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Una vita in puzzle
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E-book310 pagine3 ore

Una vita in puzzle

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Emma è una ragazza siciliana di ventisette anni. Ha un dottorato in fisica, delle importanti opportunità lavorative all'orizzonte e da sette anni porta avanti una relazione, spesso a distanza, con Carlo. La sua è una vita in apparenza ordinaria, se non fosse per il fatto che dal giorno della sua nascita riceve quotidianamente, da un mittente sconosciuto, un tassello di un puzzle misterioso. Quando un inaspettato e doloroso evento minaccia una delle persone a lei più care, sua madre, Emma inizia a mettere in dubbio tutto: la sua carriera, il rapporto con Carlo, il suo passato. L'incontro con un anziano artista, l'intuito della piccola Valentina, quello di un giovane falegname e il ritrovamento di vecchia corrispondenza epistolare la spingeranno a intraprendere un lungo viaggio in giro per l'Europa. Guidata dai suoi pezzi di puzzle rivivrà persone, luoghi, sensazioni e segreti legati al passato dei suoi genitori. Il viaggio, anche metaforico oltre che fisico, permetterà a Emma non solo di far luce su una verità familiare a lungo taciuta, ma anche di imparare a conoscersi e a dar voce ai propri sogni.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2022
ISBN9788832813807
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    Una vita in puzzle - Alessia Castellini

    1. Fine

    "Accadono cose che sono come domande.

    Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde".

    (Alessandro Baricco, Castelli di Rabbia)

    Avevo solo poche ore di vita il 19 luglio del 1992, quando ricevetti il mio primo regalo. Nulla di strano fin qui, dato che tutti i bambini ricevono almeno un dono il giorno in cui nascono, se non fosse che non so da chi provenga e che da quel giorno, ogni giorno, ricevo un pacchetto identico con un biglietto che dice Per Emma.

    Sono nata durante un temporale e nel bel mezzo di un blackout, in una clinica privata di Palermo che, per uno strano scherzo del destino, fa di nome Clinica Candela.

    Mia madre giunse da sola in ospedale poco dopo la rottura delle acque e gli specializzandi aggravarono la situazione decidendo di non credere che fosse in travaglio.

    «Troppo minuta per essere di nove mesi» dicevano.

    E così, tra un’ora notturna e l’altra, durante le quali temporeggiarono in preda al panico per i disagi dovuti al blackout, uno di loro decise finalmente di cedere alla richiesta di mia madre di chiamare il proprio ginecologo. Originario di Chania, una deliziosa città sull’isola di Creta, arrivò in clinica totalmente zuppo. E, per ironia della sorte, con l’aiuto di un fradicio dottor Pharos venni al mondo disidratata e al buio. L’essermi asciugata come un panno al sole nelle troppe ore di attesa tra la rottura delle acque e la mia nascita, aggiunto al fatto che ero un po’ mingherlina, mi tenne lontana dalla mamma per alcuni giorni destinandomi a un lettino termico.

    Quella stessa notte ebbe inizio la serie di eventi straordinari che avrebbe caratterizzato la mia vita.

    Quello fu l’inizio del mio strano modo di percepire il concetto di fine.

    Ognuno dei pacchetti ricevuti contiene un pezzo di puzzle. Nei primi mesi dopo il parto mia madre provò a incastrarli e, non riuscendo nell’impresa, decise di conservarli per me, per quando sarei stata in grado di comporlo.

    Dopo il mio terzo compleanno iniziò a comprarne alcuni per bambini, per farmi esercitare con qualcosa di semplice, e io imparai subito: ricostruire l’immagine sul coperchio della scatola era la mia piccola missione.

    Inizialmente non capivo se amassi di più il processo di risoluzione del puzzle o vederlo completo. La risposta arrivò un paio d’anni dopo.

    Ricordo ancora il giorno in cui mia madre mi diede il primo pacchetto speciale. Cercava di dissimulare il proprio nervosismo, compiendo gesti superflui. Io amavo osservarla e la sua ansia divenne la mia, prima ancora che il mio corpicino da bambina ne sapesse riconoscere i sintomi.

    «Ho un regalo per te, anzi ne ho più di uno».

    Ora che ci penso, benché lo avesse detto sorridendo, non ne fui felice. Giocava con le dita sul tavolo, ma il tavolo non giocava con lei. Ero perplessa.

    «Cosa c’è, tesoro? Non vuoi aprirlo?».

    Capii che stavo imparando una nuova forma di lettura. Chissà perché all’asilo insegnano a leggere le parole e non anche i gesti!

    Mi convinsi ad aprire il pacchetto, trovando un piccolo pezzo di puzzle che mi fece uno strano effetto, perché… era solo, privo di storia e di futuro. Sembrava non avere speranza di collocazione dato che non aveva compagni.

    Pur avendo soltanto cinque anni, mi sentii a disagio, perché annusavo interrogativi importanti e dubbi che non sapevo esprimere.

    «Dove sono gli altri pezzi?» chiesi, confusa.

    Mia madre si alzò, aprì il ripostiglio e mi fece vedere tutti i pacchetti che avevo ricevuto fino a quel momento: era il puzzle più grande che avessi mai visto.

    Aprendoli, misi a fuoco il problema: non avevo idea di quale sarebbe stata l’immagine da riprodurre, non trovavo pezzi di bordo e non finivo mai di scartare.

    «Me li hai dati tutti, mamy?».

    «Sì, Emma, sono tutti quelli che hai ricevuto fino a oggi, solo che forse ne mancano alcuni per poterlo completare».

    Questa frase per me non ebbe alcun senso e, anzi, mi irritò. Stavo iniziando a scontrarmi col fatto che tutto non implica completezza e, inoltre, era inconcepibile che quasi duemila pezzi di puzzle, un numero prossimo all’infinito per una bambina, costituissero un insieme incompleto. Quanto si può mai aggiungere a un numero così grande?

    «Vedrai che domani ne riceverai un altro, tesoro».

    Così compresi anche che il tutto di oggi può essere solo una parte del tutto di domani.

    «Quindi sono tutti oggi e saranno tutti più uno domani». Ero davvero confusa. «E quando potrò iniziarlo, allora?».

    «Anche adesso. Sono davvero tanti pezzi però e non devi scoraggiarti. Posso aiutarti, se vuoi».

    Che senso aveva farlo se non potevo finirlo? Provai a spiegare questo concetto a mia madre che, dopo qualche momento di silenzio, mi rispose così:

    «Non serve avere tutti i pezzi per iniziare».

    Ma io non iniziai. Continuai a riflettere su questa storia, per quanto possa fare una bambina di cinque anni. Cominciai a cercare la fine di ciò che avevo attorno, partendo dalle videocassette della Disney regalatemi dalla mamma. Inserii Il re leone nel lettore vhs e mi assicurai che l’avanzamento veloce del nastro si arrestasse. Provai con tutte le altre che avevamo in casa e con alcune, dopo averlo fatto, tentai anche di riavvolgere di poco il nastro, scoprendo che a volte finivano con scene inedite che non avevo mai visto. Questa cosa mi piacque molto, perché mi regalava non solo una fine, ma anche qualcosa di inaspettato.

    Dopo aver terminato con le videocassette, passai ai libri, aprendoli e andando subito all’ultima pagina. La prima volta lo feci molto lentamente, temendo di trovare una frase lasciata a metà, qualcosa di incompiuto, ma mi tranquillizzai vedendo che tutti i libri, almeno nella mia libreria, finivano con un punto. Mi sembrarono quindi molto diversi da un puzzle, invece mi sbagliavo.

    Crebbi così con una sana curiosità verso questi doni e divenne naturale celarli al mondo perché sentivo dovesse essere un segreto tra me, la mamma e la vita.

    2. Finestra Mentale

    "Sai quanto coraggio richiede aspettare,

    continuare ad aspettare senza sapere?".

    (Massimo Bisotti, Il quadro mai dipinto)

    Adesso ho ventisette anni e continuo a fare quello strano gioco che facevo da bambina.

    Oggi sono a Parigi. Ho preso la metro verso le 09.30, linea 8, da Commerce a Saint-Sébastien Froissart, per trascorrere qualche ora nel caffè letterario Used Book Café. Ho sempre amato il delizioso connubio tra libri usati e caffè.

    Lo scaffale accanto al mio tavolino fa parte della sezione Letteratura e contiene una versione francese del Signore degli anelli del 1972. Ho appena aperto il libro all’ultima pagina, come d’abitudine, dopo averlo fatto con altri testi, quando si avvicina un signore anziano, un po’ bohémien e col sorriso più giovane del mondo. È così ben amalgamato all’ambiente che potrebbe benissimo essere il protagonista di uno di questi libri usati, ingiallito e invecchiato come le pagine a lui dedicate. Per qualche assurdo istante ho come la sensazione di vederlo solo io mentre mi parla in francese con una voce antica.

    «Cosa cerchi alla fine di questi libri?».

    «Niente di particolare, controllo che finiscano».

    Annuisce e la fronte gli si corruga facendo apparire delle righe orizzontali tra le quali mi aspetterei quasi di leggere delle scritte che sanno di lui e della sua storia.

    «Chissà che qualche volta, invece, tu non ci trovi proprio l’inizio».

    La sua è una ventata d’aria fresca che non riconosco fino in fondo, di cui percepisco l’aroma, familiare ma non abbastanza da farmi sentire a mio agio. Non sono dell’umore giusto, forse, quindi ripongo con cura il libro di Tolkien sullo scaffale, salutandolo e portando con me le sue parole nella speranza di riuscire ad apprezzarle in seguito.

    Adesso ho soltanto bisogno di pensare a me e a Carlo.

    Stamattina, mentre mi rilassavo nel suo monolocale, oltre la mia Finestra Mentale ho scorto un faro. Ne ho intravisto soltanto la cima, in realtà, rossa e lucida su una base di pietra che sorreggeva la ringhiera di vedetta.

    La mia mente viaggia più di me e la valigia che porta con sé non si riempie mai del tutto, benché non sia stata svuotata in alcuna occasione. Oggi sembra abbia tirato fuori una versione un po’ sbiadita del faro della Jument, forse perché da un certo punto di vista la sua storia mi ricorda la mia con Carlo.

    Il faro venne edificato su richiesta di Charles Eugène Potron, il quale donò quattrocentomila franchi affinché venisse costruito, in non più di sette anni, proprio in quella parte di mondo, seppur fosse uno dei tratti più pericolosi del litorale atlantico. I lavori iniziarono nel 1904, tuttavia in quell’anno soltanto per una sessantina di ore fu possibile avvicinarsi allo scoglio per iniziare i lavori. Il progetto apparso sulla rivista Annales des Ponts et Chaussées mostra che dopo sette anni la struttura dell’intero faro era molto robusta, ma ancora priva di ancoraggi. Lo scoglio scelto, inoltre, presentava una cavità, la cui presenza fu trascurata per la troppa fretta di finire i lavori e che si trasformò prestissimo in una culla per onde di tempesta.

    Come dicevo, mentre mi rilassavo nel monolocale di Carlo, ho scorto dentro di me la cima di un faro. C’era nebbia attorno a essa, dunque non ne vedevo né il corpo né le fondamenta. E qualche lacrima fastidiosa annacquava il panorama rendendolo ancora più confuso.

    Cosa vorrebbe dire? Che il nostro progetto ha una falla? Che durerà più del dovuto? Siamo forse come il faro della Jument?

    Costruiti in sette anni, con un’impalcatura robusta ma senza ancoraggio e con Parigi come cavità sottostante sottovalutata.

    Una storia d’amore a distanza.

    Adesso che ci penso, vorrei che fosse una storia d’amore di stanza. Un po’ come quando si dice che una persona è di casa: si intende che è parte della famiglia. Di stanza è ancora più intimo, perché è uno spazio più ristretto, è un nucleo più caldo. E per ora la nostra storia lo è, ma soltanto per qualche altro giorno.

    Sì, deve essere proprio il faro della Jument, quello che la mia mente mi ha mostrato.

    Procedo in balia di queste riflessioni quando, arrivata davanti alla porta del monolocale, vedo il mio pacchetto quotidiano, con il pezzo di puzzle del giorno, che riesce a trovarmi ovunque io sia. Eppure mi blocco, perché per la prima volta, dopo ventisette anni, il pacchetto è diverso dai precedenti.

    3. Indugio

    "Ci fu un attimo di quelli in cui la vita pare sospesa

    e il tempo prendersi una pausa".

    (Giorgio Faletti, Fuori da un evidente destino)

    Sono al confine tra l’esterno e l’interno del monolocale, mentre il pacchetto si trova in Indugio, quell’antro di vita in cui si esiste ma nel quale si è niente o nessuno ancora per un po’. Fremo all’idea di aprirlo, eppure assecondo la tentazione di aspettare perché ritengo che per dargli valore mi serva una serenità che al momento non possiedo.

    Negli ultimi anni ho iniziato a credere che ogni svolta importante, attesa o meno, vada vissuta con autocontrollo, altrimenti la si manca e la si becca in seguito con umore spazientito. Come quando si perde l’uscita giusta a una rotonda e si è costretti a rifare il giro: finisce che la si centra, sì, ma un po’ più irritati. Tuttavia questa razionalità non innata a volte mi toglie energie e stride con la mia indole emotiva e istintiva.

    La mia Finestra Mentale continua a mostrarmi il faro della Jument e, pur avvertendo la rilevanza del momento e del nuovo pacchetto, non riesco a estrarli dallo sfondo. La novità, che giace tra le mie mani, mi sembra accessibile soltanto attraverso un binocolo, come se in realtà fosse lontana. Chissà quanta vita importante rimandiamo perché troppo presi da altro.

    Oggi è una giornata difficile per me. Lo era già qualche ora fa, quando riflettevo sulle implicazioni future di un mio possibile trasferimento a Parigi. Ed è ancora più difficile adesso che ho davanti un probabile biglietto di sola andata verso la soluzione di un vecchio mistero. Storia e avvenire che lottano separati da un presente in impasse.

    L’agitazione annebbia i miei pensieri, così mi distendo per qualche minuto sul letto, accarezzando il rinoceronte che ho regalato a Carlo per il suo compleanno e che gli tiene compagnia quando siamo distanti. La luce del faro fuori dalla Finestra mi colpisce a intermittenza in pieno viso a ogni giro di trecentosessanta gradi e, per evitarla, credo di aver nuovamente bisogno di uscire. Nell’andare verso la porta d’ingresso, il pavimento in legno scricchiola più del solito, in un modo che mi fa venire voglia di volare.

    Attraverso pensierosa Rue des Entrepreneurs senza sapere dove sto andando, come da molto tempo a questa parte in diversi ambiti della mia vita. La mia inguaribile tendenza a voler finire ciò che inizio mi impedisce di chiedermi se continuare ne valga la pena. E così, ricordando a stento le ragioni che mi hanno spinto a iniziare, fatico ad arrestarmi, percorrendo di frequente strade magari sbagliate, in un ingiustificato vagabondaggio. Ho quasi sempre una meta, ma spesso mi ritrovo a non sapere spiegare perché sia proprio quella e non un’altra. Nel lavoro, nelle relazioni, nei sogni.

    All’improvviso una scritta cattura la mia attenzione.

    Virage.

    Inversione. È scritto su un’insegna antica, con caratteri in legno scuro al centro di una targa disomogenea più chiara. È il nome di quella che mi si presenta come una bottega d’altri tempi con una porta d’ingresso bassa tra due finestre con vetro spesso e opaco.

    Nell’osservare questo piccolo atelier una sorta di saggia brezza arcaica mi scuote l’anima, mi invita a entrare e io sento di non poter rifiutare. La prima stanza, circolare, è vuota: soltanto le finestre spezzano la monotonia creando con la luce delle piste aeree polverose che si intersecano. La polvere volteggia senza poggiarsi sul pavimento pulitissimo. Rimango qualche minuto a fissare affascinata quei giochi di luce e materia: sembra la versione macroscopica di come ho sempre immaginato, durante i miei studi, le cavità che si usano in fisica per confinare il campo elettromagnetico e sfruttare le sue interazioni con gli atomi.

    Sono trascorsi alcuni minuti ingialliti, durante i quali sento quasi di star volteggiando anch’io, quando la voce di un uomo giunge dal retro di una porta socchiusa, sul fondo della camera.

    «Ancora qualche passo avanti, mia cara».

    E le sue parole mi trasportano da lui.

    Arrivata davanti alla porta, la apro e scorgo una rampa di scale terminante su un piccolo pianerottolo. Su ogni scalino c’è un oggetto: un telecomando, una scatola di pennelli, una macchina fotografica analogica Yashica 108 multiprogram, pile di libri, alcune canne da pesca, una scatola aperta di galettes sablées posta accanto a dei cuscini ricoperti di briciole. Sulle pareti e su alcune mensole, c’è in vendita sempre lo stesso soggetto, a volte dipinto, altre fotografato, altre ancora scolpito.

    Percorro la rampa, lentamente, cercando di capire cosa sia il soggetto più volte ripetuto. Giungo sul pianerottolo, su cui si trova una poltrona con un rivestimento a scacchi rossi e verdi. Un paio di vecchie pantofole grigie sono poste davanti a essa, sotto a un tavolino circolare che intralcia il viaggio verso la seconda rampa di scale che percorro. Sul secondo pianerottolo noto un letto a una piazza, disfatto. Accanto, l’ingresso su una camera. Vuota anch’essa e al buio.

    Un uomo, che mi ricorda davvero tanto l’anziano incontrato solo qualche ora fa al caffè letterario, mi raggiunge dal piano superiore e mi osserva. Ha capelli bianchi e ondulati che spuntano da una coppola marrone, e i suoi occhi cerulei mi sorridono con fare stanco.

    «Non capirò mai perché la gente non attraversi la stanza all’ingresso».

    «Forse perché in genere quando si entra in un negozio ci si aspetta di trovare subito qualcosa».

    «Plausibile. Tutta colpa della fretta». Si stropiccia gli occhi, come se si fosse appena svegliato, nonostante sia io a percepire una strana sensazione di alba anticipata.

    «Le ha volutamente lasciate vuote?» dico, indicando le due stanze.

    «Ma non sono vuote!».

    Pensierosa, continuo il tour. «Perché rappresenta sempre lo stesso soggetto?».

    Mi scruta, come se non avesse colto ciò che ho detto. «Di cosa parli?».

    «Delle sue opere». Guardo la parete. «Come mai non espone altro?».

    «Continuo a non capire…». Sembra davvero sorpreso. «Alcune sono foto, altre disegni, altre ancora miniature…».

    «Cambiano i materiali non il soggetto» ribatto.

    «E pensi ci sia differenza tra le due cose?».

    In questa domanda colgo forse l’origine del velo di stanchezza che ha sul volto: deve servire molta energia per vedere come diverso qualcosa che osservi a lungo. O è la mia, la stanchezza che sento?

    Accetto il suo invito ad acquistare tre miniature in legno, nonostante la mia perplessità dovuta al fatto che ai miei occhi sono identiche, sia per materiale sia per soggetto. Prima che io vada, mi dà uno dei suoi biglietti da visita.

    «Lei abita sulla scala interna dell’edificio?».

    «Ci vivo, sì».

    «Lascia le stanze vuote e vive sulla scala, quindi». Lo dico annuendo, cercando così di renderlo reale e sensato e di celare la mia titubanza.

    L’uomo conferma mentre scrolla le spalle. «La gente non ha mai smesso di farmi notare che faccio arte senza proporzioni. Ho pensato fosse divertente rispondere vivendoci io, in scala». Poi indica il sacchetto con i miei acquisti. «Osservali, a lungo se necessario. Finirai col vederle, le differenze».

    Esco dal negozio, stanca, e mi incammino verso Indugio. Infine, apro il mio pacchetto quotidiano e… rimango spiazzata.

    4. Collisione

    "Realizzare la propria Leggenda Personale

    è il solo dovere degli uomini.

    Tutto è una sola cosa.

    E quando desideri qualcosa,

    tutto l’universo cospira

    affinché tu realizzi il tuo desiderio".

    (Paulo Coelho, L’Alchimista)

    Non uno, bensì due.

    Il pacchetto quotidiano per la prima volta contiene due tasselli di puzzle. Perché? Cosa è cambiato? A prima vista sembrano identici, ma osservandoli con più attenzione noto che uno dei due ha gli spigoli più smussati. È forse un modo con cui il mio mittente misterioso vuole sottolineare che la mia vita è a un bivio importante?

    Li stringo tra le mani, anelando un qualsiasi segnale nascosto che possa alleviare l’insinuarsi beffardo di una forte delusione. Tuttavia devo arrendermi. Scatolina diversa, contenuto diverso, eppure tutto ugualmente oscuro.

    La svolta che tanto aspettavo non sembra palesarsi, e io non posso fare a meno di riflettere sulla ragione per cui ho tanta voglia di un cambiamento: sono infelice. Le strade lavorative che ho davanti e che sono legate ai miei studi mi spaventano, perché mi prospettano una vita che in fondo non voglio più, e la relazione con Carlo ha un futuro troppo incerto, nonostante l’amore che ci lega da anni. Ho perso la mia grinta in ogni ambito e mi sono spenta.

    Sto per inserire la chiave nella serratura, quando Carlo apre la porta sorridendomi e allungando la mano per tirarmi a sé. Mi stringe annusandomi i capelli e chiudo gli occhi, respirando con lui.

    «Mi sei mancata».

    «Anche tu».

    Entro in camera da letto e Carlo si siede accanto a me, con la delicatezza delle piccole onde a riva quando il mare è tranquillo e con la loro stessa piacevole freschezza nelle sere d’estate. Mi sembra consapevole di ciò che mi tormenta. Ma di fronte a certe emozioni dolorose procede con la stessa cautela razionale con cui scrive i propri articoli scientifici, e tace.

    Sento odore di bruciato provenire dalla cucina e accenno un sorriso: i suoi esperimenti culinari falliscono sempre. Per quanto gli si sottolinei l’importanza di cucinare con piacere qualcosa per se stessi, soprattutto quando si vive da soli, si ostina a voler fare tra i fornelli meno dello stretto necessario.

    Prima di iniziare a parlare osservo i suoi occhi marroni e caldi come la terra d’estate. Occhi troppo distratti dal lavoro e un po’ spenti a causa della distanza che lo separa da me, dagli amici e dalla famiglia.

    «Sono a

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