, un vero e proprio passo a due su un minuscolo palcoscenico. Quando il suo polpaccio aveva

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