Canapa, rame, accordi: come cambiano le reti.
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Anteprima del libro
Canapa, rame, accordi - Bep - Business E Persone
2014.
Introduzione
Bruno Coppola
Una politica giovane per una questione matura
Lo scossone della crisi finanziaria ha riportato alla luce una sottostante debolezza del sistema industriale nostrano, con il riemergere all’attenzione pubblica di fattori quali la scarsa produttività del lavoro, il deficit di innovazione, lo scarso investimento in ricerca e sviluppo, l’eccessiva frammentazione e dipendenza di un sistema industriale atomizzato e con insufficiente capacità di presenza e penetrazione sui mercati globali. Un insieme di concetti che, ancor prima che impietosa analisi dello stato di fatto, sono senso comune. Il riemergere di queste debolezze, certamente vere ma non per questo ben conosciute, ha riportato all’attenzione la sostanziale mancanza o debolezza della politica industriale nel nostro paese e ha creato una forte domanda di politiche a favore del tessuto industriale italiano.
Anche sulla scorta dell’osservazione di politiche che, forti o deboli, comunque nel periodo pregresso c’erano state, si è verificata una convergenza tra politica e forze sociali (essenzialmente associazioni industriali e sindacati) che ha portato allo sviluppo di una serie di iniziative, legislative ed amministrative, tese a favorire la convergenza dell’atomizzato tessuto industriale dentro sistemi di medio calibro. Si tratta della politica delle reti e dei cluster, che si può riconoscere a partire dalla legge 33/2009.
Da allora si è assistito a due fenomeni: la sempre più diffusa attenzione in tutte le azioni amministrative alle reti, per cui esse diventano privilegiate in molte delle concrete politiche di sviluppo; il proliferare di iniziative e modelli di convergenza in una pluralità di configurazioni: filiere, cluster, tecnopoli …
In questi sviluppi si può osservare la sovrapposizione tra il modello aggregativo
e il modello selettivo
. Da una parte si presta attenzione alle forme di raccordo, coordinamento e integrazione tra attori comunque piccoli, dall’altra si presta attenzione e si cercano di valorizzare le specializzazioni esistenti, concetto su cui si concentra la politica, europea questa, detta delle smart specialization.
Attorno a queste direttrici si vanno dipanando diverse iniziative, non semplici da tracciare - sono molte e attivate da diversi attori – e tra le quali è difficile riconoscere un disegno organico e completo nel loro insieme. Né questo deve stupire, perché quella delle reti e dei cluster è essenzialmente una politica molto giovane, che quindi deve ancora svolgere gran parte del suo rotulus
, scoprendo via via possibilità e selezionando buone prassi.
Questa raccolta di scritti si pone dunque l’obiettivo di documentare un fenomeno giovane, del tutto in costruzione, ed evita quindi di avanzare delle conclusioni, che non potrebbero che essere affrettate. Allo stesso tempo non rinuncia a tentare di cogliere dei segnali, a osservare le tendenze in atto pur in un fenomeno giovane. Lo fanno sia attraverso viste di insieme con dati aggregati, come nel caso dei contributi di Angelo Fasulo e Dario Barbieri, o raccontando singole esperienze, più o meno articolate, come fanno Patrizia Faranda, Luigi Bruzzo, Alice Verioli, Patrizia Cinti, Giovanni Moser e ancora Fasulo e Barbieri, ognuno osservando il fenomeno da un diverso punto di vista; o ancora interrogandosi sulla riconoscibilità e usabilità per le reti di alcune categoria di analisi della strategia e dell’organizzazione, come fa Paolo Montobbio, o infine mostrando tematiche forti e filoni che hanno come sbocco naturale l’aggregazione di reti complesse, come fa Bruzzo quando ci parla delle reti logistiche.
Un insieme di scritti che accompagnano un fenomeno in corso, dunque, con l’ambizione di dare forma al modo con cui osservare lo sviluppo delle reti e dei processi aggregativi piuttosto che non quella di valutarli.
Nella lettura delle dinamiche attuali, in presenza di politiche ancora in formazione, occorre però riprendere i tratti salienti di un fenomeno, che è tutt’altro che nuovo e che fin qui è stato endemico
. Anche se la realtà produttiva italiana continua a registrare una stragrande maggioranza di imprese atomizzate, i cui reciproci legami sono essenzialmente commerciali, forme reticolari di impresa esistono da decenni. Da quaranta anni si assiste a una crescita di complessità delle filiere produttive, con processi di specializzazione produttiva che fin qui hanno visto tendenzialmente due percorsi: la decostruzione dell’impresa fordista e la creazione di sinergie territoriali in distretti.
Nel primo caso le singole funzioni tendono a uscire dai confini giuridici ed economici di una impresa madre e a divenire operatori di mercato, con un certo grado di autonomia. Il fenomeno è stato promosso dalle imprese madri: distribuzione del rischio da una parte, promozione della varietà e della flessibilità strategica dall’altra, in risposta alla crescente differenziazione dei mercati e della domanda.
Nel secondo caso i processi sono stati di propagazione e spin-off, segmentazione e differenziazione, all’interno di bacini territoriali di competenze artigiane pregiate e in assenza di grandi imprese traino e di concentrazione di investimenti. Il processo in questo caso è stato di costruzione di intere filiere con vari possibili gradi di specializzazione in contesti territoriali favorevoli.
In qualche misura si può dire che i due processi siano andati a convergenza nel tempo. Abbiamo poi via via assistito a un indebolimento dei confini territoriali dei distretti e alla creazione di filiere miste, con medie imprese leader con funzione di traino, non esclusivo, verso costellazioni di imprese a loro volta differenziate. Sono reti? Sono distretti? Se si osservano queste realtà, si nota come questi concetti si vanno sfumando e integrando. Il saggio di Micelli, Futuro Artigiano¹, ci racconta dell’evoluzione recente di questo tessuto industriale e del ruolo chiave che sono andate assumendo le medie imprese in questo ambito.
Quel che emerge negli ultimi anni non è dunque la novità del fenomeno reti, ma il bisogno profondo di ristrutturazione del modo di fare cooperazione, rete e integrazione che attraversa il sistema industriale; e anche il bisogno profondo di promuovere le qualità esistenti anche oltre la (bassa) capacità autonoma di promozione presente nel sistema industriale disperso. Succede che molte piccole imprese, artigiane e di prodotto
, vanno perdendo alcuni dei loro riferimenti fondamentali e devono quindi, individualmente e collettivamente, ristrutturare il loro mercato di riferimento. Esigenza questa, che in prima battura si manifesta come ricerca di nuovi mercati, su iniziativa guarda caso non solo e non tanto autonoma dell’impresa. Per quasi tutti si tratta di superare la dimensione territoriale del mercato, ma spesso questo coincide con il superare il confine del sistema industriale in cui l’impresa è inserita. Nella ricerca l’imprenditore è costretto ad accorgersi che la sua specializzazione produttiva non è figlia di un mercato globale, ma di un limitato sotto-sistema di partenza e che per competere nel mercato globale non puoi muoverti da solo e con la specializzazione produttiva che hai coniato nel tuo distretto / sistema produttivo. Ciò è assai visibile per la grande quantità di imprese che lavorano b2b con clientela in grande maggioranza nella propria regione.
Succede anche che il tipo di innovazione che si riesce a realizzare nei sistemi distribuiti, o che perlomeno si è riusciti a realizzare fin qui, è innovazione di tipo incrementale e procede per combinazioni: muove una quantità enorme e una gamma molto ampia di competenze e fantasia, ma fatica a competere con i sistemi industriali che concentrano risorse ingenti sui processi innovativi.
La rinnovata attenzione alle reti dunque è certamente un salto rispetto alla situazione precedente, ma con quella situazione si confronta, con la sua storia, le sue tendenze, i sui successi e le sue distorsioni.
In quella storia un tema un eterno e ineludibile c’è: quello della dicotomia tra autonomia e coordinamento, che si può vedere da un gran quantità di prospettive. Non sarà certo una novità la tendenza di molto del nostro tessuto imprenditoriale a garantirsi comunque uno spazio di autonomia, come non sarà una novità la ricerca di benefici comuni parallela alla rivendicazione di quella autonomia.
Le politiche e le tendenze del nuovo fenomeno reti quella dicotomia devono incrociare e a quella offrire una strada di gestione, sapendo che in una dicotomia c’è una sola cosa che non si può fare: ridurre la complessità e prevedere come uscita uno dei due corni del dilemma. Sarebbe la distruzione di una opportunità.
E’ legittimo chiedersi se quella delle reti sia una politica industriale o se sia solo un insieme di provvedimenti che per intanto tracciano un spazio e si mostrano come una presa in carico della difficoltà del tessuto industriale delle PMI. L’opinione di chi scrive è che si tratti di una politica industriale in via di definizione, non ancora compiuta, ma che, a partire da una nuce elementare, si vada evolvendo in una politica compiuta. Essa rappresenta un’evoluzione in corso che si potrà completare cogliendo le esigenze profonde dei sistema industriale, per il quale l’aggregazione è uno strumento intermedio, comunque costoso, per raggiungere scopi di sostenibilità, innovazione, presenza nel mercato globale, efficienza, insomma uno scopo di aumento della competitività, sia specifica che globale. Da questo punto di vista la comparsa sulla scena del tema delle specializzazioni è da salutare come un miglioramento del principio d’uso delle sempre più scarse risorse pubbliche a disposizione.
Valutazioni affrettate
Alcuni osservatori sostengono che la politica delle reti non stia dando i frutti sperati. Può darsi; ma se uno iato c’è tra realtà e aspettative, è probabile che il divario sia da ricondurre soprattutto alle aspettative. Non esistono e non sono mai esistite politiche, e in particolare politiche industriali
, che svolgano il loro ruolo in pochi anni.
Va poi detto che attorno a questo insieme di politiche si muovono domande e aspettative che non sono loro proprie, perché hanno l’onere di essere una delle pochissime politiche riconoscibili in un panorama di mancanze: ad esempio Industria 2015, una delle pochissime iniziative di Politica industriale che tentasse di riconoscere delle specializzazioni nazionali, è stata di fatto abbandonata nel 2008. La politica delle smart specialization piove su un tessuto industriale dove alcune delle specialization storiche sono state attraversate da un processo di desertificazione. Inoltre il paese a lungo tempo ha, se non ignorato, almeno sottovalutato gli elementi di sfida che al nostro sistema dei distretti venivano dalla globalizzazione produttiva e dei commerci, con i disastrosi effetti su alcuni distretti anche storici e bandiera
che oggi osserviamo, come ad esempio nel caso di Prato. Esiste certamente una aspettativa di rilancio della capacità produttiva e competitiva del paese, ma chiunque assegnasse questa aspettativa alle reti di imprese commetterebbe un grave errore. Naturalmente nessuno farebbe mai esplicitamente un errore simile, ma nel dibattito sulle reti il non posizionamento di una ambizione può fare sì che da una parte si acceleri il momento di una valutazione e dall’altra che questa sia fatta rispetto a una aspettativa eccessiva.
Un altro elemento ricorrente nel dibattito sulle reti è la valutazione che le aggregazioni che si vanno realizzando abbiano natura più opportunistica che strategica. C’è un che di vero, ma ancora una volta non deve stupire. Adam Smith avrebbe potuto sostenere che ciò sia è un pregio e che la ricerca di vantaggi propri sia costruttiva di nuova economia, ma anche senza scomodare chi non può confutare, va notato che non ci si può stupire degli effetti diretti di una politica: se premio le reti di imprese, otterrò reti di imprese. Se voglio ottenere altro, è bene che premi altro. Il punto è che a oggi non si sa ancora bene cosa sia quest’altro da desiderare, e inoltre occorre lasciare che le cose avvengano nel tempo che è loro proprio.
Fenomeno contingente o strutturale?
Abbiamo assistito in questi anni alla nascita di molte reti. Non c’è niente che dica che queste neonate reti debbano avere successo. Si spera che abbiano mediamente più successo che non le realtà non costituite in reti. Quindi non c’è niente che assicuri che l’imprenditore che partecipa a una rete sia soddisfatto della sua scelta un paio di anni dopo. Alcuni dati ci dicono che le imprese che partecipano a reti stanno un po’ meglio delle altre, ma in è difficile stabilire se sia un effetto della rete o se operi una preselezione.
Soprattutto oggi non sappiamo quali saranno i comportamenti e gli orientamenti degli imprenditori rispetto ai processi aggregativi e le valutazioni se il gioco valga la candela.
Abbiamo elementi per far intendere un consolidamento del fenomeno? O che invece ci facciano percepire una flessione dopo un entusiasmo iniziale?
In qualche misura la risposta presuppone la lettura dell’intenzione della politica pubblica delle reti fin qui. Perché che la gran parte delle reti siano nate in concomitanza con politiche pubbliche di incentivazione, è cosa certa. Non possiamo naturalmente avere un riscontro probatorio (non potremo mai sapere quante reti tra quelle nate avrebbero visto la luce senza il contributo pubblico), ma possiamo confrontare il fenomeno tra territori e vedere la straordinaria differenza di insorgenza reti in presenza o in assenza di politiche di incentivazione. Ma questo poco ci dice. Molto spesso il ruolo di una politica è