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L'incubo di Borel
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E-book273 pagine3 ore

L'incubo di Borel

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L’incubo di Borel è un romanzo inedito di genere distopico, scritto da Raul Londra, fin dalle prime pagine Raul ci porta in Australia che è divenuto una prigione di contenimento a seguito dell’epidemia di un virus letale che ha dimezzato la popolazione. Qui conosciamo i quattro protagonisti Deliah, John, Richard e Tilda, tutte pedine in ruoli diversi sulla stessa scacchiera, tutti pronti a tutto pur di sopravvivere e di scappare, ma realmente da quale prigione?L’isola o se stessi? Cosa si è disposti a fare in nome del proprio ego? Siamo sicuri che il futuro raccontato con sapienza, realismo e crudeltà attraverso i protagonisti, sia davvero cosi distante da noi? In un crescendo di colpi di scena dove la vittima potrebbe divenire carnefice e dove ogni scelta cambierà inevitabilmente il corso degli eventi quattro vite si intrecceranno loro malgrado e la loro sorte sarà quella dell’intero pianeta. Tu da che parte stai? Autore: Raul Londra è nato a Giussano nel 1990. Medico Chirurgo dal 2017. Con la casa editrice Il Ciliegio Edizioni ha pubblicato le due antologie, Memorabilia – Storie di un mondo invisibile (2012) e Vindica te tibi – Quattro storie di vendetta (2014) e il romanzo noir Lupus et agnus (2013). Con l’editore Delos Digital, ha pubblicato un romanzo sentimentale-psicologico ambientato in Giappone, La bambola di pezza (2018). Ha ottenuto riconoscimenti per diversi racconti, in particolare Nostos facente parte dell’antologia Il magazzino dei mondi 3 (2016), a cura di Delos Books, Coloured Inferno 4° in classifica nella raccolta di racconti Esecranda 2017 (2017), Braccia di fuoco inserito con menzione speciale nell’antologia L’orrore di Lovecraft (2017) e Supernova, 4° classificato alla 50esima edizione del NeroPremio (2012). Nel frattempo, dopo la stesura di un primo romanzo ancora inedito, sta lavorando al secondo volume di una trilogia di genere techno-thriller e ad altri racconti. L’incubo di Borel edito da Nhope è il suo primo romanzo distopico.

N.B. **Il romanzo contiene scene destinate ad un pubblico adulto e consapevole.**
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita20 mag 2019
ISBN9788833662718
L'incubo di Borel

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    Anteprima del libro

    L'incubo di Borel - Raul Londra

    RINGRAZIAMENTI

    L’INCUBO DI BOREL

    di

    Raul Londra

    Collana Nhope

    Supponiamo di aver ammaestrato un milione di scimmie a battere a caso sulla tastiera di una macchina da scrivere e che, sotto la supervisione di caposquadra illetterati, queste scimmie dattilografe lavorino con ardore dieci ore al giorno su un milione di macchine da scrivere di vario tipo. I caposquadra assemblerebbero i fogli anneriti e li rilegherebbero in volumi. Un anno dopo, questi volumi racchiuderebbero la copia esatta dei libri di qualsiasi natura e di tutte le lingue conservati nelle più ricche biblioteche del mondo.

    [Meccanica statica e irreversibilità – Émile Borel]

    PREFAZIONE

    L’incubo di Borel è una storia cruda, realistica, che a prima vista potrebbe ricadere nel genere della fantascienza distopica – e le premesse ci sono tutte: una malattia letale che si propaga incontrollata, l’Australia trasformata in un enorme lazzaretto-prigione, armi e mezzi futuristici in dotazione alle forze armate – ma che a un’analisi più attenta rivela qualcosa di assolutamente reale e tangibile. Come la buona fantascienza, la traslazione delle vicende attuali in un futuro prossimo è solo un espediente letterario per analizzarle con più freddezza, per cullare il lettore nella falsa rassicurazione che tutto ciò sia il semplice parto di una mente feconda, prima di colpirlo con la presa di coscienza che invece è avvenuto e sta avvenendo – anche se in scala più ridotta, ma ciò non è certo una consolazione – qui e ora. Che sia fuori dall’uscio delle nostre case, alla periferia di qualche grande città o dall’altra parte del mondo poco importa, il punto è che coinvolge anche noi e non possiamo ignorarlo.

    Non ci sono eroi in questa storia, ma persone vere, e questo la rende tremendamente più realistica. Ognuna con le proprie debolezze, ossessioni e perversioni, ognuna vittima e carnefice allo stesso tempo, ognuna alle prese con le meschinità della propria esistenza, cerca disperatamente di restare a galla in un mondo che va alla deriva, ridotto a un brutale stato di natura in cui è la legge del più forte a farla da padrona.

    La vittima che diviene assassina, assapora l’inebriante potere di divenire carnefice dei propri oppressori e infine di nuovo vittima in un fatalistico cerchio che si chiude. Il grigio burocrate, inflessibile esecutore di ordini disumani la cui portata non può o non vuole capire fino in fondo – e qui è fin troppo evidente il richiamo ai tanti, troppi Eichmann della nostra storia recente – accecato come è dalla convinzione che un male compiuto per evitarne uno più grande non può corrispondere a un crimine, e che infine si trasforma in vittima dello stesso sistema di cui è ingranaggio. Il colonnello duro e inflessibile, custode di un segreto che potrebbe costargli la carriera e che ne tormenta l’animo indirizzando ogni sua azione, finché finalmente non troverà la pace nella vendetta a lungo inseguita. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, vittima di un antico rimorso, strappata alla leggera indifferenza che si gode nel mondo esterno dalle necessità imposte al suo ruolo e scaraventata nella realtà spietata e instabile del continente-prigione in cui i suoi fantasmi interiori si rinnovano e prendono più volte il sopravvento, messa di fronte a una scelta cruciale che potrebbe cambiare il destino dell’umanità. Due uomini e due donne, accostati in un gioco speculare di similitudini e contrapposizioni. Quattro personaggi le cui vite si intrecciano, si rincorrono, si incontrano e si scontrano, cambiando fatalmente direzione verso destini forse già scritti, tutti egualmente tragici. Ma si tratta di tragedie piccole, personali, meschine, racchiuse come sono nella sfera egoistica di ognuno di loro, legate eppure infinitamente lontane dalla tragedia più grande, che coinvolge l’intera umanità e resta seminascosta dietro l’orizzonte di ogni singola storia, pronta a esplodere in ogni momento ma mai realmente in primo piano. Se ne possono appena distinguere qua e là i lampi e intuirne l’enormità.

    Una tragedia, quella dei protagonisti, che non ha nulla di epico o universalizzante, come quelle degli eroi mitologici, perché non ci sono eroi qui. Forse il vero eroismo consiste nel riuscire a rimanere se stessi e a conservare la propria umanità, a dispetto dell’inferno che ci circonda.

    Ogni possibile slancio di compassione, ogni idealismo rimane fuori dalle mura che circondano questa prigione grande un intero continente, in quel mondo esterno che esiste ma non si vede mai, lontano e indifferente alle atrocità che si commettono nella terra australe, luogo idealmente incontaminato a cui i protagonisti ambiscono tornare per recuperare quella parvenza di normalità che è stata strappata loro, vittime di eventi incommensurabilmente più grandi. Un mondo, quello esterno, non certo idilliaco, sconvolto dalle guerre e dalle catastrofi che si sono scatenate in seguito alla pandemia, ma quando si è all’inferno la terra stessa, pur con i suoi difetti, non assomiglia forse al paradiso?

    E al centro c’è la malattia. Essa è presente nei volti e nelle storie dei personaggi, incancellabile marchio d’infamia che condanna alla deportazione. Essa è il primum movens da cui nasce l’intera vicenda, eppure resta sullo sfondo: per buona parte della storia non sappiamo neanche che nome abbia, come si trasmetta, quali siano i sintomi. Viene da chiedersi addirittura se esista davvero o non sia forse una copertura, un espediente machiavellico per coprire un complotto dagli obiettivi mostruosi e imperscrutabili. Possiamo solo intuire le caratteristiche del morbo dagli indizi sapientemente disseminati qua e là, prima che vengano rivelate, con una freddezza spaventosa che ne aumenta l’impatto, la reale natura e le cause che l’hanno scatenata.

    Lo stesso può dirsi della rivolta dei prigionieri che minaccia di annientare l’ordine costituito, spauracchio o speranza dei protagonisti, a seconda della loro posizione nello scacchiere della trama. Una ribellione confusa, in continua espansione, che potrebbe segnare un punto di svolta nelle storie dei protagonisti in positivo o in negativo. Ma anche qui non c’è nulla di eroico o idealistico, si tratta di una cruda lotta per la sopravvivenza, in cui le violenze gratuite non mancano ed è assente una distinzione netta tra buoni e cattivi, tra giusto e sbagliato, tutto sfuma in un grigiore indefinito.

    Non c’è dunque una morale a indirizzare le azioni dei protagonisti, ma semplici pulsioni animalesche quali la sopravvivenza, il sesso, la vendetta, più che comprensibile in una civiltà in disfacimento. Ma ognuna di queste azioni produce una cascata di conseguenze che si riflettono sull’intero impianto della trama, nell’esemplificazione della più elementare delle leggi fisiche: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Nessun gesto è isolato, nessun crimine rimane impunito e il vincitore di oggi può trasformarsi nello sconfitto di domani.

    Il finale è aperto, lasciando molti interrogativi in sospeso – la rivolta avrà successo? Quale decisione prenderà il Segretario dell’ONU? – e uno su tutti, rivolto a chi ha assistito dal lato opposto della pagina all’intera vicenda: l’umanità, questa umanità, è veramente degna di sopravvivere? Ai lettori l’ardua sentenza.

    Luca Mencarelli

    25 luglio 2018

    DELIAH BARRETT

    1.

    Mentre il sole tramontava raggiungendo lentamente la linea dell’orizzonte che separava l’oceano dal cielo e la brezza fresca della prima sera penetrava nell’abitacolo della Holden a trazione pneumatica, Deliah Barrett allungò il braccio fuori dal finestrino e lasciò che la resistenza dell’aria circondasse la mano e l’avambraccio facendoli quasi galleggiare nel vuoto. I suoi occhi erano persi sempre più lontano e il suo cervello instancabile era alla ricerca di un pensiero, un infinito peregrinare, quasi alla caccia di quell’idea distante che tuttavia non faceva che tormentarla.

    La Holden prendeva velocità sulla discesa della statale 26 che abbracciava quasi in un’ellisse Brighton, Clontarf dopo il ponte sulla baia, Kippa Ring più a nord, Rothwell a est e poi ridiscendeva verso sud-ovest in direzione di Mango Hill e Petrie, snodandosi quindi verso la statale 58 che imboccava per un breve tratto la M3 e infine si congiungeva con l’autostrada in direzione del centro di Brisbane.

    Presto la litoranea sarebbe stata solo un ricordo scolorito di fronte a una grande distesa di grigio apatico, quasi completamente abbandonato dal genere umano, fatta eccezione per alcune isole abitate più ci si avvicinava alla città.

    Dio, perché devo tornarci ancora? si chiese Deliah in un misto di frustrazione e timore. Devo andarmene da questo posto, rifletté mentre i suoi occhi incontravano il profilo un po’ troppo magro e spigoloso dell’uomo alla guida della Holden. Lui, sicuro di sé, procedeva affondando fino in fondo il piede sull’acceleratore, ben sapendo che la massima spinta pneumatica del motore Opel d’importazione americana marcato General Motors non l’avrebbe condotto oltre le settanta miglia orarie. Ogni tanto le scoccava un’occhiata piena di desiderio e sbirciava la camicetta chiara che traspariva sotto la giacca del tailleur aperta sul davanti. Lei non ci faceva troppo caso. Era abituata da tempo agli occhi indiscreti degli uomini che la guardavano e per sua sfortuna non tutti si erano limitati a guardare senza toccare.

    «Deliah», esordì l’uomo, «va tutto bene?»

    Lei continuò a scrutare il paesaggio fuori dal finestrino che cambiava mentre si allontanavano dalla litoranea. Non le importava granché di rispondergli. Preferiva rimanere in silenzio e sforzarsi di osservare con distacco un mondo che l’aveva ingoiata e poi risputata sotto forma di un essere ripugnante e infettivo che appestava le persone.

    Eppure non era sempre stato così. Ricordava di un passato in cui era bambina, quando ancora le cose giravano nel verso giusto e vivere aveva senso. Ora invece si trattava di scappare, almeno per lei e forse pochi altri che si trovavano lontani da Brisbane, lontani dall’Australia, lontani da quella prigione. Ma al massimo poteva trattarsi di una manciata di persone che si poteva contare sulle dita di una mano.

    «Deliah?» la chiamò ancora John.

    Lei si voltò con lentezza e mostrò un sorriso artificiale. «È tutto okay, sono solo stanca», mentì. «Ho mal di testa e penso che una bella dormita mi rimetterà in sesto.»

    «Vuoi qualcosa per il mal di testa?» domandò John, premuroso, posando la mano sinistra sudaticcia sulla coscia appena scoperta della donna, abbandonando il volante per un istante.

    Deliah scosse la testa.

    «Qualcosa per dormire?» insisté l’uomo un po’ deluso, che sicuramente sperava in un fuoriprogramma per la tarda serata. «Sai che sono ben fornito dall’infermeria e i medici non mancano mai di farmi un favore, ogni tanto. Ho di tutto in borsa. Serve sempre tenersi all’erta da questa parti.»

    Nuovamente la donna fece cenno di no con il capo. «Non ti preoccupare per me. Domattina starò meglio.»

    John Stark indugiò per qualche istante di troppo sul viso di Deliah lasciando addosso alla donna un lieve senso di disagio, quindi riprese a scrutare la strada deserta che conduceva verso il centro di Brisbane.

    «Dev’essere il ciclo», mentì nuovamente Deliah dopo un silenzio piuttosto lungo in cui aveva continuato a posare gli occhi sui tetti delle abitazioni abbandonate e su alcune carcasse di auto ancora in buono stato lungo le vie deserte. «È da un paio di giorni che mi sento un po’ giù.»

    Stark ridacchiò. «Non mi sembravi così giù ieri mattina, no? O vogliamo parlare del tuo numero da circo nel mio studio?»

    Deliah finse di ridere e stette al gioco. Sganciò una gomitata nelle costole all’uomo che alzò le braccia in segno di resa e riprese a ridere più saporitamente.

    «Mi fai impazzire, Deliah», fece lui. «Non so come ho fatto finora senza di te.»

    Lei lo guardò e sorrise di rimando. Osservò i cortissimi capelli castani che mascheravano una calvizie che aveva torturato Stark negli ultimi tempi, gli occhi marroni, il naso leggermente storto a causa di una rottura del setto da ragazzino, come le aveva spiegato. Il sorriso sghembo e i denti regolari e bianchi che comparivano sotto le labbra. John non era poi così male, dopotutto. Se solo fossero state entrambe due persone diverse che vivevano in un altro angolo di mondo, rifletté Deliah. Se solo ciò che appestava il mondo non fosse reale. Se solo la maledizione che pendeva sulla sua testa non fosse esistita.

    Già, si disse la donna. Se solo…

    «Sicura che non vuoi che resti?» chiese John.

    Deliah scosse il capo.

    «Preferirei rimanere qui con te a fare follie o anche solo… a guardarti riposare.»

    Una seconda volta lei fece no con la testa. «Vai alla tua cena tra pezzi grossi, Signor Supervisore. Fa’ bella figura e poi, forse domani…», quindi Deliah si nascose dietro la porta socchiudendo l’uscio di casa, mentre John Stark si riavviava verso la Holden ancora in moto, ferma lungo il marciapiede.

    «Ma da quanto tempo vivi in questo posto?» riprese l’uomo voltandosi indietro e ripercorrendo a ritroso un paio di passi. «Insomma, dovresti trovarti una sistemazione più carina», fece guardandosi attorno in quel quartiere così desolato, «e con più gente. Magari ti troveresti meglio, no?»

    «Come dalle tue parti?» ribatté Deliah con un sorriso ironico. «Sulla spiaggia?»

    «Perché? Che c’è che non va? Si sta bene!»

    Lei scosse il capo ridacchiando, quindi fece cenno a John di avviarsi e richiuse dietro di sé la porta di casa.

    John allora tornò all’auto, vi montò sopra e sparì in un istante abbandonando dietro di sé il sibilo d’aria compressa del motore.

    Finalmente Deliah fu sola. Dando le spalle alla porta, vi appoggiò la schiena e lentamente si lasciò scivolare fino a terra, le gambe divaricate, i piedi stretti nelle eleganti scarpe con il tacco di una decina abbondante di centimetri. Con un abile gioco di piedi se ne sbarazzò, gettandole lontano con la punta degli alluci, quindi si stiracchiò sentendo scricchiolare le giunture e infine osservò le unghie smaltate di rosso finché una forma di pelo grigio non comparve nel suo raggio d’azione e si avvicinò ronzando a bassa frequenza.

    «Che cosa c’è?» chiese la donna di fronte al gatto che ancora non aveva un nome dopo mesi di permanenza in quella casa. «Prova tu a portarti in giro su quegli strumenti di tortura», fece lei indicando le scarpe, ma la palla di pelo grigio si fermò a pochi centimetri dai suoi piedi e continuò a fissarla con sguardo imperturbabile, le pupille come due capocchie di spillo nero al centro degli occhi gialli.

    «Vuoi rifarti ancora sui miei stinchi?» insisté Deliah con un mezzo sorriso. No, in realtà Gatto, così lo chiamava lei, aveva smesso di torturarle le gambe da diverse settimane.

    Quando Deliah aveva occupato quell’abitazione abbandonata qualche mese prima trovandovi come unico inquilino Gatto, c’erano state diverse campagne di guerriglia ai danni dei suoi polpacci e delle sue caviglie, ma adesso Gatto sembrava averla presa in simpatia, visto che dei due era l’umana a portare a casa cibo facile da reperire anche per lui. Molto meglio dei topi che ormai cominciavano a scarseggiare.

    «Su, vieni qui a coccolarmi un po’», disse mostrando un sorriso dolce all’animale che tuttavia non si mosse e agitò la coda a destra e a sinistra tre o quattro volte. Lei continuò ad allungare le mani verso la palla di pelo, ma non ci fu niente da fare.

    «Facciamo gli schizzinosi, eh?» brontolò Deliah e mostrò la linguaccia all’animale che per tutta risposta si alzò sui garretti, le volse le terga e si allontanò sculettando amabilmente.

    Lei sbuffò, quindi si sollevò dal pavimento, si tolse il tailleur girando per casa in mutandine e camicetta e infine si affacciò alla portafinestra che dava su un’ampia distesa di un verde prato incolto. Il cielo ormai era buio e solo alcune luci dei lampioni illuminavano la strada.

    Improvvisamente quella sensazione ricominciò e il cuore di Deliah prese a battere un po’ più veloce. Non tanto quanto era successo le prime volte, tuttavia la donna non si sentiva tranquilla.

    «Succederà», disse a se stessa a mezza voce, con tono piatto, quasi rassegnato. «Presto o tardi loro arriveranno anche per me.» I suoi occhi indugiavano sul piccolo appezzamento verde che si faceva sempre più scuro, poi lo sguardo si aggrappava ai profili delle case e dei pochi palazzo nel tentativo di allontanarsi da lì. «Perché?» si chiese. «Che cos’ho fatto di male?»

    Niente, era la risposta. Lei non aveva fatto niente di male, ma tante, tantissime persone oltre l’oceano che da ogni lato circondava quell’isola-prigione non ne erano convinte e per paura lei e molti altri erano finiti in quel posto. Non John Stark, non i militari che pattugliavano il perimetro del continente. Nemmeno i pezzi grossi con cui John si sarebbe incontrato a cena quella sera per discutere di chissà cosa. Loro erano innocenti custodi di una prigione gigantesca, mentre gli altri, quelli che stavano dentro la prigione, oltre le mura massicce e costellate da torrette di osservazione lungo il decorso, loro erano la minaccia e meritavano di trovarsi dov’erano. Deliah… be’, lei era in una fase di transizione, ma lo sarebbe stata ancora per poco.

    «Me ne andrò presto», rifletté. «Loro non possono tenermi qui. Non possono più. Io sono libera.» Tuttavia, nel pronunciare quelle parole, udì un gemito prorompere nella notte e poi il pianto la travolse.

    Studiò il paesaggio irregolare oltre il vetro della portafinestra. Scosse il capo. «Non possono… Non devono prendermi. Devo andarmene da qui.» E mentre singhiozzava e indietreggiava come per paura che una mano nera emergesse dalle tenebre e l’afferrasse, qualcosa le scivolò tra le gambe.

    Deliah sobbalzò e lanciò un grido spaventato, ma poi abbassando gli occhi vide che si trattava della palla di pelo. «Gatto!» esclamò, spaventata. «T-ti sembra que-questo il modo?»

    Gli occhi dell’animale la scrutarono, immobili e sinistri, dopodiché quando Deliah si abbandonò sul divano, scossa da sussulti, Gatto le saltò in grembo accoccolandosi sulle cosce e lasciandosi accarezzare.

    «Fanculo John», sibilò rabbiosamente sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime. «Lui è un bastardo come tutti gli altri e merita di affrontare quello che è successo a me. Lo merita fino all’ultimo istante!»

    Si sentì invadere da una rabbia cieca, ma di nuovo parve quasi provare pena e amore, almeno un poco, per John Stark. No! sbottò una voce dentro di lei. È un bastardo come tutti gli altri! Se ne sta qui a fare ciò che vuole, senza preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni! Esegue ordini e non si pone problemi perché si crede al di sopra di tutta questa situazione, al di sopra del dannato sistema, ma ora… Sul viso di Deliah comparve un sorriso malvagio. Ora non lo è più, sibilò sinistramente la voce nella sua mente e le sue mani asciugarono le lacrime.

    «Non potrà più fare ciò che vuole», disse. «Adesso farà solo ciò che io desidero.»

    2.

    «Signorina», chiamò l’uomo in evidente sovrappeso che si trincerava dietro il bancone dell’ufficio dei nuovi arrivi. «Cerchi di non perdere questa lista e la porti immediatamente nello studio del supervisore affinché la verifichi quanto prima!»

    «Certo», replicò Deliah con deferenza, afferrando i fogli che le venivano affidati dal grassone con un leggero inchino. «Non si preoccupi. Il supervisore avrà questi documenti quanto prima», ripeté con fare civettuolo per schernire il grassone.

    «Lo spero», proseguì l’uomo. «L’ultimo arrivo di detenuti è previsto per le undici di stamani. Saranno effettuate le visite di routine, quindi i prigionieri saranno tradotti verso una delle carceri esterne in attesa di smistamento verso le sedi più opportune, dopodiché…»

    Deliah non stava più ascoltando gli sproloqui di quel panzone. Nella sua mente si stavano nuovamente facendo largo certe immagini che le davano il voltastomaco.

    Dio, ti prego, sospirò tra sé. Non un’altra volta. Tuttavia era ben conscia che non ci fosse nessun

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