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Oltre la pietra angolare
Oltre la pietra angolare
Oltre la pietra angolare
E-book773 pagine11 ore

Oltre la pietra angolare

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Info su questo ebook

Quali segreti si celano oltre la pietra angolare del vecchio rudere ai margini del bosco?
Cosa spinge quattro ragazzi a frequentare un Popolo misterioso, sulle cui origini non hanno alcuna informazione, e del quale non conoscono le abitudini?
Cosa induce un Popolo a impartire ai ragazzi i suoi preziosi e avanzatissimi insegnamenti?
Pagina dopo pagina, mentre lentamente il Popolo si svela e i ragazzi progrediscono nella loro istruzione, alcuni indizi lasciano intuire che la situazione sia molto più complessa di quanto appaia. Qualcosa o qualcuno minaccia la cittadina in cui i ragazzi vivono, e i suoi ignari abitanti stanno per subirne le conseguenze.
Un crescendo di emozioni, per un finale ricco di suspense e colpi di scena.
Non un semplice fantasy, né solo un thriller, ma nemmeno pura fantascienza. Un linguaggio curato, ma vivace e sottilmente ironico, per un racconto che fonde la mitologia con le leggi della fisica e dell’astronomia, piegandole alle esigenze narrative di una storia di pura fantasia, al punto da farla apparire reale e plausibile.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2014
ISBN9788868858308
Oltre la pietra angolare

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    Anteprima del libro

    Oltre la pietra angolare - Paola G. Mancini

    dell'autrice

    Prologo

    Tanti anni prima

    L’uomo, in piedi sull’ultimo piolo della robusta scala di legno, con gesti resi rapidi e disinvolti dalla lunga esperienza, staccava dai rami le olive mature, purpuree e sode e le rovesciava a manciate in un cesto di vimini appeso a un ramo con un vecchio gancio arrugginito. L’autunno era ormai inoltrato e i raggi del sole avevano perso il loro vigore. L’aria pungente si insinuava in mezzo alle fronde ombrose e la logora giacca di panno non riusciva più a ripararlo. L’uomo strinse il nodo del fazzoletto che portava al collo e si calcò il cappello sul capo. Osservò attentamente le poche olive che restavano da brucare e si persuase che non fossero ancora abbastanza mature. Afferrò il cesto, lo sganciò e scese a terra, dove lo posò. Il suo sguardo incrociò quello di una delle lavoranti. «Il cavagno è quasi pieno», borbottò, accennando al cesto col capo. Poi ne afferrò un altro vuoto, sollevò la scala a pioli, la sistemò contro il tronco di un altro albero e si apprestò a salire.

    La donna continuò imperturbabile a raccogliere le olive cadute a terra, frugando in mezzo all’erba bassa con dita agili e occhi attenti. Non una sola oliva sarebbe potuta sfuggire alla sua meticolosa ricerca. Il suo era un lavoro meccanico: prima riempiva il pugno e poi lo svuotava nella tasca del grembiule, tenuta aperta da un rametto incastrato trasversalmente all’apertura. Riempiva, svuotava, riempiva, svuotava, muovendosi lentamente, con la schiena piegata dolorante per la fatica. Quando ritenne di averne raccolto abbastanza, si diresse verso il cesto e vuotò il grembiule. Due bimbette, non appena la videro, si affrettarono a imitarla. Poi la donna afferrò il pesante cesto con entrambe le mani ed iniziò a salire i ripidi scalini di pietra ricavati nei muretti a secco tra una fascia e l’altra, badando di non inciampare nella lunga e logora gonna dal fondo inumidito dalla rugiada. Le bimbette la precedevano a mani vuote. Quelle passeggiate erano il loro unico svago durante tutta la giornata di lavoro.

    Giunsero sullo spiazzo antistante una piccola costruzione in pietra, che sorgeva al limitare tra l’uliveto e un bosco di castagni. La donna allineò il cesto davanti ad altri sette già colmi e ne afferrò uno vuoto. Stava ritornando sui propri passi, quando percepì qualcosa di insolito.

    Le galline nel recinto si immobilizzarono per un lungo istante, improvvisamente silenziose, con una zampa sollevata da terra, ruotando con piccoli scatti a destra e a sinistra la testa eretta, per meglio osservarsi intorno. Ma non c’era nulla da vedere.

    Rimase immobile la capretta, legata con una fune a un paletto conficcato nel terreno, e immobile il vecchio cane da guardia fiutava l’aria. Il silenzio era irreale, pesante, palpabile.

    Le bimbe si avvicinarono alla madre. Una folata di vento le investì, scompigliando loro i capelli e sollevandone le sottane. Era forte, costante e caldo, insolitamente caldo e secco. Poi il vento cessò, improvvisamente così come si era alzato.

    Le galline ripresero a razzolare e la capra a brucare l’erbetta. Gradualmente la piccola radura fu di nuovo immersa nei rumori consueti.

    La donna e le bimbe tornarono nell’uliveto. Nessuno si avvide che, davanti alla costruzione in pietra, qualche sottile filo di fumo si stava sollevando dalle zolle bruciacchiate, descrivendo piccole volute a spirale che rapidamente si dissolvevano nell’aria tersa.

    Capitolo I

    Contatto

    «E quindi calcolate quale sarebbe la velocità della pallina, sul piano orizzontale, in assenza di attrito. Ricordate di applicare la formula. Se applicherete correttamente la formula, il risultato verrà da sé. Avete capito tutti?» Il prof Artemisio Zanghetta stava concludendo la sua ora di tortura. Teneva, come d’abitudine, il piede destro leggermente avanzato rispetto a quello sinistro, e spostava il peso del corpo ora sull’uno, ora sull’altro piede. Il suo corpo oscillava di conseguenza in avanti e all’indietro, in maniera appena percettibile, come se avesse avuto un dondolo applicato sotto le scarpe. Altre volte, invece, specialmente quando si innervosiva, capitava che si dondolasse in modo così evidente che sembrava che solo un miracolo potesse impedire che si schiantasse al suolo. Ad aggravare la sua già precaria condizione, contribuivano, ai lati del grosso testone rotondo, due orecchie così carnose che i suoi alunni dicevano che, in caso di carestia, se gliele avessero mozzate avrebbero avuto da mangiare per una settimana. Completavano il quadro un’incipiente calvizie, che nemmeno uno studiato riporto riusciva a mascherare, nonché un paio di occhiali con una grossa montatura di plastica marrone chiaro, di quelle che usavano molti, anzi, troppi anni addietro. Così, sebbene avesse solo da poco superato la trentina e a dispetto del fisico alto e robusto, non faceva certo la figura del giovane aitante.

    Mentre il prof guardava gli alunni, per accertarsi che tutti avessero effettivamente compreso la consegna, il suo dondolio fu bruscamente disturbato dal suono della campanella. Solo allora si accorse che i ragazzi avevano già chiuso gli zainetti e, prima che potesse profferir verbo, erano già schizzati fuori dai banchi. «La formula, mi raccomando, applicate la formula!» urlò loro dietro, mentre questi erano già in fondo alle scale.

    «Sbaglio, o oggi Arte è stato peggio del solito?» brontolò Elena, rivolta alla sua amica Chiara, varcando con lei il portone della scuola nel tiepido sole primaverile. Ma, prima che potesse ottenere una risposta, si sentì trattenere per un braccio. Si voltò e vide Luca che le sorrideva impaziente. «Siamo intesi, allora? Domani, alla festa dei tuoi. Hai procurato tutto l’occorrente?»

    «Ma ti pare che debba anche procurarti l’occorrente? L’idea è stata tua, tua e di quegli svitati dei tuoi fratelli e non so neanche perché mi sia lasciata coinvolgere», protestò Elena sdegnata, riprendendo a camminare velocemente al fianco di Chiara.

    «Allora, ce li hai o no gli attrezzi? Non sei stata tu a dire che, nel ripostiglio, tuo padre ha tutto?» insisté Luca, correndole dietro.

    «Se lo sai già, perché me lo domandi?» sbottò Elena, salutando con un cenno del capo Chiara che, spazientita, si stava allontanando, abbandonando Elena al suo destino.

    «Beh, ecco», continuò Luca, tra l’imbarazzato ed il divertito, seguitando a inseguirla, «mi è venuto in mente che forse potrebbe esserci utile un piede di porco, e quello non è il genere di cose che tutti hanno nel ripostiglio degli attrezzi!»

    «Ma complimenti per la pensata! Certo che mio padre non ha un piede di porco nel ripostiglio degli attrezzi! Ha solo gli attrezzi per il giardinaggio, non quelli per scassinare le banche!»

    «E allora che cosa suggerisci? Sai dove potremmo procurarcelo?» domandò Luca, visibilmente deluso, perché pure un po’ ci aveva sperato.

    «Oh, certo: è facile. Vai dal tuo, di padre, e gli dici: mi serve un piede di porco per un lavoretto, me ne compri uno?»

    «Spiritosa! Bene, forse, se dovremo sollevare qualche pietra, potremo anche fare leva con la zappa. Comunque tu, cerca di non fare la smorfiosa, altrimenti faremo a meno anche di te.»

    «E come, visto che il vecchio rudere è nel terreno intorno a casa mia?»

    «Allora, tutto a posto?» domandò sorridendo Federico, che stava sopraggiungendo proprio allora. Era assolutamente identico al suo gemello Luca: capelli neri, occhi e carnagione scura, stesso sguardo sornione, stessa corporatura, stessa altezza e anche stesso numero di scarpa. Praticamente impossibili da distinguere l’uno dall’altro, a chi non avesse saputo che Luca aveva una minuscola cicatrice scura, a forma curiosamente triangolare, sul dorso della mano sinistra, ricordo della punta del ferro da stiro che aveva usato una volta tentando di asciugare di nascosto un guanto bagnato senza sfilarlo dalla mano.

    «Certo, abbiamo tutto, eccezion fatta per un piede di porco. Se proprio vogliamo fare i puntigliosi, non abbiamo nemmeno qualche candelotto di dinamite che, in effetti, potrebbe rivelarsi comodo», rispose Elena seccata.

    «Perbacco, la dinamite, che idea geniale!» esclamò euforico Giovanni, che proprio allora raggiungeva il gruppetto, che già si apprestava a salire sulla corriera. «A questo proprio non avevamo pensato! Sei grande, Elena!» Giovanni era sinceramente compiaciuto. Terzo gemello di Luca e Federico, pur somigliando loro moltissimo, era più rotondetto e goffo, con due belle guanciotte piene e un’aria pacioccona e un po’ imbranata.

    Elena scosse il capo sconfortata, guardando inerme Giovanni, senza poter impedire che si sedesse accanto a lei sulla corriera, mentre Luca e Federico prendevano posto nei sedili dietro a loro. «Non finirai mai di sorprendermi, Giovanni. Ma come fai a pensare che potremmo usare la dinamite dentro a un rudere a dieci metri da casa mia?»

    «Oh, ma saranno almeno un centinaio!»

    «Dieci metri o cento, è lo stesso: non possiamo usare la dinamite solo per spostare qualche pietra, ti è chiaro?»

    «E poi rischieremmo di mandare in mille pezzi il tesoro, se non piazzassimo la carica nella dose esatta e nei punti giusti», intervenne serio Federico, facendo capolino da sopra i sedili.

    «Certo, adesso mi tocca sentire di nuovo la storia del tesoro!» si spazientì Elena.

    «E state zitti, che ci potrebbero essere delle spie!» ammonì Luca guardandosi intorno con aria circospetta. Ma gli altri ragazzi erano in tutt’altro affaccendati. Nessuno si curava di quello che si stavano raccontando quei quattro, né i maschi, che stavano facendo pronostici sulle partite di calcio del pomeriggio, né tantomeno le femmine che, quando vedevano Elena con quella compagnia, le giravano alla larga.

    «Ci mancava solo quella delle spie. Per fortuna siamo arrivati. Ci vediamo domani!» salutò Elena, sospirando di sollievo quando si fu liberata di quei tre rompiscatole.

    «Forza, Elena, dammi una mano almeno con i tovaglioli! Porta il pacco sul tavolo sotto il gazebo in giardino, per cortesia. Poi ci penserò io a sistemare tutto, prima che arrivino gli invitati!» esortò la signora Olivari, porgendo a Elena un enorme pacco di tovaglioli di carta a fiori gialli e arancio, perfettamente abbinati alla tovaglia e ai piatti. «E mi raccomando, fai attenzione che tutto rimanga ben coperto, sotto il panno bianco: ci mancherebbe solo che ci andasse a finire qualche insetto!» continuò, riprendendo farcire i salatini che lei stessa aveva preparato, seguendo un’antica ricetta di famiglia.

    «Ti ricordi, papà, lo scorso anno, tutte quelle cacchette marroni che si era trovata nel bicchiere la signora Pinasco?» domandò ridacchiando Elena a suo padre il quale, pur di non fare innervosire sua moglie, aveva appena terminato una serie di lavoretti che giudicava perfettamente inutili: lucidare le scale di ardesia, in modo che gli invitati provassero più soddisfazione nello sporcarle, spargere nel giardino un’infinità di lampioncini perfettamente abbinati ai colori della tavola, che, se accesi, avrebbero attirato un impensabile numero di zanzare e altre fastidiose bestiole, spazzare il vialetto che, al primo soffio di vento, sarebbe stato nuovamente inondato da terriccio, pulviscolo e foglie secche.

    «Zitta, non farti sentire da tua madre mentre dici queste cose, altrimenti ci fa ricontrollare tutto daccapo!» rise il papà che, fortunatamente, nonostante tutto lo stress per i preparativi per la festa con i colleghi che la mamma organizzava ogni anno, non aveva ancora perso il suo abituale buonumore.

    «E due anni fa, quando l’ape morta stecchita era finita sopra la tartina al salmone?» domandò Elena al papà, che rise così di gusto da rischiare di fare traboccare la ciotola, colma di aperitivo fino all’orlo, che stava portando sul tavolone sotto il gazebo. «Quella sono riuscito a toglierla prima che gli ospiti la vedessero. Ho anche fatto un lavoretto piuttosto pulito: i resti dell’ape rimasti sulla tartina non si vedevano quasi, tanto è vero che il signor Costella se l’è mangiata senza batter ciglio! Occhio però, che alla mamma non l’ho mai raccontato!»

    Arrivarono insieme sotto quello che chiamavano pergolato che, in realtà, era stato ottenuto curando alcune piantine di glicine in modo che le loro propaggini si intrecciassero ad arte, a rivestire perfettamente il gazebo di legno. Per un paio d’anni avevano amorevolmente annaffiato, pulito e concimato le piantine, sperando che crescessero in fretta. Adesso che erano cresciute, con altrettanto accanimento le potavano, le scorciavano, eliminavano i germogli, nella vana speranza che non crescessero oltre quella che ritenevano fosse la misura giusta. Insensibili al loro accanimento, le piante di glicine continuavano a propagarsi, minacciando di infestare tutto il giardino. Il papà, ancora il mattino stesso, aveva assestato gli ultimi colpi di cesoie, per impedire alle più indiscrete ed infide propaggini di insinuarsi tra cibi e bevande. A guardarlo adesso, il glicine sembrava totalmente innocuo, ordinato e pulito, con i ricchi amenti che pendevano sopra le loro teste, profumati e delicatamente colorati, avviluppati intorno al gazebo tirato a lucido.

    «Ecco, lasciatemi sistemare tutto», disse la mamma che, disposti in bella mostra i salatini, sopraggiungeva presso il tavolone. Si accorse, con un pizzico di disappunto, che i colori della tavola stavano meglio se abbinati ai colori del glicine, come li aveva scelti l’anno passato. «Le sedie, avete controllato che siano pulite? Sistematele là in fondo, a ridosso del muretto, impilate a gruppi di quattro, non di più, altrimenti risulta faticoso prenderle. Spero che qualcuno abbia già pensato ad accendere il barbecue, altrimenti come faremo ad avere una bella brace? Caro, ci hai pensato, vero? E tu, Elena, mentre io do un’ultima occhiata qui intorno, controlla che camera tua sia in ordine, perché sicuramente qualcuno vorrà vederla. Sai bene come sono gli ospiti: invaderanno la casa come fossero cavallette. E, mi raccomando, quando vai in bagno, fai attenzione a non sporcarlo e bada soprattutto a tuo fratello, che tiri su la tavoletta quando fa pipì e la riabbassi quando ha finito.» La signora Olivari si interruppe improvvisamente. In un attimo di panico cercò lo sguardo di suo marito e poi, all’unisono con lui, urlò: «Nicolò, dove sei?» In tutto quel trambusto, infatti, si erano completamente dimenticati di lui.

    Riccioli chiari, occhi furbi, guancette rosse da strizzare, risata facile, spontanea e contagiosa: sedici chili per quattro anni di roba, apparentemente tutti scomparsi.

    «Ma perché non siete stati attenti a Nicolò? Dove l’avete lasciato andare?» protestò la mamma, che nessuno avrebbe saputo dire se fosse più preoccupata o incollerita. Il papà si guardò attorno. Per lui era facile dirlo: era sicuramente più incollerito e sperava solo che la festa che con tanta fatica stavano organizzando finisse prima possibile, perché ci si potesse godere un altro anno di sana vita normale, prima di dover ricominciare daccapo con i preparativi per la festa dell’anno successivo.

    Fortunatamente a quel punto una sonora, grassa e divertita risata echeggiò nell’aria. Tutti si voltarono verso il punto dal quale proveniva, senza però vedere nessuno. Elena allora si avvicinò a un ulivo che aveva il tronco contorto leggermente inclinato e alcuni rami bassi: una scaletta naturale verso un nascondiglio sicuro. «Nicolò, scendi subito, quante volte devo dirtelo di non arrampicarti lassù in cima? Lo sai che la mamma non vuole, perché è pericoloso, puoi cadere e farti male!» intimò, mentre due occhioni facevano capolino in mezzo alle fronde argentee. Agile e rapido come uno scoiattolo, tenendosi aggrappato con mani e piedi, in un attimo fu a terra. «Ve l’avevo proprio fatta!» esultò, sorridendo compiaciuto della sua prodezza. Insensibile all’agitazione e alla preoccupazione di sua madre, allo stress di suo padre e alla noia di sua sorella, si era appartato per osservare dall’alto tutto quell’interessante movimento.

    Il signor e la signora Olivari tirarono un sospiro di sollievo, poi la signora Olivari concluse che la cosa migliore era che i due ragazzi filassero in casa e cominciassero a cambiarsi d’abito. «Troverete i vestiti che dovete indossare già pronti sui vostri letti. Mi raccomando, non stropicciateli e non sporcateli. Semplicemente fate pipì, mettetevi i vestiti puliti, pettinatevi e restate fermi.»

    «Fermi in piedi, si intende, perché se vi sedete si sgualciscono i vestiti!» bisbigliò il papà all’orecchio di Elena, subito rimbrottato dalla mamma. «Fai poco il furbino, sistema le ultime cose e vai a prepararti anche tu, altrimenti finisce che arriveranno gli ospiti e ti troveranno in queste condizioni, ed io sarò costretta a presentarti come il mio giardiniere!»

    «Come se non lo avessi mai fatto!» protestò il papà. «Hai preparato sul letto anche i miei, di abiti?» domandò poi, perfidamente scettico.

    «Certamente, li ho preparati per primi. Sei tu il soggetto più pericoloso, quando si tratta di vestirsi da solo!» rispose la mamma, con un mezzo sorriso petulante.

    «Pa’, adesso ricomincia con la storia di quella volta che sei andato a prenderla in ufficio con la giacca blu, i pantaloni marroni, la camicia rosa e tutto il resto», disse sottovoce Elena, strizzando l’occhio al padre.

    «E non tralasciare i calzettoni da basket di spugna bianca con le scarpe nere eleganti», aggiunse la mamma, che l’aveva sentita benissimo. «Le avranno sicuramente notate tutti! Se penso a tutte le brutte figure che mi hai fatto fare! A proposito», continuò, rivolta al marito, come colta da folgorazione improvvisa, «non ti ho messo sul letto anche i calzini, ma si intende che devi metterli blu, di cotone, a coste e, soprattutto, puliti.»

    «E quelli sporchi li lasciamo sul letto?» si inserì Nicolò.

    «Solo se puzzano abbastanza!» azzardò Elena.

    «I miei puzzano di sicuro!» esultò Nicolò felice.

    «Dentro, voi due!» intimò la mamma, che a questo punto era veramente esasperata, puntando l’indice destro in direzione della porta di casa. «E tu», continuò, rivolta al marito, «se proprio non ti riesce di collaborare seriamente, cerca almeno di minimizzare i danni!»

    Era un quadretto deliziosamente idilliaco: la famiglia Olivari tutta in tiro, in un giardino curato alla perfezione, vicino a una tavola sulla quale abbondava ogni sorta di agreste prelibatezza.

    Poiché gli inviti erano stati rivolti per il solito barbecue informale, la signora Olivari aveva pensato che fosse adatto un abbigliamento disinvoltamente country, con l’inevitabile accortezza che ogni capo fosse debitamente firmato. Non aveva individuato come requisito fondamentale il fatto che fosse anche costoso, ma la sorta di capi che intendeva lei non erano mai economici. Così, in quel momento, la famigliola indossava con nonchalance quello che secondo il signor Olivari era un piccolo patrimonio.

    Il povero Nicolò era stato costretto in una camicia chiara dal colletto rotondo smerlato, una felpa color carta da zucchero, un paio di pantaloni a quadretti carta da zucchero e avorio rigorosamente tagliati al ginocchio. Il tocco finale era rappresentato da un paio di calze avorio lavorate a trafori e un paio di scarpe di cuoio con stringoni lunghi e robusti. Per convincerlo a indossare quella che secondo lui era tutta roba da femmine, la signora Olivari aveva ceduto alla richiesta di farlo andare a dormire senza farsi la doccia né lavarsi i denti e, soprattutto, di portarsi a letto Chicco, il procione di peluche non lavabile più schifosamente sporco che fosse mai appartenuto a un bambino.

    Anche Elena subiva un abbigliamento non del tutto consono agli ultimi dettami della moda dei giovani. Pur restando assolutamente irremovibile in quanto a felpa e jeans scoloriti e leggermente stracciati, aveva ceduto sulla camicetta elegante. In cambio della promessa di comportarsi bene, le erano state condonate le pulizie di camera sua nelle due settimane successive. Non paga di ciò, Elena aveva anche ottenuto una cospicua ricarica per il cellulare.

    La signora Olivari riluceva in una maglia nera dal collo alto e senza maniche (che naturalmente teneva caldo al collo e freddo alle braccia, ma lei non l’avrebbe mai ammesso) e una gonna sportiva lunga alla caviglia. Ma era sicuramente il signor Olivari che dava il meglio di sé. Una cravatta informale, con un nodo leggermente lasco, spuntava da un cardigan di cotone grezzo, lavorato con trecce e punti operati. A coprire il tutto, un grosso grembiule da cuoco in pesante tessuto verdone, sul quale spiccavano il disegno della testa di un gallo, con tanto di cresta e vistosi bargigli, nonché la scritta rossa ‘Sono il re dei polli’, che, secondo sua moglie, gli avrebbe conferito un’aria spiritosa, mentre secondo lui gli faceva fare la figura dello stupido, anche perché, nel menù, non era previsto alcun pollo.

    «Arrivano, sento delle voci!» esclamò Nicolò all’improvviso. La mamma gli diede l’ultima rassettata ai riccioli ribelli, si stampò sulla faccia un bel sorriso solo apparentemente spontaneo e andò incontro ai primi ospiti.

    «Siamo in anticipo?» domandò Alessandra Costa, allargando le braccia per abbracciare la signora Olivari ed Elena, e chinandosi poi per salutare Nicolò.

    «Siete voi, per fortuna!» esclamò la signora Olivari, con un sospiro di sollievo. «Siete puntualissimi come sempre! Grazie per essere arrivati presto, avrò sicuramente bisogno di una presenza amica. Detto tra noi, sono un po’ agitata.»

    «Sono sicura che andrà tutto per il meglio anche questa volta. Siete splendidi come sempre!» la rassicurò Alessandra, guardando prima la famiglia Olivari al gran completo e poi osservando la consueta cura con cui era stato allestito il giardino. Alessandra e suo marito Gianfranco erano entrambi colleghi della signora Olivari, nonché carissimi amici di famiglia. Avevano due figli grandi, ormai troppo cresciuti per accompagnare i genitori nelle loro uscite mondane, e cercavano di non perdersi nessuna festa, cocktail, ricevimento, banchetto o altra occasione in cui ci si potesse abbuffare e fare quattro risate in compagnia.

    «Per cortesia, vogliate fare da cavie all’aperitivo di mio marito, prima che arrivino gli altri ospiti. Lui assicura che sarà l’aperitivo migliore che abbiate mai gustato, ma io ho i miei dubbi», li invitò la signora Olivari, porgendo ad Alessandra e a suo marito due bicchieri colmi di un liquido verdastro che l’istinto di conservazione avrebbe suggerito di non assaggiare.

    «È una mia ricetta esclusiva, frutto di attenti studi e perfezionata nel corso degli anni!» precisò ridacchiando il signor Olivari.

    «Veramente non degli anni, perché ancora l’altra sera ne hai provate così tante varianti che alla fine eri un po’ sbronzo!»

    «Grazie Elena, per la tua immancabile parola buona», replicò il papà, tra il serio ed il faceto, mentre Alessandra e Gianfranco scoppiavano in una irriverente risata.

    «E, solo per curiosità, potrei sapere se il colore verde è dovuto alla presenza di composti del cromo?» domandò Gianfranco, osservando attentamente il contenuto del bicchiere, centellinandolo con cura e poi portandolo alle labbra.

    «Le tue papille gustative cosa suggeriscono?» ribatté il signor Olivari, fingendosi offeso e indignato.

    «Assolutamente nulla, ho solo fatto finta di assaggiarlo, ma per berlo per davvero aspetto che ne beva prima un po’ tu!»

    «Grazie per la fiducia accordatami. Mai sentito parlare di kiwi centrifugato? Comunque, ben venga il tuo suggerimento: nel caso dovessi rimanere a corto di kiwi, saprò come rimediare.»

    «Ecco che arrivano gli Zucchetti!» esclamò la signora Olivari, mentre tutti si avviavano loro incontro lungo il vialetto di accesso. «Oh, ma ci sono anche i Canepa!»

    Presto fu tutto un turbinare di «Benvenuti! Avete avuto difficoltà a trovare parcheggio?», «Non avrete trovato traffico, spero!», «Ma che posto stupendo, incantevole esattamente come lo ricordavo!» oppure, da chi era stato invitato per la prima volta «Complimenti, ma come avete fatto a scovare un angolo di natura ancora incontaminata, appena un minuto fuori città?»

    «Sai che sforzo, la nostra famiglia ci abita da generazioni, da quando la città terminava a decine di chilometri da qui!» pensava Elena, mentre sorrideva agli ospiti fingendosi grata come se avesse appena ricevuto un complimento garbato e originale.

    Piano piano il giardino cominciò a pullulare di una miriade di colleghi della signora Olivari, single oppure accompagnati. Un gruppetto aveva preso posto su sdraio e chaise-longue sulla piccola terrazza e, osservando il panorama con un bicchiere in mano, un pezzo di focaccia nell’altra e un salatino in bocca, si stava godendo la tiepida brezza primaverile. «È una vergogna, non si può andare avanti così!» si stava lamentando qualcuno a bocca piena, ricevendo da Elena un complice sorriso di assenso, che non lasciava in nessun modo trapelare il fatto che lei in realtà non sospettasse nemmeno lontanamente di che cosa stesse disquisendo.

    Gli ospiti più intrepidi, invece, si erano avventurati a esplorare le fasce soleggiate coltivate a ulivo, delimitate da muretti a secco ben tenuti, in cui erano state ricavate molto tempo addietro ripide scale in pietra. Osservavano l’orticello ordinato come si contempla una reliquia preziosa e rara. «Guardate come sono già alte le piantine di fagiolini!» commentò qualcuno indicando i piselli. «E quanto bel prezzemolo, in quell’angolo!» osservò un altro, indicando un cespo incolto di cicuta.

    Come in tutte le feste, poi, c’era il gruppetto di quelli che, apparentemente digiuni da due giorni, si erano inamovibilmente piazzati intorno al tavolone delle cibarie e che non avrebbero abbandonato la postazione fin quando non avessero fatto sparire anche l’ultima briciola.

    La signora Olivari turbinava in mezzo a tutta quella folla, reggendo in mano un enorme tagliere di legno d’ulivo che lei stessa aveva piallato, colmo di stuzzichini di fave, salame e pecorino fresco infilzati sulle aste di bandierine colorate. «Assaggiate le fave del nostro orto, sentirete che bontà! Le abbiamo raccolte questa mattina stessa!»

    Il papà, col suo vistoso grembiulone e una pala da fornaio in mano, stava estraendo dal forno a legna focaccette alla salvia e al rosmarino, due specialità della casa che incontrarono il consenso unanime, come dimostrò la velocità con le quali furono fagocitate.

    «Elena», disse a quel punto Nicolò, sentendosi trascurato da tutti e spaesato in mezzo a quella confusione, «se vieni sull’albero con me, forse la mamma non si arrabbierà se mi sono arrampicato!»

    «Non ci penso nemmeno; sto vedendo arrivare i miei amici», rispose la sorella, che si stava annoiando al pari di lui ma non voleva dare a intenderlo. Finalmente, ultimi come sempre accade a quelli che abitano più vicino, arrivarono anche i signori Zenarega, con i loro tre gemelli. Pur non essendo colleghi della signora Olivari, avevano acquisito il diritto a partecipare a ogni loro festa, in quanto vicini di casa e amici da sempre.

    «Siete arrivati, alla fine! Cominciavo a stare in pena! Nessun problema, spero?» disse la signora Olivari, andando loro incontro per salutarli.

    «Niente di grave, scusateci. Sono quelle tre bestie dei miei figli che ci hanno fatto fare tardi. Sapevano benissimo che dovevamo essere qui per mezzogiorno. Sono usciti stamattina presto e si sono ripresentati solo mezz’ora fa. Non so proprio cosa abbiano in testa. E come si sono vestiti, poi! Non c’è stato verso di convincerli a indossare nient’altro. Vicino a Elena e Nicolò sembrano tre selvaggi!» Emma Zenarega prese in braccio Nicolò e lo strizzò affettuosamente, continuando però a parlare, senza che nulla sembrasse poterla fermare, indicando i disdicevoli pantaloni larghi e leggermente corti sopra la caviglia, in tela blu pesante, con vistose e ampie tasche laterali, che indossavano i gemelli.

    Luca strizzò l’occhio a Elena, che era sopraggiunta a salutarli e, voltatosi in modo da non essere visto dagli adulti, sollevò appena il largo felpone che indossava sopra i calzoni, lasciando intravedere quello che aveva tutta l’aria di essere un piede di porco infilato nelle brache.

    Elena riuscì a restare impassibile, mentre Federico la prendeva sottobraccio e la conduceva in disparte, portandola distante dal gruppetto dei genitori.

    «Facci vedere dove possiamo nascondere quest’affare, non vedo l’ora di togliermelo di dosso: ho la gamba anchilosata!» protestò Luca, che li stava seguendo a ruota.

    Elena li guidò fino al ripostiglio degli attrezzi, lungo un sentiero di ciappe d’ardesia posate in mezzo al prato. «Siete proprio matti, tutti e tre. Mettetelo lì, in mezzo agli altri. Nessuno si accorgerà che ce n’è uno in più. Ma si può sapere dove l’avete preso?»

    «Wow!» sospirò Luca, dopo aver estratto il piede di porco dal calzone, flettendo finalmente il ginocchio. «Dal ferramenta, naturalmente, investendo tutti i nostri risparmi, ma ne sarà valsa certamente la pena», rispose rivolto a Elena. «Però sapessi che fatica, fare in modo che nessuno se ne accorgesse!»

    «Non voglio neanche saperlo!» dichiarò Elena scuotendo il capo incredula, mentre Giovanni osservava con occhio critico l’armamentario del signor Olivari. «Dunque, zappe…» disse, soppesandone un paio, di dimensioni diverse. «Una bella pala, rastrello, sega, segaccio, cesoie... Ehi, ma che cosa ci potrà servire?» domandò grattandosi il capo perplesso, confuso da quell’abbondanza di arnesi.

    «Facciamo così. Prima che il pranzo sia servito, andiamo a dare un’altra occhiata, tanto il rudere è qui dietro. Sono tutti indaffarati, nessuno si accorgerà che non ci siamo», suggerì Luca.

    «Ma cerchiamo di non fare sciocchezze», li ammonì Elena.

    «E tu cerca di non rompere!» ribatté secco Luca, avviandosi verso il vecchio rudere, seguito dagli altri tre.

    L’appellativo di ‘vecchio rudere’ era in realtà un po’ pretenzioso, per quattro muri di pietra semidiroccati che si ergevano al limitare di una piccola radura che si apriva nel bosco di castagni, poco oltre il confine della proprietà dei signori Olivari. Di questi muri, solo due erano ancora interamente in piedi, mentre uno era alto come gli altri due a una estremità e proseguiva degradando fino all’altezza di circa un metro all’estremità opposta, essendo le pietre della parte mancante rovinate al suolo e ammassate all’esterno della costruzione. Del quarto muro, invece, restava solo qualche traccia. Probabilmente le pietre da cui era costituito erano state asportate tempo addietro e utilizzate per costruire qualcos’altro. Il bosco che lo circondava, negli anni passati curato e pulito, era adesso invaso da erbe infestanti che si erano propagate anche all’interno della costruzione. Un intrico di rovi apparentemente inespugnabile campeggiava al posto del muro distrutto, mentre enormi cespi di parietaria e altre erbacce, prima tra tutte l’ortica, infestavano gli altri muri. Lungo quello che un tempo doveva essere il vialetto d’accesso, crescevano erbacce alte fino alla vita dei ragazzi e grossi rami secchi spezzati dal vento rendevano ancora più disagevole il passaggio.

    «Marca male!» esclamò sconsolato Giovanni, alla vista di quello spettacolo.

    «Ehi, ma cosa credevi, che sarebbe stata una passeggiata?» lo rimproverò Luca. «Per arrivare fino là ci faremo strada tra le erbacce e, se non dovessimo riuscirci, ci apriremo un varco con un falcetto. L’abbiamo usato tutti, qualche volta, per tagliare l’erba per i conigli e sappiamo come si fa. Poi dovremo individuare la pietra giusta. Nostro nonno raccontava sempre che i vecchi, quando costruivano una casa, mettevano un gruzzoletto di denaro come portafortuna sotto la prima pietra che posavano, che era sempre la più grossa delle quattro pietre angolari», spiegò, rivolto a Elena, che fu piacevolmente sorpresa nel constatare che quelli che considerava i vaneggiamenti di tre folli avessero invece un minimo di fondamento razionale.

    «E questo rudere le pietre angolari ce le ha ancora tutte», continuò Federico, «segno che il tesoro è ancora da qualche parte lì sotto.»

    «Ehi, Luca ha parlato di gruzzoletto portafortuna, non ti sembra di esagerare un po’, parlando di tesoro?» domandò Elena.

    «Ragazza mia, un gruzzoletto di più di cento anni fa», spiegò Luca, con l’aria di chi la sa lunga, «al giorno d’oggi significa un valore inestimabile in monete antiche!»

    «Ridicolo! Che valore vuoi che abbiano, quattro patacche arrugginite?» continuò Elena scettica.

    «Sei dei nostri, o sei una femmina?» tagliò corto allora Luca.

    «Sono dei vostri, solo perché voglio vedere la vostra faccia quando troverete le patacche, se le troverete.» Fece una pausa e poi continuò: «E comunque sono anche una femmina, e me ne vanto, se essere maschi significa essere fuori di testa come voi tre!»

    Ma i tre non le badarono. Si erano già aperti un varco verso il vecchio rudere e lo stavano osservando più da vicino.

    «Ehi, non vorrei cantare vittoria troppo presto, ma mi sembra che la più grossa delle pietre angolari sia quella tra i due muri più bassi. Scalzarla con i nostri attrezzi sarà un gioco da ragazzi!» esclamò Federico, preso dall’eccitazione.

    «Sarà meglio tornare indietro», suggerì Giovanni, tendendo le orecchie. Mi sembra che stiano chiamando per il pranzo. Non devono notare la nostra assenza, altrimenti addio tesoro!»

    «Torniamo pure alla base», convenne Luca. «Tanto qui abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere.»

    Mangiarono tutti a sazietà e i ragazzi rimasero apparentemente tranquilli durante tutto il pranzo. I gemelli furono compiti ed educatissimi; dissero «Grazie» a ogni portata e fecero i complimenti al signor Olivari per le carni e le verdure alla brace e alla signora Olivari per tutto il resto. Giovanni addirittura riuscì a mostrarsi sensibilmente spiaciuto per il signor Tarcisi, che camminava zoppicando vistosamente.

    Elena si prodigò nel dispensare ricette di ogni piatto a chiunque ne facesse richiesta. «La capponadda? Davvero non l’aveva mai mangiata, signora Romano? È un’antica ricetta delle nostre parti. Prepararla è semplicissimo. Si va da Maccarello, che sarebbe il fornaio in fondo alla strada principale, e si compra un sacchetto da chilo di gallette del marinaio. Poi si procede secondo le istruzioni riportate sul retro della confezione.» Rispose educatamente a tutte le domande che le vennero rivolte e non perse mai la pazienza, nemmeno quando l’ingegner Pastore le domandò per la terza volta in due ore quanti anni avesse e che scuola frequentasse.

    Finalmente tutte le pance furono satolle e tutti i piatti vuoti.

    Terminato il pranzo, capannelli di persone si formavano e si disfacevano. I signori Olivari si prodigavano a distribuire caffè e ammazzacaffè, mentre qualche persona caritatevole dava una mano a ripulire il giardino, in cui piatti di carta, tovaglioli appallottolati e bicchieri ancora mezzi pieni erano stati abbandonati praticamente ovunque.

    Satolli e leggermente brilli, gli adulti si erano lanciati nei più sfrenati pettegolezzi sui colleghi assenti, citando episodi divertenti, e abbassando la voce quando riferivano qualche piccante storiella segreta che, come tale, era nota a tutti ma andava comunque riportata con tono di voce opportunamente basso.

    «È il momento, ragazzi! Forza, filiamocela!» suggerì Luca ai compagni.

    «Mamma, noi facciamo una passeggiata qui intorno, per digerire», disse Elena, per tranquillizzare la mamma e fare in modo che non venisse a cercarla.

    I quattro si avviarono con indifferenza in direzione del ripostiglio degli attrezzi.

    «Sicuramente ci serviranno il falcetto e forse anche le cesoie, per aprirci il varco», meditò Giovanni quando furono arrivati, afferrando il falcetto con una mano e le cesoie con l’altra.

    «Io mi riprendo il piede di porco», disse Luca.

    «Ed io una zappa e una pala, così abbiamo l’attrezzatura completa dei cercatori di tesori», aggiunse Federico.

    «Quindi io non dovrò portare nulla», concluse Elena soddisfatta. «Ma, per sicurezza, prenderò un paio di guanti per non pungermi e non scorticarmi le mani, e fareste bene a prenderne un paio anche voi!»

    «Non penserai mica che ci spaventeremo per qualche graffietto, vero?» ridacchiò Luca, mentre già si stava avviando con i suoi fratelli.

    All’improvviso, da dietro un cespuglio, si udì un richiamo e poi una vocina che urlava: «Ehi, ma dove ve ne state andando, voi?» Era naturalmente Nicolò che, dopo essersi goduto le coccole di tutti gli invitati, adesso si era stancato di quel chiassoso e incomprensibile vociare e stava cercando qualcosa di più divertente da fare. «E perché avete preso tutte le cose di papà?» domandò, dopo aver osservato attentamente i ragazzi.

    «Nicolò, fila via, stiamo facendo una passeggiata da grandi, sei troppo piccolo per venire con noi. Tornatene dalla mamma!» ordinò Elena.

    Ma Nicolò era troppo furbo per non accorgersi che qualcosa di interessante stesse bollendo in pentola. «Se non mi lasciate venire con voi, dico al papà che state rubando tutti i suoi attrezzi!» minacciò serio.

    Elena guardò interdetta i tre gemelli, che si strinsero nelle spalle sconsolati.

    «E va bene, Nicolò, ma ricordati che, se racconti alla mamma una sola parola di quello che abbiamo fatto, prendo il tuo lurido Chicco e lo do in pasto al gatto. Ti è chiaro?» Ottenuto un cenno di assenso da Nicolò, proseguì: «Vai a dire alla mamma che vieni con noi, così non si metterà a cercarti. E fai presto!»

    «Guarda che se non mi aspettate io dico tutto!»

    Ma Elena non fece in tempo a intimare «Sbrigati!» che Nicolò era già bell’e tornato. Prese Elena per mano e la seguì senza fiatare, convinto di partire per qualche mirabolante avventura da vero eroe.

    Avvicinarsi al vecchio rudere questa volta fu più semplice, vuoi perché l’erba in alcuni punti era rimasta ancora schiacciata dai loro passi del mattino, vuoi perché Giovanni, che procedeva in testa alla fila, ogni tanto assestava qualche colpo di falcetto, nei punti in cui la vegetazione era più fitta. Fecero un giro di perlustrazione intorno al rudere, per constatare che la più grande delle pietre angolari era proprio quella tra i due lati più bassi, come avevano già supposto. Era un bel pietrone grigio, liscio e ben squadrato sulle due facce visibili dall’esterno, parzialmente coperte da una macchia circolare di lichene giallo verdastro e percorse in tutta la loro lunghezza da una spessa vena obliqua di calcite bianco latte. Stimarono che la parte emersa dal terreno e quindi visibile dovesse essere circa ottanta centimetri per ottanta, un po’ meno in altezza. Rimasero per un po’ a guardarlo, con l’occhio critico con cui i ladri osservano una cassaforte prima di provare a forzarla. Nicolò, sempre per mano a Elena, scimmiottando gli altri, la contemplava estasiato, come se fosse stata la prima pietra che vedeva in vita sua. Per colmo della fortuna, la pietra era abbastanza libera. Il rovo che era cresciuto al posto del muro asportato era talmente ridotto, in prossimità di essa, che con pochi colpi di falcetto e cesoie fu possibile aprire un varco per curiosare all’interno.

    Furono delusi, perché lì lo spettacolo apparve desolante: l’ambiente era stato completamente invaso dalle erbacce. Per fortuna, però, i rovi non erano ancora penetrati, così fu evidente che sarebbe stato possibile accedervi. Giovanni si intrufolò per primo e, con una disinvoltura che lasciò Elena piacevolmente stupita, falciò le erbacce su uno spazio più che sufficiente per contenere tutti loro, che entrarono uno alla volta. All’interno il rudere si rivelò piuttosto angusto, più piccolo di come se lo erano figurato dall’esterno, perché i muri di pietra erano molto spessi. Si trovarono perciò circondati da erbacce nelle quali si sarebbe potuta celare ogni sorta di bestia, ed ebbero l’impressione che i muri semidiroccati da un momento all’altro potessero rovinare loro addosso.

    Elena attirò a sé Nicolò, ma nessuno fiatò: sarebbe stato come palesare agli altri i propri timori. Inconsapevolmente, però, tutti aguzzarono la vista per scrutare tra le erbacce, frugarono con lo sguardo negli interstizi tra le pietre, alla ricerca di qualche enorme serpente che si godesse il calore del sole, ma non videro nulla. Drizzarono le orecchie e sussultarono sentendo alcuni rumori provenire da poco lontano: era uno scalpiccìo di zoccoli e uno scampanellare al quale Elena e Nicolò erano bene abituati. «Sono le capre del vicino, pascolano nel bosco. E sono anche curiose, tra un po’ arriveranno a vedere che cosa stiamo facendo.» Il belato di una capretta, seguito da quello più grave della madre, risuonarono nell’aria con un’eco stranamente sinistra.

    Giovanni, come colto da raptus, in un lampo finì di falciare tutte le erbacce, liberando completamente lo spazio all’interno del rudere. Elena, con i suoi guantoni, sradicò la parietaria e l’ortica che erano cresciute tra le pietre. Quando risultò evidente che non ci fosse nessun animale nascosto nel rudere, il suo aspetto divenne meno inquietante. I ragazzi parvero rilassarsi e anche Nicolò tirò un sospiro di sollievo.

    «Bene…» rifletté Luca a voce alta. «Ci sono quattro, sei, otto, dieci, tredici... sì, tredici pietre sopra la pietra grossa, più qualche sassolino. Bisogna liberarla da tutto quello che c’è sopra», disse, iniziando a togliere con le mani le pietre più piccole, che stavano in cima a quello che restava del muro. Come sollevò una pietra un tantino più grossa e più piatta delle altre, venne alla luce quello che pareva un intero formicaio. Un numero impressionante di minuscole formiche si mise freneticamente in moto, sparpagliandosi in tutte le direzioni, apparentemente senza alcun ordine. Per un attimo Luca rimpianse di non aver ascoltato il consiglio di prendere i guanti, ma naturalmente non sarebbe stato disposto ad ammetterlo.

    Decise comunque che, per rimuovere le pietre più grosse, si sarebbe servito di qualche attrezzo. Lui e Federico impugnarono il manico della zappa e, mantenendolo orizzontale, appoggiarono la lama contro la pietra più alta della pila ed iniziarono a spingere. Spinsero con tutte le loro forze e la pietra cadde all’esterno del muro con un tonfo sordo, solo in parte attutito dall’erba alta.

    Utilizzarono lo stesso sistema per buttare giù una dopo l’altra ancora cinque o sei pietre poi, ansanti per lo sforzo, si fermarono a prendere fiato. Si incominciava a intravedere la superficie della pietra angolare, verso il lato più libero, dalla parte del rovo.

    Luca e Federico riafferrarono poi la zappa per il manico, uno per lato, e la appoggiarono contro la più alta delle poche pietre restanti. Spinsero ancora, ma la pietra non si spostò di un centimetro. Accorse anche Giovanni a dare una mano. Contarono fino a tre e spinsero con tutte le loro forze. La pietra oppose resistenza fino a che, d’un tratto, rovinò dall’altra parte. Ci fu un istante di silenzio, poi, all’improvviso, si udì un rombo sordo e decine di pietre iniziarono a rotolare al suolo, scivolando rumorosamente una dopo l’altra dall’alto del muro, che si sgretolava sotto gli occhi dei ragazzi attoniti e sgomenti. Col fiato sospeso, i cinque osservarono quello spettacolo terrificante, senza avere il coraggio di muoversi di un passo, perché tutte le direzioni parevano pericolose. Fu solo per un miracolo (o forse per l’abilità degli antichi costruttori) che tutte le pietre caddero verso l’esterno e che i ragazzi rimasero incolumi all’interno del rudere. E fu un altro miracolo a fare in modo che nemmeno la pietra angolare venisse sommersa dalla valanga di pietre: anzi, quello che era stato il muro più alto al lato della pietra si era ridotto a tal punto da rendere del tutto privo di pericolo rimuovere le ultime pietre restanti al di sopra di essa. A una a una, infatti, le pietre vennero spostate, ma in religioso silenzio, perché tutti avevano perso la baldanza iniziale.

    Luca però, nonostante le disavventure, non intendeva certo arrendersi quando si sentiva ormai prossimo alla méta. «Bene ragazzi, ecco liberata la pietra. Ce l’abbiamo fatta! Datemi un cinque!» esclamò, alzando la mano e rivolgendone il palmo a tutti, compreso il piccolo Nicolò, che si sentì oltremodo gratificato. Bastò questo a rinfrancarne gli animi e a infondere in loro nuovo coraggio. «Adesso dobbiamo solo spostare questa, e il gioco è fatto!»

    «Dobbiamo ‘solo’ spostare questa? Ma hai una vaga idea di quanto possa pesare una pietra del genere? Ci siete voluti in tre, per spostare pietre che non erano nemmeno la metà della metà di questa, e adesso pretendete di sollevare questo macigno e guardarci sotto? Su, dai, cosa aspettate? Sto morendo dalla voglia di guardarvi!» rise Elena, ma nessuno la prese sul serio.

    «E il piede di porco, cosa pensi che lo abbiamo portato a fare?» le domandò Federico, mentre già Luca stava tentando di inserirlo sotto il masso.

    «A guardarvi bene, direi per fare il solletico alla pietra!» ribatté Elena divertita.

    Il masso ovviamente era stato collocato bene in profondità e, per inserire il piede di porco sotto di esso, fu necessario rimuovere un bel po’ di terreno, prima rompendolo con la zappa e poi asportandolo con la pala. Alla fine, Luca riuscì a mettere il piede di porco in posizione da fare leva sotto il masso ed iniziò a fare forza per sollevarlo. Naturalmente non sortì il benché minimo effetto. Si aggiunse Federico, presero fiato ed insieme tornarono a fare forza sulla barra, ma ancora la pietra non si mosse di un millimetro. Come seguendo un copione non scritto, si aggiunse Giovanni, che si inginocchiò sotto la barra e cominciò a tirarla con forza verso il basso, mentre Luca e Federico, da sopra, lo spingevano in giù. La pietra si mosse impercettibilmente, poi si avvertì uno scricchiolare sinistro e infine, con uno schianto, il piede di porco si scalzò, senza aver minimamente scalfito o spostato la pietra, mentre i tre ragazzi si abbattevano al suolo.

    Elena e Nicolò non seppero trattenersi e la loro risata fu spontanea e squillante. «Ragazzi, sono già le cinque e un quarto», avvisò Elena, dopo aver guardato l’orologio. «Tra un po’ bisognerà rientrare, prima che qualcuno venga a vedere cosa stiamo facendo.» Ma i tre gemelli non batterono ciglio. Luca, anzi, stava già pensando a come risolvere il problema. «Voi due, invece di ridere e portar sfortuna, dateci una mano! Forza, tutti insieme. Elena e Nicolò, che siete più bassi, mettetevi in prima fila e appoggiate le mani contro la pietra. Noi tre», continuò, rivolto ai fratelli, «dietro di loro, spingiamo tutti insieme!» Tutti e cinque misero le mani contro la pietra e, al tre di Luca, con la schiena piegata, iniziarono a spingere con tutte le loro forze.

    L’impressione fu chiarissima: pensarono addirittura di muovere qualche passo. Improvvisamente tutti i rumori cessarono. Non si udirono più il vociare in lontananza, lo stormire del vento tra le fronde, il frinire di grilli e cicale, né belati e cinguettii. Poi tutto fu inspiegabilmente immerso nella penombra.

    Intorno a loro c’erano pareti come non ne avevano mai viste. Non erano né dritte, né lisce, né intonacate o tantomeno dipinte o decorate come quelle delle loro abitazioni. Erano invece grigie, irregolari e spoglie, ma ben diverse da quelle di una caverna o di una grotta. Se qualcuno avesse domandato loro dove si trovavano, tutto quello che avrebbero saputo rispondere era che si trovavano in un posto. Un posto grande, arioso, coperto, fiocamente illuminato, ma non avrebbero saputo definirlo meglio. L’unica loro certezza era che sicuramente non erano più nel rudere. Il pavimento sul quale erano caduti era scuro, appena tiepido, con minuscoli rilievi e concavità che lo rendevano gradevole al tatto. Provarono ad alzarsi in piedi e mossero qualche passo, guardandosi intorno senza fiatare.

    A un tratto intravidero un bagliore dietro di loro e udirono una voce che diceva: «Benvenuti, giovani ospiti, tra il Popolo dell’Aquila. Il mio nome è Nashira e sono qui per accogliervi, per assicurarvi che non vi verrà fatto alcun male e che non state correndo alcun pericolo.»

    La voce di Nashira era vellutata e fuori dal tempo, l’accento morbido e carezzevole. I quattro si voltarono e, dall’affievolirsi dell’alone di luce, videro emergere via via sempre più nitidi i contorni di una figura alta più o meno quanto loro, esile e minuta. Era indubbiamente una figura femminile, ma sarebbe stato impossibile attribuirle un’età. I lineamenti del volto erano giovani e freschi, come di bambina, le movenze eleganti, pacate e quasi materne, mentre dallo sguardo traspariva una saggezza antica che solo la piena maturità può conferire. Aveva lunghi capelli castano chiaro, morbidamente ondulati, con la scriminatura centrale, tenuti fermi da un laccio marrone, passato sulla fronte e tutto intorno al capo. Il laccio era legato con un nodo piano appena sopra l’orecchio sinistro e le sue estremità le scendevano fino sulla spalla. Sulla gota destra, posizionata a metà tra l’estremità del labbro e l’orecchio, una minuscola stella luceva più che se fosse stata d’oro. La donna indossava una comoda tunica bianca che, scendendole lungo il corpo in un morbido drappeggio, la copriva fino ai piedi. Le maniche della tunica erano ampie e lasciavano intravedere polsi chiari e sottili, mentre un grosso e lungo cappuccio era abbassato sulle spalle e le scendeva fin sulla schiena.

    I cinque erano ammutoliti. Inspiegabilmente catapultati dal vecchio rudere fino al cospetto di quell’enigmatica creatura, non pensarono neanche per un momento di prestare fede alle sue rassicurazioni. Il primo impulso fu di scappare, ma non avrebbero saputo dove andare. Avrebbero altresì avuto mille domande da rivolgerle e mille proteste da avanzare, ma per un po’ non riuscirono neppure ad articolare verbo. Il loro cuore batteva all’impazzata e il respiro era corto e affannoso. Istintivamente si avvicinarono l’un l’altro e indietreggiarono tutti di qualche passo. Poi restarono immobili a osservarsi intorno silenziosi e Nashira, sorridendo radiosa, concesse loro tutto il tempo necessario per ambientarsi.

    Finalmente Elena trovò il coraggio e la forza per domandarle, con la voce rotta dall’emozione: «Ma tu cosa ci fai qui?»

    Fu subito rimbrottata da Federico, che precisò: «Vorrai dire cosa ci facciamo noi, qui?»

    «Ehi, ragazzi, non perdiamo il controllo», sussurrò guardingo Luca, che stava iniziando a riaversi dallo stupore. «Sento odore di guai, e guai grossi! State all’erta!»

    «Già, cominciamo dall’inizio. Dove siamo qui?» domandò Giovanni in tono sospettoso, guardandosi ancora un po’ intorno. Era stato l’unico tra tutti a controllare il cellulare, e lo aveva trovato completamente scarico, nonostante lo avesse caricato poco prima di uscire di casa.

    «Avete varcato la soglia celata nella pietra angolare del rudere e siete entrati nello spazio del Popolo dell’Aquila, come vi ho già detto. Siamo amici e vi accogliamo in pace.»

    «Altro che accoglierci, secondo me ci hanno rapito», sussurrò Nicolò all’orecchio di Elena. «Dobbiamo dirlo subito a mamma e papà.»

    «Vai a dirglielo tu?» rispose Elena bisbigliando seccata, prendendolo per mano per paura che potesse combinarne qualcuna delle sue. «Mostrami la strada, che ti seguo.»

    Nashira non diede segno di essersi avveduta dello scambio di battute.

    «Io volevo sapere dove è questo posto e che cosa è successo al vecchio rudere», continuò Luca, che non aveva alcuna intenzione di demordere.

    «Al vecchio rudere non è accaduto assolutamente nulla. È là dove lo avete lasciato e, non appena lo desidererete, potrete farvi ritorno. Qualcuno di noi vi indicherà la via.»

    «Ah, sì? Bene, allora voglio tornarci adesso, subito!» rispose Luca, deciso a non farsi sfuggire l’opportunità che gli veniva offerta.

    Nashira inclinò il capo di lato, come se, da quella posizione, le riuscisse più semplice scrutare il volto teso e contratto di Luca. Dopo aver riflettuto a lungo, saggiamente ella rispose: «Hai pronunciato parole differenti da quelle che ha udito il mio cuore. Il mio cuore ha percepito la curiosità e l’interesse che la tua mente vorrebbe tenere celati. Se mi vorrai seguire, sarò ben lieta di condurti da colui che potrà soddisfarli entrambi.» Poi, rivolta a tutti, aggiunse: «Intuisco il vostro desiderio di sapere dove siamo, chi siamo, come abbiamo potuto farvi giungere fino a noi e il motivo per cui l’abbiamo fatto. Dunque, bando agli indugi, seguitemi. Vi stiamo offrendo la nostra ospitalità, non sarebbe cortese rifiutarla.»

    Come ebbe detto questo, la stellina sulla sua gota emise un nuovo bagliore, caldo e quasi magnetico. Nashira si voltò, volgendo loro le spalle, e si avviò verso una enorme porta lignea in fondo all’ambiente in cui si trovavano, mentre Giovanni bisbigliava agli altri: «Questa mi sembra più fuori di un vaso di gerani. Concediamole due minuti al massimo, e poi filiamocela, intesi?»

    I gemelli si incamminarono cauti dietro a Nashira, seguiti da Elena, che continuava a tenere per mano Nicolò, senza aver capito come avrebbe potuto fare a filarsela. Nashira spalancò senza sforzo apparente la pesante porta, introducendoli in un lunghissimo e tortuoso corridoio, sul quale si affacciava un numero infinito di altre enormi porte, tutte identiche a quella che avevano appena varcato. Il corridoio era illuminato anche se, in apparenza, non vi era alcuna fonte di luce. Non era possibile scorgere il soffitto, ma si aveva la sensazione che dovesse essere altissimo. Le pareti erano del tutto spoglie e simili a quelle dell’ambiente da cui provenivano.

    «Non che sia una meraviglia, qua dentro», osservò rabbrividendo Federico, dopo aver rivolto una rapida occhiata intorno. Ma Nashira prontamente rispose: «Ancora un attimo di pazienza e usciremo dal corridoio di intercomunicazione.» Ciò detto, si diresse senza alcuna incertezza verso una delle porte che, al pari delle altre, non recava alcuna targhetta né segno distintivo. Ai cinque parve impossibile che, tra tutte quelle porte ugualmente anonime, potesse aver scelto quella giusta, ma evidentemente così doveva essere perché, scambiato un cenno d’intesa con chi si trovava dall’altra parte, Nashira si volse verso di loro e li invitò a varcare la soglia. Quando la porta si chiuse alle loro spalle, l’ambiente prese forma, in tutta la sua spettacolarità. Pareva che qualcuno si fosse divertito ad allestire il proprio studio in mezzo a uno sconfinato prato in fiore. Al centro si trovava un’enorme e sobria scrivania in legno massiccio e vi erano diverse sedie con alti schienali tutt’intorno a essa, tra cui alcune dalla forma decisamente inusuale. Poco discosta, quella che sembrava una insolita ma comoda poltrona. Grossi pannelli verticali luminosi, recanti ogni sorta di formula e calcolo, come si addice alle lavagne degli scienziati, levitavano tutt’attorno in maniera caotica. Ma la cosa più incredibile era che i loro piedi sembravano poggiare sull’erba; alberi rigogliosi si scorgevano in lontananza e, alzando lo sguardo, ci si poteva perdere nell’azzurro terso del cielo. L’aria era fresca e fragrante, con un profumo appena percettibile di fiori freschi.

    «Non male, vero?» domandò compiaciuto qualcuno che, fino ad allora, non avevano notato. «Se avessi voluto, avrei potuto avere anche un ruscello con tante trote guizzanti, un laghetto con piccole onde che ne increspano la superficie e montagne dalle cime innevate… ma preferisco la sobrietà. E, soprattutto, niente gorgheggiare di uccelli o, peggio, frinire di grilli e cicale quando lavoro: disturbano la mia concentrazione. Dunque vediamo: Luca, Federico, Giovanni, Elena e, perbacco, c’è anche Nicolò. Inaspettatamente, oserei dire, ma comunque gradito. Bene, ce l’avete fatta, alla fine, a trovare la porta per giungere fino a noi. Sapevamo che, prima o poi, sarebbe successo. Avete impiegato un po’ più di tempo del previsto, per la verità, ma quello che conta è che adesso siate qui.»

    I cinque non avevano ancor aperto bocca, né mosso un muscolo. Come già aveva intuito Nashira, il timore dal quale erano attanagliati non riusciva a sopraffare completamente la loro curiosità. Titubavano tra il proposito di scappare via correndo a perdifiato e urlando di terrore, e quello di esplorare quel misterioso e affascinante luogo, soffermandosi a osservare ogni cosa e formulando mille domande. Nell’indecisione collettiva, non trovarono niente di meglio da fare che continuare a starsene fermi a osservare in silenzio, rimanendo guardinghi in trepida attesa, in muta contemplazione dell’individuo che aveva appena parlato.

    Questa volta si trattava di una figura maschile, peraltro non molto dissimile da Nashira. Solo poco più alto di lei, era vestito allo stesso modo, con una tunica bianca dalle maniche ampie e col cappuccio adagiato sulle spalle. I capelli, lunghi e lisci, erano però di un biancore luminoso, morbidi e setosi. Anche lui li teneva fermi con un laccio scuro passato sulla fronte e tutt’intorno al capo, chiuso con un nodo piano, ma le estremità del laccio erano corte e non arrivavano più giù del lobo dell’orecchio. E anche lui aveva una stellina lucente sulla gota. I lineamenti erano gradevoli, ma iniziavano a tradire i segni dell’età. Aveva una lunga barba bianca, morbida e setosa al pari dei capelli. Stava in silenzio, consapevole di essere l’oggetto della curiosità dei ragazzi e avvertendo su di sé i loro sguardi, ancorché preoccupato per la tensione palpabile che ancora percepiva.

    Dopo qualche istante riprese a parlare: «Il mio nome è Dheneb el Okab, ma voi potrete chiamarmi Dheneb. Il mio compito è farvi accomodare e sentire a vostro agio, come si conviene a un buon padrone di casa. Immagino che abbiate molte domande da rivolgermi, ma prima lasciate che sia io a fornirvi qualche parola di spiegazione. Io e tutto il Popolo dell’Aquila da tempo ormai viviamo qui, in una tasca spazio-temporale che i vostri simili non hanno ancora scoperto. Abbiamo seguito l’evoluzione della specie umana, le vostre invenzioni e le vostre scoperte per un ragionevole lasso di tempo, fino a quando abbiamo ritenuto che fossero maturati i tempi per interagire con voi. I Saggi, riuniti in Consiglio, stabilirono di aprire la porta di trasposizione nel vecchio rudere. Da allora, ogni tanto, a qualche umano, soprattutto a chi abita in prossimità di essa, è capitato di varcarla, proprio come è successo a voi. Nel vostro caso, abbiamo avuto qualche segnale premonitore, che ci ha fatto presagire la vostra visita, così ci siamo… per così dire... organizzati per accogliervi.»

    «Come sarebbe a dire, per accoglierci?»

    «Abbiamo fatto ciò che normalmente si conviene quando si attende un ospite gradito. Abbiamo predisposto un ambiente nel quale farvi accomodare, nella speranza che apprezziate il tempo trascorso con noi e che possiate provare il desiderio di tornare a trovarci al più presto.»

    «E quanto tempo dovremmo trascorrere, con voi?»

    «In quanto ospiti, siete liberi di decidere di andarvene quando lo desiderate.»

    «Non mi sento particolarmente libero di andarmene, in questo momento», bofonchiò Giovanni guardandosi intorno, in mezzo al prato che si estendeva a perdita d’occhio, senza più neppure la traccia della porta da cui erano entrati.

    «Ti assicuro invece che lo sei, Giovanni. Tuttavia devo ammettere che per noi avere degli ospiti di superficie è sempre un’esperienza emozionante, e non siamo mai disposti a rinunciarvi e a lasciarli andare via senza prima aver cercato di convincerli in tutti i modi ad approfittare della nostra ospitalità. Naturalmente a patto che superiate la prova preliminare... Se la supererete, la porta per voi sarà sempre aperta e potrete essere nostri ospiti ogni volta che vi farà piacere e per tutto il tempo che vorrete.»

    «Prova preliminare? Io non faccio nessuna prova preliminare e, anzi, me ne torno subito a casa», protestò vivacemente Luca.

    «Dove, tra l’altro, i nostri genitori saranno già in allarme e avranno allertato un mare di gente: saranno tutti alla nostra ricerca!» proseguì balbettando Federico, in un tono che voleva sembrare minatorio.

    «Ci saranno i pompieri, la polizia, i carabinieri, i vigili e anche la guardia medica pediatrica!» piagnucolò Nicolò, pensando di essere convincente.

    «Calmi, calmi, calmi. Non dovrete fare alcuna prova: nei nostri laboratori alcuni analisti hanno già sottoposto particelle prelevate dai vostri tessuti alla prova di cui parlavamo, mentre noi eravamo qui intenti a chiacchierare. Tra poco ce ne comunicheranno l’esito. In quanto all’allerta generale, lassù in superficie, state tranquilli: nella tasca in cui ci troviamo, il tempo scorre molto più lentamente rispetto alla superficie, e sono trascorsi solo pochi istanti da quando siete scomparsi dal rudere. Nessuno è in pena per voi, in questo momento!»

    «In pratica non abbiamo scelta: ci avete rapiti e sottoposti ai vostri stupidi esami, e dovremo stare qui fin quando non ci lascerete andare, mentre nessuno nemmeno si accorgerà che noi non siamo più a casa nostra!» protestò di nuovo Federico, con i pugni serrati più per la paura e lo sgomento che si stavano impadronendo di lui che per la rabbia che fingeva. Il suo cuore aveva ripreso a battere all’impazzata e la sua fronte si stava imperlando di sudore.

    «Calmi, vi imploro, restate calmi. Mi spiace davvero che vi siate spaventati ma, credetemi, non c’era altro sistema possibile per farvi giungere fino a noi. Guardatevi intorno: c’è forse qualcuno che sta tentando di farvi del male?» Il tono di Dheneb era ora caldo, appassionato e quasi supplichevole. «E non è spettacolare e meraviglioso quello che state sperimentando intorno a voi? Vi stiamo solo offrendo la nostra ospitalità: concedeteci quello che in superficie è solo qualche minuto del vostro tempo e, in cambio, vi spalancheremo il nostro mondo. Guardate l’erba, gli alberi, il ruscello. Toccateli, odorateli, saggiateli, assaporateli, viveteli sulla vostra pelle. Siamo costretti in una tasca spazio-temporale, eppure il nostro mondo non è forse vivo e vitale, fresco, nitido e vibrante quanto il vostro?»

    «Vuol dire che siamo sottoterra?» domandò sottovoce Nicolò a Elena, osservando a naso all’aria il cielo azzurro. «Non sarà mica matto, quello lì?»

    «Il nostro mondo non mancherà di emozionarvi e di stupirvi. Nuovi orizzonti si spalancheranno ai vostri occhi e, quando lo avrete inteso, con ansia e trepidazione attenderete di esplorarli!» continuò Dheneb accalorato. «Vi faremo visitare i nostri laboratori, vi guideremo alla scoperta prima dell’universo e poi di voi stessi, delle leggi fisiche generali e delle vostre particolari capacità innate, che spaziano ben oltre a quanto vi possiate immaginare. Vi condurremo attraverso esperienze indimenticabili, destinate a imprimersi indelebilmente nella vostra mente.»

    Ma Federico non era ancora convinto. «E voi cosa avreste da guadagnarci, in questa faccenda? Chi ve lo fa fare e perché lo volete fare? Volete usarci come cavie da laboratorio?»

    «Quelle che in superficie vengono chiamate cavie, caro Federico, non hanno la possibilità di decidere di evitare la sorte spesso triste che le attende. Qui, invece, non solo non abbiamo alcun bisogno di cavie, perché abbiamo appreso ormai già tutte le caratteristiche salienti della vostra specie, ma vi lasciamo liberi di scegliere il vostro destino. E,

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