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Bellezza terminale
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E-book179 pagine2 ore

Bellezza terminale

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Info su questo ebook

Fra eros e morte si muove il personaggio di questo romanzo, che va in Brasile per trovare assieme a una impossibile cura miracolosa per il suo male allo stato terminale, antichi ricordi e speranze. Qui sarà assorbito da un contraddittorio paesaggio naturale ed umano, nel quale la bellezza si confonde con la perenne ambiguità di un mondo che presenta aspetti di elementare crudeltà.
LinguaItaliano
EditoreLogus
Data di uscita30 set 2013
ISBN9788898062386
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    Anteprima del libro

    Bellezza terminale - Luciano Arcella

    BELLEZZA TERMINALE

    Versione elettronica Ia edizione, 2013

    © Logus mondi interattivi 2013

    Autore:

    Luciano Arcella

    Logus mondi interattivi edizioni

    eBook Design e cover: Pier Luigi Lai

    ISBN 9 7888980 62386

    Contatti:

    Edizioni Logus mondi interattivi

    info@logus.it

    www.logus.it

    Catalogo delle nostre edizioni

    In copertina: un murale della favela di Rio de Janeiro

    LUCIANO ARCELLA

    BELLEZZA TERMINALE

    EDIZIONI

    Non l’avrei immaginato di tornarci in questo modo nella mia terra felice, costruita da sogni piacevolmente irrealizzabili, da progetti agevolmente dimenticati. Il mio Brasile. Anche se non quello di favelas musicali e di dolci tristezze da mercoledì delle ceneri, con un Carnevale consumato lungo la risacca che contende alla riva la paccottiglia residuale della festa. Questo il Brasile per me, Andrea viaggiatore da giorni feriali, non lo è mai stato; concreto quasi sin dall’inizio, consapevolmente ambivalente, con ragionevoli passioni giustamente maturate se non consumate dal tempo. Tra queste considerazioni mi lascio distrarre il pensiero mentre mi cullano i toni monotoni dell’aereo in un viaggio consumato in un dormiveglia alcolico.

    È un ritorno inatteso dopo tanti anni, dopo averla messa accuratamente da parte l’originaria terra promessa, per una vita che non si sceglie, che irrefutabilmente ti accoglie indicandoti un tracciato dal quale, pur senza costringerti, non ti permette in effetti di allontanarti.

    Un’età socialmente giusta per sposarmi, subito dopo i trenta, una volta barattati quegli antichi propositi di un futuro gioiosamente indefinito con la moderata emozione di un incontro carico di destino e di quotidianità. Per entrare in quella che con estrema superficialità si è soliti chiamare una tranquilla vita in famiglia - moglie, una sola figlia. Solo superficialmente, perché la si vive sulla propria pelle la presuntuosa banalità di questa definizione: l’ansia per una febbre troppo alta della bambina, la sostituzione dell’emozione con l’erotismo sbiadito dell’eccessiva condivisione, la dovuta osservanza delle complicate regole dell’equilibrio familiare.

    Di tanto in tanto, pudicamente, nascosto dagli altri e da me, ho provato rimpianti, per poi confutare agevolmente la retorica della libertà con la presuntuosa consapevolezza eroica di chi non abbandona la propria posizione dinanzi al rischio della battaglia. A volte mi è stata sufficiente una musica, il ritmo di tamburi e il coro delle donne dal canto riflesso, per cogliere un segno di paura o d’ansia, ma il pianto accennato e nascosto è stato un dolce abbandono piuttosto che una rabbiosa protesta.

    L’ho conosciuto a sufficienza il paese; attorno ai venti il primo viaggio, dall’Amazzonia alla costa, giungendo dal nord, e poi ancora, almeno per un decennio, in cerca di terre innocenti, pur se la meta finale era sempre a sud, Rio. Alcuni incontri, alcuni amori. Nomi residui e volti non più definiti, senza specifici rimpianti, o forse uno, a pensarci almeno un secondo, comunque proprio quelli non vissuti. E lasciati consapevolmente con quell'unico viaggio di ritorno assieme alla decisione presa a cuor leggero, con ostentata spavalderia, di non tornarci più. Il destino ci sceglie, ma sta a noi fare della sua scelta il nostro desiderio più vivo - così avevo sempre pensato.

    Sensibile alle aspettative dell’emozionato turista, come di prammatica nelle ore diurne, l’aereo prima di atterrare volteggia sul panorama della città, esitando lungo la linea vaga che separa mare e spiaggia da un lastricato invadente, a sua volta assalito da una incontrollata vegetazione, minaccia incombente sulle faticose costruzioni umane. Per chi sta in basso il rombo dell’aereo è soffocato dal compatto brusio di una domenica d’estate; la sua sagoma sarebbe appena visibile a chi pensasse di volgere in alto gli occhi coperti da una mano a visiera, per distrarsi dagli orizzonti vicini delle onde, della sabbia, della gente immobile sulla spiaggia di Copacabana.

    È la Copacabana popolare, dove l’aria della domenica e gli oltre trenta gradi ti augurano, assieme alla propaganda di un ristorante popolarmente celebre, la tua giornata più gioiosa. Dove ti prende una rassegnata stanchezza dinanzi alla scena surreale dei giocatori di volley, di foot-volley, di racchettoni, nell’aria densa che rende miraggi le figure affaticate dei venditori ambulanti con le loro bibite diversamente colorate, uniformemente ghiacciate. Le offrono con moderata insistenza, con estrema gentilezza, ma senza umiliata soggezione.

    Sul bagnasciuga si corre, si corre lungo la striscia asfaltata che separa la zona mare da quella delle auto; si corre per essere in forma, per sedurre la vita con qualche chilo in meno, per ingannare il tempo fornendo un fisico atemporalmente giovane all’indiscreta aritmetica che si prende la briga non richiesta di quantificare il destino.

    Dalla magrezza assiduamente ricercata per confondere il passare degli anni, un tizio in costume corre a un ritmo accettabile, sotto quel rombo decrescente di un aereo che fornisce al turista l’antipasto delle gioie da vivere, da lì a poco. Misura il suo sforzo, almeno così pare a chi lo guarda dalla linea dei chioschi, al margine del lungomare; ma per chi gli fosse più vicino sarebbe evidente l’affanno di una pulsazione al limite, assieme alla volontà di continuare, di non darsi per vinto dinanzi all'evidenza anagrafica. Fa caldo, ma il sudore è ghiacciato, eppure occorre continuare, occorre ingannarlo il tempo, ingannare te stesso per fingerti amato da chi la gioventù l’ha adesso, sotto le unghie, e te la getta tra i piedi con la più sfrontata spavalderia della bellezza.

    Il passo diviene tuttavia progressivamente più pesante, il respiro non tiene dietro al ritmo del cuore, sì che le onde appaiono enormi e la sabbia tanto morbida da fare affondare corpo e pensiero. Sino a che, ma non ci vuole molto, il sole si riempie di macchie, piccole farfalle nere che vi giocano attorno, che vi cadono dentro bruciandosi, per formare altre chiazze più grandi e più nere.

    «E’ morto, è morto!» - è il grido che si leva chiaro dopo aver d’improvviso messo a tacere gli altri rumori, le altre presenze. Un bambino, correndo dietro al suo aquilone si è avvicinato al mutante che, con tutta l'incertezza della sua età, sta a testa in giù sulla riva, ad assaporare acqua e sabbia. Solo per poco il bambino resta immobile dinanzi al corpo; scena vuota, atonica, come una improvvisa interruzione di servizio sul canale mediatico del quotidiano. Ma uno scatto, un clic, e torna la vita, il rumore, il mare, la gente attorno, che chiede, che si preoccupa, che si impiccia, col simpatico amore di chi aggiungerà un poco di salutare tristezza alla sua domenica, accompagnata dalla radio a tutto volume che presto lascerà posto al sonnolento ritorno verso la periferia e la sera.

    L’ho vissuta in altri tempi questa scena e ora solo la immagino svolgersi al di sotto del mio aereo, che con la sua ombra copre morti e bambini, palloni e racchette, assieme a tutta la folla domenicale di questo primo pomeriggio che accompagna la gioia di una spiaggia chiara e di un cielo intenso, messaggeri fedeli d’una giornata felice.

    «Non così», mi ripeto, confermandomi la ridondante risposta del motivo che maledettamente fedele mi accompagna assieme a un aereo che indugia a metà cielo prima di appollaiarsi sulla striscia d’asfalto incisa nella terra dell’Isola do Governador, chiazza verde in un mare di greve petrolio. La decisione è stata improvvisa, e per questo motivata, giustificata al punto di non obbligarmi a escogitare scuse con gli altri né con me stesso. Con i miei maturi cinquant’anni gestiti con il dovuto coraggio per mantenere i giusti trentasette gradi dell’equilibrio familiare, ho ricevuto in dono quella notizia che noi, abitudinariamente sani, pensiamo sia appannaggio solo di quelli irrimediabilmente malati. Un nodulo piccolo ma consistente fra il petto e l’ascella, una di quelle cose che dovrebbero dissolversi così come sono comparse. Ma questo non si è dissolto, pur se a volte al tatto mi ha illuso di ridimensionarsi, di retrocedere per tornare nella giusta moralità dell’esistenza sufficiente.

    C’è stata la trafila d’obbligo, la diagnosi, seguita dalle piccole menzogne reciproche a fin di bene se non d’amore. Le cure, il lento ma determinato peggioramento, la inevitabile via in una incostante discesa, interrotta dall’improvvisa decisione: ribellarsi, riprendersi il proprio destino, fare qualcosa piuttosto che rimanere in attesa, ben oltre il possibile.

    Ho scelto così di percorrere la via dell’azzardo, dietro una ingiustificata speranza di salute, o di un funzionale autoinganno, o forse ancora spinto dal desiderio i realizzare finalmente quella fuga che forse una volta avevo osato immaginare gridando dietro il vetro d’inverno del mio studio la mia serenità disperata, lanciata ben oltre una ragionevole fantasia. Che sia il ritorno al passato la via giusta per la riconquista della salute?

    Alla vera partenza, ben più prosaica, mi hanno congedato una moglie sollecita e una giovane figlia giustamente divisa tra l’affanno del momento e il desiderio di fare in fretta per tornare presto ai piacevoli impegni della sua giustamente emozionata giovinezza.

    Distratto dal paesaggio che osservo con l’ansia dell’incontro con un antico amore, mi tengo stretto al sedile nella fase di atterraggio, serbando una piccola tensione, un percettibile timore, inspiegabile dinanzi a una scadenza chiaramente annunciata.

    La serie degli eventi routinari e inevitabili oscura questi ed altri pensieri: i bagagli e il resto, le solite voci ridicolmente erotiche di un aeroporto che vuole annunciarti una vacanza da sogno, mi accompagnano all’uscita, confuso, stordito dai liquori gratis e dalla notte appena trascorsa nel dormiveglia del comfort aerospaziale. Il taxi raggiunto a tentoni, sforzandomi di comunicare l’indirizzo richiesto senza preamboli, dinanzi allo sguardo sospettoso di un autista che ostenta il sorriso sicuro di chi è certo di conoscere il mondo molto più di te.

    «Bella Rio, è la prima volta?». L’esordio tipico, ma poi nient’altro; forse sospetta che il turismo per me sia solo una scusa; temo che possa capire che in realtà si tratta di un altro viaggio.

    «Sono Hermes, autista da tanti anni, autista e guida» - mentre mi porge il biglietto da visita nella versione economica di un foglietto in stampa da fotocopia - «tu mi chiami e io corro per portarti dovunque tu vuoi, purché sulla terra, naturalmente».

    Con poca voglia di parlare, mi limito a un cenno accompagnato da un sorriso: non ho intenzione di essere scortese pur se non mi sento in vena di confidenze. Veloce mi scorre dinanzi il paesaggio urbano, nel quale con ansia e con timore cerco di individuare i segni del passato, degli antichi soggiorni, per connetterli ad altre vicende e ad altre emozioni. Mentre la realtà presente si ripropone immediatamente attraverso l’insistenza di Hermes, che non demorde, che con ostinazione getta le basi per una ineludibile conversazione nella quale la provenienza dell’ospite ha un ruolo fondamentale, non meno del suo progetto immediato.

    «Sì, una breve vacanza, ho degli amici …»

    «Soprattutto qualche amica» incalza la guida tuttofare, ora apparentemente soddisfatta nella convinzione di aver toccato un tasto sensibile. Situazione che mi fa sentire obbligato a un sorriso d’intesa, per non deluderlo e per non cedere all’inquietante impulso di vomitargli addosso tutta la mia realtà, come si riesce a fare soltanto con un estraneo. Ma la versione più comoda, almeno per ora, è quella di un evaso dall’inverno europeo col suo quotidiano grigiore, venuto a scoprire i paradisi tropicali.

    Lo sguardo accondiscendente di Hermes mostra di non averla bevuta, e tanto per far capire che non è uno sprovveduto: «Ma tu parli portoghese, il nostro brasiliano, devi conoscerlo bene questo paese!»

    «Una volta, tanti anni fa, ero studente, avevo nostalgia di tornarci. E poi le vecchie amiche, come tu dicevi»

    «Già, nostalgia, nostalgia di che? O di chi in particolare?», incalzando.

    Anche questa volta, privo della forza per inventarmi una storia adeguata, considero sufficiente ancora un sorriso, il più ammiccante possibile, che dovrebbe dire: una nostalgia bellissima, una di quelle dalla pelle abbronzata e dall’incommensurabile disponibilità. Peccato che il sorriso mi esca scarno, privo di calore e di tono, bugia priva di mordente.

    Dall’aeroporto, l’ex Galeão, l’attuale Tom Jobim, creatore della seducente bossa nova, guida delle immagini di un Orfeo negro con tutta la sua gioiosa disperazione da favela dei miracoli, per la città c’è una strada dritta, la linea rossa, che apre il cammino tra favelas reali, scarsamente colorate e per nulla poetiche. L’immensa pianura delle costruzioni incompiute della Maré, il quartiere di Penha e quello di Ramos, con la sua piscina popolare, e nel mucchio il famigerato Complexo do Alemão con una Striscia di Gaza che non si sente seconda in quanto ad eccidi, rispetto all’originale modello mediorientale.

    Rielaborando indecisi ricordi rimango in silenzio, sottraendomi allo sguardo curioso di Hermes, e isolandomi nei punti lontani del paesaggio, vallata di costruzioni approssimative dominate dalla collina della chiesa di Nostra Signora da Penha con la sua erta scalinata da penitenza e da promessa. Vorrei illudermi che mi possa offrire un appiglio. Isolamento breve, interrotto dal nazionalismo da ente turistico della guida, che con poca convinzione mi prospetta vaghe seduzioni della sua terra. So che non ci crede, o meglio non crede che io possa essere interessato, ma fedelmente si attiene alla sua recita, infantile cavallo di Troia per penetrare nel mio umore se non nella mia vita, da indagatore quotidiano dei suoi ospiti. Lo deve fare per abitudine, ma questa volta c’è qualcosa di diverso a incuriosirlo, visto che la favoletta della vacanza erotico-sentimentale lui non se l’è bevuta.

    «Ma sai chi è Hermes? Ne hai la minima idea?» Con questa irriguardosa domanda decido di contrattaccare precedendo le sue domande, per difesa o per vendetta.

    «Certo che lo so, un dio, un dio guida, anche se a quel tempo i taxi non c’erano. E poi lui aveva le ali e non doveva spendere soldi per la benzina. Ma tu che cerchi?»

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