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Costantino Manoblu
Costantino Manoblu
Costantino Manoblu
E-book269 pagine3 ore

Costantino Manoblu

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Info su questo ebook

Manoblu è il terzo episodio delle avventure di Costantino, un quattordicenne apparentemente come tanti, che va a scuola e ha una famiglia ma, diversamente dai suoi coetanei, alle prese con maghi e incantesimi. Per non far scacciare di casa Nube, la cucciola di Mastino Nuvolare che ha adottato, rimarrà invischiato in un pericoloso incantesimo e si dovrà addentrare in un altro Mondo, intrappolato in una carta magica di un mazzo di tarocchi con cui si può cambiare il futuro. Scivolando da un Mondo all’altro, troverà nuovi amici, nuove avventure… e non pochi pericoli!
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2018
ISBN9788866904700
Costantino Manoblu

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    Anteprima del libro

    Costantino Manoblu - Cinzia Morea

    Cinzia Morea

    Costantino Manoblu

    EEE-book

    Cinzia Morea, Costantino Manoblu

    © EEE – Edizioni Esordienti E-book

    Prima edizione e-book

    ISBN 9788866904700

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi

    Collana Ragazzi... e Genitori, n. 14

    I – PRATI D’UN ALTRO MONDO

    Nube correva nell’aria buia e sempre più fredda, ma il gelo non smorzava gli odori che le arrivavano al naso, netti e taglienti come lame.

    Ad ogni balzo incontrava un odore nuovo, effluvi che non aveva mai sentito nel suo mondo di prima e che le facevano pensare che si sarebbe trovata bene in quei luoghi.

    C’era una traccia, pesante sul terreno cedevole e bassa sui cespugli, che profumava di grosso mammifero setoloso, con zoccoli ai piedi. Sembrava irritabile e Nube ne era incuriosita ma anche allarmata: il pelo, suo malgrado, le si era orripilato sulla schiena in un arco bianco. Cambiò strada. Dal fiume assieme all’odore dell’acqua stava arrivando un sentore più interessante, quasi di cane, ma non proprio di cane, o per lo meno di un cane ben strano, che aveva mangiato, quel giorno, un topo e due mele selvatiche.

    L’odore di cane rosso veniva da un buco tra le radici di un albero morto.

    Doveva entrarci? Forse non era l’idea più brillante della sua giovane vita ma… sì, naturalmente!

    Iniziò a scavare sporcandosi di terra il muso e le zampe e infervorandosi man mano che dalla terra smossa si liberava più forte l’olezzo di volpe, fino a che il vento, cambiando, le portò un altro odore, un odore conosciuto: Costantino!

    Avrebbe dovuto tornare da lui, ma… fra un attimo, prima doveva scavare ancora un po’ attorno a quel buco che sapeva di caldo, sicurezza e riposo.

    Non c’era più suolo sotto le scarpe di Costantino, guardando giù ora vedeva solo cielo, che si scuriva velocemente, tanto che presto fu come se quel cielo fosse davvero sentiero, solo che i suoi piedi sciaguattavano nell’acqua, se ne accorse pienamente solo nel momento in cui, nel buio, iniziò a non vedere più niente, dunque aveva camminato solo sull’illusione del cielo… il fiume aveva allagato il sentiero e l’acqua aveva riflesso il tramonto e le nuvole.

    Costantino ne fu quasi deluso, era stato bello credere di camminare nell’empireo, ma dopotutto, anche così, non sapeva dove stava andando e la poca luce residua svaniva velocemente. Costantino si era mosso in un simile buio solo un’altra volta in vita sua, qualche giorno prima, durante la sua gita serale nella Foresta Umbra, ma allora c’era stata la magia a guidarlo; adesso, al passaggio in quest’altro Mondo, tutta la magia sembrava averlo abbandonato e lui si trovava a vagare come cieco su quel sentiero stretto, sconosciuto, invaso da rami di rovo che gli si impigliavano ai vestiti.

    Era molto stanco, ma doveva continuare ad avanzare, e a chiamare Nube. La cucciola aveva un Mondo intero da esplorare, chissà dov’era finita e cosa stava facendo, poteva esserle capitato di tutto, poteva avere bisogno di aiuto e in quel buio Costantino disperava di trovarla.

    Forse, invece che vagare alla cieca, urlando il suo nome nell’aria vuota, avrebbe fatto meglio a fermarsi in un punto, ad aspettare che la sua voce la raggiungesse – sempre che a quel punto non fosse già caduta nel fiume, o finita con la zampa in una tagliola – chissà che razza di Mondo era quello, e che poteva capitare a trovarcisi in mezzo, Nube poteva anche essere prigioniera dei rovi, incalzata da animali feroci… persa!

    Si portò una mano al petto a calmare il battito del cuore: non fosse stato così agitato si sarebbe davvero fermato lì, ad aspettare che Nube arrivasse; come poteva ritrovarlo, se lui si spostava continuamente?

    Ma non ce la fece: appena si fermava la preoccupazione arrivava a mordergli il cuore, ingiungendogli di rialzarsi e di ricominciare a gridare nella notte vuota.

    Non sapeva da quanto tempo stava gridando. Ora non c’era più acqua attorno alle sue caviglie, ma aveva perso anche il sentiero, e si muoveva tra cespugli bassi, inciampando fra pietre e tronchi morti.

    E alla fine cedette, quasi senza rendersene conto si lasciò andare in una conca morbida nella terra friabile, sotto un ciuffo di felci che crescevano a ridosso di un tronco marcito, e si abbandonò alla spossatezza di quella giornata colma di emozioni, dimenticando il freddo e la disperazione.

    Il gelo lo cullò, infido e mellifluo. La terra, le felci e il cielo cercarono di lasciare a Costantino un po’ di calore, ma le sue membra si fecero comunque sempre più rigide e alla fine sprofondò in un sonno da cui non ci sarebbero più state preoccupazioni, né risveglio.

    Nube lo trovò che il freddo finiva di avvolgerlo come il ragno in un bozzolo la sua preda. Si spaventò quando non riuscì a svegliarlo: leccandogli la faccia ne sentiva il respiro sul muso, e questo la rincuorava. Era un respiro debole, però, e odorava di inverno.

    Guaì e lo colpì più volte sul fianco con musate insistenti e gentili, nel tentativo di smuoverlo, poi lo leccò di nuovo in faccia e abbaiò.

    Costantino la sentì: «Nube» mormorò debolmente, aprendo gli occhi «dov’eri andata?»

    Le sue zampate furono l’unica risposta, ed erano piuttosto un pressante invito ad alzarsi.

    «Nube! Meno male sei salva. Vieni Nube, sdraiati accanto a me…» la voce gli venne meno, il braccio, dal dorso di Nube, scivolò lentamente a terra. Costantino richiuse gli occhi.

    Nube uggiolò, lo prese a zampate, abbaiò ancora, ma lui non si mosse. Nube allora si accucciò al suo fianco, nascondendo il muso contro il suo collo.

    Il suo tepore alla fine arrivò a Costantino che si riscosse e la abbracciò affondando le guance gelate nel suo pelo umido. Nube abbaiò incalzante.

    Costantino, a fatica, si drizzò a sedere. Ancora intorpidito. Nube abbaiò di nuovo.

    «Sì, cucciola. Dobbiamo andare» balbettò Costantino. «Accidenti non m’era sembrato facesse così freddo. Da che parte sarà Tre Salti?»

    Lentamente si rimise in piedi e, tremando, si avviò alla sua sinistra. Nube non fu d’accordo: non c’era niente là, nessun odore di caldo e protezione, solo le loro orme impresse nel gelo e, a meno di non raggiungere la tana del cane rosso, che però sarebbe stata piccola per tutti e tre, non sentiva luoghi dove trovar riparo. Invece, dall’altra parte…

    «Nube, dove vai? Sono sicuro di essere arrivato da questa direzione. Sì, insomma… quasi.»

    Nube non si voltò nemmeno. Ferma sul sentiero, fissava la direzione opposta a quella in cui voleva dirigersi Costantino, non aveva altro modo per esprimere quanto sapeva: da quella parte veniva un odore che le sembrava caldo, se pure non particolarmente invitante.

    Fumo di legna: lo sentì anche Costantino dopo pochi passi, e si decise a seguirla. Ci doveva essere una casa, laggiù.

    Sì, là, tra gli ultimi arbusti prima di una radura rischiarata dalla luce fredda della luna, abbracciate da un lato dal fiume, che mandava bagliori d’argento e inghiottite dal buio dall’altro, circondate dalle ombre scure dei solidi rami di un albero gigantesco, Costantino vide le luci di due finestre.

    Non si capiva come potessero starci due finestre lì; Costantino avrebbe compreso meglio soltanto la mattina dopo, quando avrebbe potuto esaminare l’albero alla luce fredda di un’alba grigia: un albero dal tronco irregolare, un faggio forse, o un carpino? – Costantino avrebbe voluto essere più avanti con le sue lezioni di botanica – che poco dopo essere fuoriuscito dal terreno si ramificava in due tronchi robusti che col loro andarsene uno di là e l’altro di qua lasciavano tra loro spazio sufficiente per una casupola, o piuttosto per una capanna quali ricordava di averne viste illustrate, da piccolo, sui libri di fiabe.

    Solo un muro e mezzo erano di pietre, disuguali e sconnesse, sugli altri lati travi di legno traballanti sostituivano le pietre, crollate; anche il tetto era in parte coperto da tegole e in parte da fascine, quasi che il lupo della favola fosse infine riuscito a sfasciare anche la più solida delle case dei porcelli, e avesse catturato il più alacre dei tre, così che gli altri due avessero dovuto ingegnarsi a riparare i danni con le loro scarse capacità.

    Dalle fascine del tetto poi, la mattina dopo, avrebbe visto sbucare una scala che gli avrebbe fatto pensare a quelle usate dai soffianuvole per raggiungere il cielo, una scala che si inoltrava tra i rami contorti, perdendosi tra i merletti da questi disegnati nell’aria che schiariva.

    Quella sera al buio, però, Costantino non poteva vedere nulla di tutto questo, solo due quadrati di luce proiettati dalle finestre sulle foglie secche e su delle impronte nel fango.

    Richiamando Nube al suo fianco, si avvicinò alla porta e bussò.

    Dall’interno vennero vari rumori: un brontolio sommesso, il grattare di una sedia contro il pavimento e uno scalpiccio irregolare, poi la porta si spalancò e un vecchio, alto quanto un giovane frassino, nodoso quanto la trave portante della vecchia stamberga, ma non altrettanto robusto, aguzzò gli occhi sull’inverno buio.

    «Tornatene a casa, chiunque tu sia» intimò con voce raschiante «non avrai consigli fino a domani; nessun consiglio…»

    Poteva anche aver detto cartigli, Costantino non ne era sicuro, e neanche, in quel momento, gli interessava appurarlo.

    «Signore, ci faccia entrare» pregò «ci siamo persi.»

    «Persi? Come sarebbe a dire persi? Il villaggio è ancora dov’è sempre stato, appena oltre il ponte. E se non volevi riattraversare il ponte a quest’ora, dovevi fare a meno di attardarti tanto.»

    «No, no. Io posso anche attraversarlo il ponte. C’è un villaggio al di là, diceva? E ci sarà, secondo lei, là al villaggio, qualcuno disposto a ospitarci me e il mio cane?»

    «Ma chi sei tu?»

    Il vecchio si voltò, afferrò una lanterna e la cacciò sotto il naso di Costantino. La luce illuminò anche il suo volto, dal basso verso l’alto, deformandone la bocca sdentata e le narici cavernose – non era un bel vedere – ma la cosa più inquietante erano gli occhi intenti.

    Il vecchio esaminò Costantino senza addolcire di un cucchiaino la sua espressione, poi ne notò le mani e i suoi occhi si spalancarono. Anche la bocca in verità.

    Perché le mani di Costantino scintillavano di un fioco azzurro argento sotto i raggi della lanterna.

    «Vieni dentro» intimò il vecchio tirando Costantino per un braccio. «Gaia! Togliti dai piedi!» gridò a un’ombra, alta due buone spanne meno di Costantino, che si stagliava incerta dietro la porta. L’ombra si dileguò.

    «Sbrigati a entrare tu» continuò il vecchio «e tieni buono quel cane, che non disturbi Argagade!»

    Argagade doveva essere la donna che, seduta a un angolo del focolare, mischiava e rimischiava un vecchio mazzo di carte unte, per poi disporle in croce sulla pietra del camino.

    «Buona, cucciola» Costantino esortò Nube «vieni qui vicino a me.»

    Nube in realtà sembrava essere più propensa ad andare a caccia dell’ombra, probabilmente sparita su per la scala traballante, ma tornò ubbidiente verso Costantino. Il vecchio intanto aveva serrato velocemente la porta – non tanto velocemente, in realtà, da impedire che un refolo gelato riuscisse a intrufolarsi per venire a festeggiare insieme ai suoi compagni penetrati da ogni spiffero nel muro – e aveva tirato il chiavistello. Quella manovra sembrò a Costantino perfettamente inutile, dato che probabilmente sarebbe bastato prendere a pedate qualsiasi punto delle miserevoli pareti per aprirsi un varco.

    «Mettetevi lì» disse brusco indicando un panchetto su cui stavano ammonticchiate alcune vecchie coperte «avete fame?» e mentre la vecchia continuava a biascicare, così intenta alle sue occupazioni da non accorgersi nemmeno del loro ingresso – di Costantino, di Nube e del gelo – il vecchio servì loro delle ciotole di densa zuppa di cavolo, formaggio e pane.

    Anche nell’atto di porgere loro il cibo non pareva particolarmente cordiale, ma se era disposto ad accoglierli e a sfamarli almeno per quella notte, a Costantino bastava. Avrebbe tollerato le occhiate malevole; e poi, vista dall’interno, la casupola era molto più accogliente di quanto potesse sembrare da fuori. Oltre al camino, addossato all’unica parete di pietra, nel quale bruciava un fuoco grande come un vulcano, c’erano un tavolo grezzo con attorno tre, quattro sgabelli e la panca, una rastrelliera con appese delle pentole annerite, trecce d’aglio e ciuffi di erbe essiccate e, in un angolo, la scala, un po’ scricchiolante, su cui era scomparsa Gaia, e che forse era la stessa che portava fin in cima all’albero, verso il cielo.

    Al caldo anche se forse non al sicuro, Costantino si sentì quasi felice, la zuppa era buona, anche se preferiva non sapere cosa ci fosse dentro; lui e Nube la divorarono in un istante.

    Quando ebbe la pancia piena, Costantino cercò di intavolare una conversazione. Il vecchio non aveva l’aria di voler chiacchierare, in realtà, ma il silenzio, rotto solo dallo scricchiolio delle carte, era un po’ inquietante, e poi Costantino non voleva sembrare ingrato:

    «Grazie» esordì. «Mi chiamo…»

    «Non ringraziarmi. E non lo voglio sapere il tuo nome, so chi sei.»

    «Ma… come?»

    «Lo so e basta, ma non ti aspettare che lo usi quel nome, ragazzo. Non deve essere pronunciato qui. Tanto non ho alcun bisogno di chiamarti.»

    «Beh» disse Costantino sconfortato «sono contento che siate qui. Altrimenti avrei dovuto camminare fino al villaggio, e chissà se l’avrei trovato col buio; magari sarei caduto nel fiume.»

    «Non dire scempiaggini. È una vera fortuna per te che io sia qui. Al villaggio non devono sapere di te, perché credi che ti abbia accolto? Quella è gente sciocca e superstiziosa da cui starai alla larga, se hai un minimo di discernimento.»

    «È lontano questo villaggio?»

    «Mai a sufficienza. Ma è oltre il fiume, quindi la notte è sicura. Domani però dovrai andartene prima che faccia giorno.»

    «Senz’altro» sbadigliò Costantino. «Mi sveglierai tu, quando sarà il momento? Oltre il fiume, hai detto? Ma a valle o a monte? Dovrò risalire il fiume domani, non c’è pericolo che mi vedano?»

    «Resta nei boschi, e su questa riva. Non attraversare il ponte e non ti vedranno.»

    «D’accordo» risbadigliò Costantino, troppo stanco per recepire del tutto quelle raccomandazioni «non mi hai…» sbadigliò ancora «non mi hai detto il tuo nome.»

    «Oh, il mio nome… per te sarò solo il Vecchio.» Quella fu l’ultima cosa che Costantino udì, per quella sera. Un ultimo sbadiglio e il sonno lo abbracciò che il loro ospite parlava ancora. Il suo volto secco e severo fluttuò ancora per un attimo contro lo spazio nero dietro alle palpebre di Costantino, poi il sogno portò Costantino a casa.

    Il risveglio fu duro: era a casa a scherzare con Maurizio che non aveva mai conosciuto Priscilla. Insieme a Michela facevano castelli di carte dentro cui si poteva entrare a raccogliere fiori d’argento, da cui volavano fuori farfalle dalle ali fatte di compiti in classe che bastava leggere una volta, per conoscere ogni cosa in eterno.

    E all’improvviso si ritrovò al freddo, su una panca dura, scosso dalle mani adunche del Vecchio.

    Ma almeno Nube era con lui.

    «Sveglia, sveglia!» sbraitava il Vecchio. «Per ogni pietra del ponte, hai il sonno più pesante del cielo! Muoviti! È l’ora, è l’ora. Ancora poco e giungeranno qui!»

    Costantino non aveva idea di chi dovesse arrivare e perché. Ma forse era meglio non saperlo.

    Si raddrizzò e infilò gli anfibi. Non fece quasi in tempo ad alzarsi dalla panca che si ritrovò fuori dalla capanna, a osservare l’albero che la abbracciava.

    «Muoviti! Vai!» incalzò il Vecchio mettendogli in mano un involto. E non tornare prima del crepuscolo. Il giorno non è sicuro… e per l’amor del ciel… Ehm volevo dire… Sii assennato, ragazzo. Tieni le mani coperte!»

    «Non tornerò. Stai tranquillo» si disse Costantino. «Prima del tramonto avrò ritrovato la strada per Tre Salti. Telefonerò a zio Silvestro…» pensieroso tastò con le dita alcune monete attraverso la stoffa del giubbotto. «Il difficile sarà trovare una cabina… le stanno togliendo quasi tutte.» E poi avrebbe dovuto affrontare i suoi genitori. Sperò che lo zio avesse trovato una scusa convincente per la sua assenza. Altrimenti sarebbero stati guai.

    «O forse sarebbe meglio che con papà ci parlasse Volo» rifletté. Allo zio suo padre non aveva mai prestato molta fede.

    Si inoltrò tra gli alberi dietro alla capanna. Il bosco era ancora invaso dalla notte.

    La poca luce veniva da dietro le sue spalle.

    Si voltò per un attimo, la capanna era una sagoma scura tra due alberi. Intravvide Gaia per un istante. La piccola ombra di una bambina contro la luce che filtrava dalla porta ancora aperta, poi il Vecchio la richiamò dentro in malo modo.

    «Forse dovrei rimanere…» si rimproverò fuggevolmente Costantino. «Mi sa che quella bambina ha bisogno d’aiuto.»

    II – PERSI TRA I MISTERI

    «Rimanere qui? Ma cosa mi metto a pensare? Nube, questa sera dormiremo nel nostro letto. Tu aiutami a trovare la strada.»

    Costantino affrettò il passo, ansioso di tornare a casa. Inciampò e cadde sul terreno gelato. Il debole chiarore che aveva appena iniziato a invadere il cielo non arrivava lì sotto gli alberi.

    Nube corse a leccargli il volto: «Sì, cucciola» la rassicurò Costantino «sto bene. Mi sono solo sbucciato i palmi».

    Si fermò a guardarsi le mani. Il cielo su di esse, sulle prime due dita della sinistra, e su tutto il palmo della destra, scintillava sempre un poco. «Scintillasse di più, almeno servirebbe a vederci qualcosa in questo bosco scuro come una caverna, visto che siamo costretti a uscire che il sole non ha ancora capito di essere sveglio!» si lamentò tra sé Costantino. «E quello squinternato dice che è mattina.»

    Faceva davvero freddo! Per questo, non per altro, Costantino scelse di seguire il consiglio del Vecchio e si infilò i guanti.

    «Come farò con queste mani?» si chiese poi «domani in classe non potrò certo tenere tutto il tempo i guanti, e lì già pensano che io sia strano da quando mi cambiavano colore da soli i capelli…»

    Era stato per un incantesimo lanciato contro di lui da Rosa Scompiglio, una maga vendicativa.

    «Voglio lavarmi via questo colore al più presto. Non appena arriveremo al fiume.»

    Ma ancor prima di arrivare al fiume, il fiume che non era il Ticino – l’alba aveva già rischiarato il cielo sopra di lui, ma ancora non si vedeva che tempo avrebbe portato con sé quella giornata – ne incrociò un affluente vivace e rapido, e immerse le mani nelle sue acque gelide.

    Il cielo su di esse non sbiadì per niente, per quanto sfregasse, anzi, l’acqua sembrava formare strani vortici al suo contatto e colorarsi del piombo delle nuvole foriere di tempesta. Costantino si spaventò e ritrasse le mani.

    «Non è che inchiostro» si disse senza crederci «se pure inchiostro magico del libro del destino» (le mani gli si erano macchiate liberando quel Mondo dalla carta di un mazzo di tarocchi con cui si diceva si potesse cambiare la sorte) «verrà via stasera con un po’ di sapone.»

    Si reinfilò i guanti sulle mani bagnate, non osando agitarle in aria per farle asciugare, temeva infatti di suscitare tormente e uragani. E ricominciò a camminare.

    Gironzolò con Nube per tutta la mattinata.

    «Sapresti trovare la strada di casa se ti slegassi?» le aveva chiesto a un certo punto guardandola meditabondo. Poi aveva deciso di non fidarsi. Gli sarebbe piaciuto liberarla, anche per vederla scorrazzare felice nel bosco, ma Nube seguiva tracce con intenta pazzia, ed Ernesto Lupi, l’educatore cinofilo, gli aveva raccomandato di esercitarsi a

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