L’uomo che camminava per le strade
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Carlo Stresa compiva ventinove anni quel giorno. E il numero gli fece uno strano effetto. Suono sgradito, inconsueto. Si era abituato a dire ventotto, ventotto, ventotto, per trecentosessantacinque giorni in fila e adesso non riusciva a capacitarsi di non poterlo più dire. E per un solo giorno, poi: per le ultime ventiquattr’ore soltanto neutre e grigie come le migliaia d’ore passate da quand’era nato. Fino a martedì, ieri, aveva ventotto anni, e adesso un anno di più, di punto in bianco; ora ne aveva ammucchiato di colpo ventinove; come uno, quel droghiere là, per esempio, sulla piazzetta che domani, fra solo dodici ore e qualche cosa, ne potrebbe anche compiere trenta.
Il droghiere sarebbe andato a dormire verso le undici, come tutte le altre sere: un sonno riposato, di gusto, da persona sana; poi il risveglio, quando per le strade si sente il primo odore del pane. E avrebbe avuto trent’anni.
L'uomo che camminava per le strade, Silvio D'Arzo.
Silvio D'Arzo (pseudonimo di Enzo Comparoni, 1920-1952) è stato uno scrittore italiano. Ha coltivato uno stile di scrittura semplice ed elegante, con un'invenzione sempre vitalistica e influenzato dalla letteratura inglese. Il suo romanzo d'esordio, "All'insegna del Buon Corsiero" (1942), è ambientato in un Settecento di fantasia ed è un esempio di adesione a un ideale iperletterario. Il suo capolavoro, "Casa d'altri" (1953), invece, manifesta la sua naturale vocazione intimistica. D'Arzo ha anche scritto racconti per ragazzi, come "Penny Wirton e sua madre" (1978) e "Il pinguino senza frac" (1983), entrambi pubblicati postumi. Altre opere includono "Maschere, racconti di paese e di città" (1935), "Essi pensano ad altro" (pubblicato postumo nel 1976) e le poesie di "Luci e penombre" (1935).
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L’uomo che camminava per le strade - Silvio D'Arzo
I VENTINOVE ANNI DEL PROFESSOR CARLO STRESA
Carlo Stresa compiva ventinove anni quel giorno. E il numero gli fece uno strano effetto. Suono sgradito, inconsueto. Si era abituato a dire ventotto, ventotto, ventotto, per trecentosessantacinque giorni in fila e adesso non riusciva a capacitarsi di non poterlo più dire. E per un solo giorno, poi: per le ultime ventiquattr’ore soltanto neutre e grigie come le migliaia d’ore passate da quand’era nato. Fino a martedì, ieri, aveva ventotto anni, e adesso un anno di più, di punto in bianco; ora ne aveva ammucchiato di colpo ventinove; come uno, quel droghiere là, per esempio, sulla piazzetta che domani, fra solo dodici ore e qualche cosa, ne potrebbe anche compiere trenta.
Il droghiere sarebbe andato a dormire verso le undici, come tutte le altre sere: un sonno riposato, di gusto, da persona sana; poi il risveglio, quando per le strade si sente il primo odore del pane. E avrebbe avuto trent’anni.
Era quel numero a infastidirlo, a procurargli un malessere anche fisico. Da ventiquattro a venticinque c’è solo un anno di differenza, come fra venticinque e ventisei; ma fra ventinove e trenta c’è un lustro, un secolo, la vita.
Più ci pensava e più s’accorgeva d’esserne convinto. Sul serio; c’era la vita sul serio.
Guardò fuori un momento sulla piazza chiara di sole: c’era un cavallo bianco, quasi azzurrino, come gli occhi dei ciechi, sotto la torre, e così, solo e quieto nel primo pomeriggio, faceva anche un poco pietà.
Nel cielo le tortore sembravano angeli. Ecco: sentiva il tranquillo desiderio d’accarezzarne una, di posare la mano sul collo caldo e trepido e sulle zampette rosa come la lingua dei bambini.
Fra poco, alle due, sarebbe andato al Ginnasio, in Via Maccari, a conoscere tutti i suoi colleghi: ed anche questo gli pesava. Gli pesava e non ne sapeva bene la ragione nemmeno lui. O forse, ancora un po’ vaga, una ragione poteva esserci in fondo: il timore di scorgere in loro sé stesso fra vent’anni. Carlo Stresa che a cinquant’anni fa un’antologia col Cinque Maggio Odio l’allor In Morte di Napoleone Eugenio e comincia la prefazione così: Nell’affidare alle stampe questo volume mi sento in dovere...
: o che parla per mezz’ora sull’etimologia della parola lapsus.
C’è miseria più grande, Signore?
Adesso, sempre respinto agli esami di concorso, s’accorgeva di un’infinità di cose meravigliose e serene: sapeva anche, fra l’altro, che non c’è niente di più bello degli occhi dei bambini quando ridono. Ma agli esami non chiedono queste cose: dicono che non è serio.
Ecco, deciso: il giorno che non si fosse più voltato a guardare un bambino per la strada sarebbe uscita la sua prima antologia. Sentiva una repulsione irremovibile per le antologie: strana ed inspiegabile come il senso di disagio che lo prendeva tutto a parlare con persone che non pronunciavano la erre.
Un tormento.
Le due non dovevano tardare molto a sentire dal rumore che di nuovo incominciava ad animare Piazza dell’Ossario. Sferragliare di biciclette e alzarsi rauchi di saracinesche. Si accostò allo specchio, ancora tutto insonnolito, e si trovò tremendamente inespressivo: come gli occhi dei pesci e le uova sode.
Fuori, per le strade, si sarebbe risvegliato del tutto, a orizzontarsi, a trovar le vie del Ginnasio, a guardare un po’ dappertutto le parche meraviglie della città nuova: il teatro, i giardini, il monumento.
In ogni città c’è un monumento di bronzo con un generale dalla barba ondulata, e la spada rotta nella destra. Un’istituzione o quasi.
Sorrise: forse un