Assunta nella scuola delle meraviglie
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Anteprima del libro
Assunta nella scuola delle meraviglie - Anna Maria Miccoli
MERAVIGLIE
I
La professoressa Assunta Novella scese dal pullman con un saltello da ranocchia e per un pelo non incespicò, sbilanciata dalla sua paffuta tracolla.
Si avviò rasentando il muro di cinta, col capo flesso di lato e gli occhietti malfermi che inseguivano le fughe del selciato.
Piccola e fina, e tutta nera, tanto da sembrare un tronchetto di liquirizia: cappotto lungo e scuro in lana cotta annodato in vita, sciarpa bouclé color antracite girata tre volte attorno al collo, lugubri scarpe appuntite con fibbia.
La lunga capigliatura vagamente brizzolata e rarefatta conferiva alla mesta figura l’aria di una donna che sebbene giovane avesse accelerato verso la vecchiezza.
Svoltò a destra e si trovò sopra un largo stradone sterrato che, spaccando in due l’aperta campagna, correva dritto verso il mastodontico complesso scolastico.
Impressionata dalla vastità della struttura futuristica, si fermò di colpo e la borsa le scivolò dalla spalla scoliotica aprendosi e rigurgitando una inverosimile quantità di fogli.
Assunta li fissò pietrificata; non sapeva se piegarsi a raccoglierli o riportare lo sguardo sul grandioso edificio che giaceva in mezzo a uliveti e vigneti come un impressionante gigante disteso nell’erba.
Lo stupore ebbe il sopravvento e la giovane docente rimase ritta a fissare il capolavoro geometrico: un susseguirsi di cubi sormontati da altri cubi sormontati a loro volta da semisfere e tetti piramidali.
Non aveva mai visto una cosa del genere, neppure nei film di fantascienza; e pensare che vi sarebbe entrata di lì a poco, e non come semplice visitatrice ma niente poco di meno che come docente.
Gonfiò il petto ossuto inspirando l’alito emanato dal mostro architettonico nelle cui viscere venivano plasmate le menti rozze di centinaia di tenere creature. Non badò alle folate che, sopraggiunte dai campi vicini, si divertivano a stuzzicare i fogli di carta sparpagliati per terra, ora tirandoli su su nel cielo facendoli piroettare, ora dondolandoli verso il basso, e poi di nuovo in alto e in basso, e sopra i rami e dentro l’erba.
Oh, no! … I miei appunti!
esclamò la donnina facendosi più corta nel tentativo di acchiappare le pagine sbarazzine che finalmente libere filavano in ogni direzione.
Corse accovacciata che pareva una gallina inseguita dal cane del fattore ma le carte correvano più di lei; sostavano ammiccanti a ridosso del muricciolo e subito saettavano nel cielo come aquiloni.
Dio mio! Come farò a riprenderle!
frignò Assunta sbirciando l’orologio. Sarebbe arrivata in ritardo, e proprio nel suo primo giorno di lavoro!
Singhiozzò, e giù copiose lacrime che le rigarono il viso incipriato gonfiandole la punta del naso e il labbro.
Il cuore le fischiò negli orecchi e la vista, traballando, le distorse ogni cosa; si trovò in una realtà increspata dall’angoscia e dal timore di non farcela ad arrivare in tempo per la sua prima lezione.
Si lanciò sui polinomi che salterellando sotto il maestrale si sbrogliavano in minuscoli, quasi invisibili, monomi; acchiappò i teoremi di Pitagora e di Euclide ma non ce la fece ad afferrare quello di Talete.
Nella corsa, la sciarpa bouclé le si srotolò allungandosi e finendo impigliata in un cespuglio di rosa spina dove giacevano trafitti i logaritmi di Nepero.
Non c’era tempo da perdere: preferì recuperare questi e, pur se a malincuore, abbandonare la sciarpa, ultimo regalo del suo fidanzato prima che si sposasse … con la badante della nonna!
Quando ebbe finito di rastrellare tutti gli appunti di matematica, si tirò su con la schiena e si guardò intorno. Per poco non stecchiva: nelle campagne confinanti, al di là della recinzione, si stendevano centinaia di altre pagine palpitanti.
Erano gli appunti di didattica, frutto di migliaia di ore di formazione, specializzazioni, abilitazioni: un’ immane raccolta di concetti diabolicamente lambiccati e francamente inservibili.
Le erano costati anni di studio supportati da innumerevoli visite tricologiche per bloccarle la caduta dei capelli e da costose sedute psicoanalitiche per ritrovare la ragione smarritasi nei meandri di una pedagogia retorica che aveva dovuto ingollare per ottenere il posto di insegnante.
Quando i soloni dell’istruzione, con le loro teorie sconclusionate, le avevano frantumato il suo ideale di scuola semplice e ordinata, luogo odoroso di carta e di inchiostro, lei si era ammalata di solitudine; ne era uscita a fatica dopo molto tempo, e con un nuovo proposito: quello di lasciar perdere la scuola e continuare invece il lavoro del padre.
Ebbene, se costui fosse stato un impiegato postale o un bancario, l’intento della giovane non sarebbe stato poi così balzano, ma, ahimè, l’uomo, custode della masseria Dellepetrose di proprietà del barone Barboscia, si occupava dell’allevamento del gregge, un centinaio, o poco più, di pecore e capre, sempre di proprietà del barone. In poche parole, il padre di Assunta faceva il pecoraio.
Lasciare che la propria e unica figliola usasse una laurea in matematica semplicemente per contare le pecore, questo proprio non era andato giù alla madre della dottoressa, la quale minacciò lo sciopero della fame e quello della mungitura delle capre per indurre la figlia a non desistere dall’intento di diventare docente.
A malincuore, Assunta tornò a sottoporsi all’indottrinamento di farraginose teorie didattiche spinta da un senso di compassione, non tanto per la madre che, essendo di buona stazza, avrebbe fatto bene a stare lontana dal cibo, quanto per la sofferenza a cui sarebbero andate incontro le ignare caprette.
Per il loro bene ella aveva accettato di essere addestrata dai detentori dello scibile scolastico i quali, come se non bastasse,dopo averla subissata di paroloni le avevano anche consegnato una quantità imprecisata di scartoffie che ora si trovavano dispiegate nei campi, tra tralci di vite e rami di ulivi.
Assunta tornò a spiare le lancette dell’orologio. Era in ritardo di quindici minuti. Trasalì, e le viscere le tremarono risonando fino alle ginocchia.
Seguì una scarica di adrenalina che la tirò su, facendola zompare al di là del recinto con una falcata troppo ampia per il suo cappottino troppo lungo.
Capitombolò su una pianta di cappero e la fibbia della scarpa destra si staccò ficcandosi nel cespuglio.
La tapina sbarrò gli occhi nel buio dell’arbusto ma dell’orpello non v’era traccia; vi introdusse il braccio annaspando con la mano, cercò con le dita l’oggetto di metallo andando sempre più dentro persino con la spalla, ma nulla da fare.
Alla fine crollò. Non resse più alla tensione ed esplose in un pianto singhiozzante accasciandosi sul cappero con le gambe divaricate e le braccia ciondoloni.
Signorina! Signorina!
disse una voce roca, proprio di fianco a lei.
Un uomo era spuntato dal vigneto e la fissava sconcertato, e aveva ragione di esserlo, dato che tra i cespugli gli capitava di trovare solitamente cani, ricci, topi, ogni tanto qualche volpe, ma mai una donna in lacrime.
Assunta smise di piagnucolare.
Il pensiero (o forse intima illusione) che potesse essere un giovanotto accorso a rincuorarla, sfumò miseramente quando lo vide: un uomo di mezza età, rachitico e con gli occhi gialli; si sarebbe potuto scambiare per una foglia o una zolla di terra tanto era scuro e secco.
Signorina, che t’è successo? Sei caduta? … Ti senti male?
insistette.
Assunta scrollò la testa e riprese a singhiozzare.
Dio santo! Tirati fuori di là … Ti aiuto io. Ecco … dammi la mano
fece