La cattiveria del silenzio
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Info su questo ebook
Raimondo Raimondi redige una controstoria introspettiva della nostra società e dell’Occidente capitalista in cui, quasi senza soluzione di continuità, si passa dalla violenta isteria post-sessantottina all’attuale terrorismo islamico, in un panorama ansiogeno destinato immancabilmente a generare smarrimento e, quasi per reazione difensiva, crudeltà.
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Anteprima del libro
La cattiveria del silenzio - Raimondo Raimondi
Raimondo Raimondi
La cattiveria del silenzio
Edizioni Il Foglio
Narrativa
Direttore: Gordiano Lupi
www.ilfoglioletterario.it
Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI)
© Edizioni Il Foglio – 2017
1a Edizione – Marzo 2017
ISBN CARTACEO 9788876066702
ISBN EBOOK 9788876068522
In copertina | Giovanni Iudice, Nudo e divano blu
, olio su tela
cm. 100x100 – 2004 (part.), collezione privata Ragusa
Elaborazione grafica e impaginazione | shangrya@libero.it
Realizzazione ebook | lucawriter@libero.it
ISBN: 9788876068522
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Prefazione
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Prefazione
di Davide C. Crimi
La cattiveria del silenzio è un romanzo lunare, che riluce di una carnalità psichica in cui s’annidano importanti considerazioni sulla contemporaneità, suggerite per suggestioni ancor più che comunicate razionalmente. Ecco la ragione dell’aggettivo lunare
, che aderisce per emulsione alla lama metallica della narrazione, lasciando trasparire la sensibilità dell’autore e la sua salda esperienza di critico d’arte.
La modernità del racconto traspare immediatamente quando, all’inizio della narrazione, il protagonista accenna con voluta apparente distrazione ai programmi cui notte e giorno avevo assistito passivamente
e alla scelta del nulla
. Volume azzerato.
Da questo silenzio post-esistenzialista e post-post-moderno parte una prosa baumanamente liquida, da cui improvvisamente erompono squarci di poesia beat, come nella pagina in cui uno stuolo di angeli abbatte con spade fiammeggianti templi antichi, visione che si materializza sotto la pensilina d’una fermata d’autobus, davanti a manifesti sbrindellati di vecchi film porno.
La disfunzione psichica introduce un tema che non è tanto lo sfondo, quanto il quadro narrativo, lucido e modernissimo, attraverso il quale il romanzo si fa narrazione fluida della psiche occidentale, dove riverbera l’eccesso di immagini, veleno per la mente di chiunque viva nel nostro tempo. Immagini insane, che vanno dalle ordinarie pubblicità fino alla pornografia esplicita, che costituiscono lo scenario manifesto e invisibile della vita contemporanea, edulcorata, patinata ed esagerata, imitabile ma non raggiungibile, proposto per emulazione ma sempre inarrivabile.
L’impossibilità di eguagliare questi modelli irreali sfocia fatalmente in depressione, senso di inadeguatezza e, al limite, comportamenti omicidi / femminicidi / suicidi, il cui fondamento evidente e invisibile sta proprio nella visione distorta proposta dalla grande macchina della propaganda pubblicitaria. Da questa fonte proviene l’alienazione dei rapporti tra uomini e donne, che nel romanzo si esprime attraverso la figura della protagonista femminile, Italia, che pareva non arrivare mai a un definitivo orgasmo
.
L’equivalenza pubblicità=sesso che è la formula manifesta a tutti e per questo segreta e occulta della modernità, conduce alla reificazione di una modernità disperata e nichilista che non riconosce nessun credo (non credevo in nessun Dio, Iehova, Allah, Gesù Cristo o chi altro
), generalizzando e respingendo ciò che non è immediatamente comprensibile o che obblighi a guardare nel subconscio.
Nel nome della supremazia delle merci, l’Occidente fa dei supermercati i suoi templi, irridendo le altre civiltà, che vengono aprioristicamente dichiarate inferiori, irrise, umiliate. In questa attitudine della civiltà occidentale stanno i semi di quel risentimento che è la linfa del terrorismo.
I paesaggi del racconto non sono grandi città, ma frammenti di provincia di una Sicilia che talora sembra ricordare di esser da sempre il centro naturale del Mediterraneo; anche se questo non avviene mai razionalmente ma attraverso sguardi diagonali e obliqui, onirici. Le zone sommitali dell’Etna, Torre del Filosofo. Il campanile di un monastero. Suggestioni di un mondo antico, relegate al vuoto di senso. Parole che chiariscono concetti in cui non credo
, avrebbe detto il protagonista. Avevo bisogno di credere che fosse la paura il sentimento che guidava le mie peggiori azioni, e non la cattiveria
dice altrove, rivelando la continuità degli engram, le reazioni mnemoniche delle sinapsi che collegano i neuroni, di cui il protagonista parla nel suo riflettere.
È questo il sistema dei riflessi condizionati che, allo stimolo della paura, dà come risposta la cattiveria.
L’incubo del terrorismo irrompe nel romanzo come prodotto delle contraddizioni interne al modello di vita occidentale, fabbrica di ego la cui Weltanschauung, lontana anni luce dall’Illuminismo e dalla romantica Età della Ragione, scivola in una concezione del mondo edonista e individualista, il cui esito è il relativismo, l’alienazione dalla società, il sistematico senso di inadeguatezza.
Impauriti e quindi finalmente terrorizzati dalla incomprensibilità di ciascuno per sé stesso e, dunque, dell’altro, gli uomini e le donne d’Occidente ritrovano le loro antiche paure di una vita senza senso e, soprattutto, di una morte senza senso. L’unica via d’uscita di questo labirinto è un inganno, e consiste nell’attribuire questa morte senza senso agli altri, ai diversi. È già successo nel Novecento, e non soltanto attraverso l’orrore della Shoah. In fondo, ben prima di questi anni bui del XXI secolo, l’uccisione immotivata e arbitraria di un arabo è stato il tema di un romanzo che divenne manifesto dell’esistenzialismo: Lo straniero
di Albert Camus, con il quale questo romanzo nasconde una segreta parentela.
Recenti tendenze della letteratura italiana, come il cannibalismo, denotano la crudezza espressiva come ingrediente prevalente. L’eventuale accostamento non andrà cristallizzato. Non è che una fotografia dello stato di decadenza del mondo contemporaneo, che si traduce in prosa in un realismo non più magico ma efferato. Anche questo è già passato ed è forse più lontano dell’ermetismo di Quasimodo.
La narrazione di Raimondo Raimondi è lì e altrove. Non ha alcun intento moralista, né si produce nel tentativo vano di cercare soluzioni. Ci mette di fronte a noi stessi, al nostro isolamento, alla nostra solitudine, all’impossibilità di capirci. Rendendoci più coscienti dello sfondo entro il quale si colloca la nostra vita in questo secolo.
Davide C. Crimi
1
Poi, finalmente, un ventoso giorno di aprile di un anno di grazia, decisi di alzarmi da quel maledetto divano e spegnere la televisione.
Erano passati due anni, 730 giorni, di assoluta inattività, a parte quella visiva legata ai programmi cui notte e giorno avevo assistito passivamente, sonnecchiando.
Per tutto quel periodo non ero mai uscito di casa: al massimo una sortita sul balcone. Avevo incontrato soltanto il ragazzo del supermercato che ogni tanto mi portava delle vettovaglie ordinate per telefono.
Pur nutrendomi poco e male ero riuscito a ingrassare ben nove chili.
La fame viene e poi passa ma la dignità una volta persa non torna mai più. Chissà chi aveva detto questa stronzata. O forse sì, magari si può recuperare. Come la forma fisica, la tonicità dei muscoli resi flosci dal fermo biologico.
Fu un raggio di sole sfuggito tra le tapparelle abbassate che mi notificò che l’anno a venire avrebbe sancito un cambiamento, una mutazione.
Il lutto era stato elaborato nel peggiore dei modi, ma il dolore infine era un ricordo.
Come un lombrico stiravo le mie membra intorpidite, procedevo lento come un bradipo lungo il corridoio per raggiungere la doccia e levarmi di dosso due anni di croste e di sporcizia, sfoltire la lunga barba e i capelli da cavernicolo, recuperare nel mucchio di stracci consunti e lisi qualche indumento all’apparenza pulito.
L’improvviso silenzio dovuto all’interruzione del sonoro televisivo mi aveva lasciato un fastidioso ronzio alle orecchie, una labirintite forse dovuta anche alla riconquista della posizione eretta per quanto precaria e traballante. Era troppo quel silenzio ronzante, per cui riaccesi l’apparecchio sintonizzandolo su un canale qualsiasi, tanto per creare un sottofondo di confortante rumore.
Tutta la casa era stipata di sacchetti di spazzatura sedimentata e l’odore doveva essere piuttosto forte, ma io non lo avvertivo.
Nel freezer c’erano ancora parecchie confezioni di cibo che non avevo consumato, blocchi di ghiaccio con dentro pollame, pesce e qualche rara bistecca.
Tra il dolore e il nulla scelgo il primo, mi pare avesse scritto William Faulkner, beh, io avevo scelto il nulla per due lunghi anni. Perché anche il dolore per la morte di Italia, era naufragato nel silenzio della casa, linea piatta nel grafico della mente.
2
Settecentotrenta giorni prima il corpo di Italia giaceva rigido nella camera mortuaria dell’Ospedale Cannizzaro di Catania, le braccia conserte sul petto, immersa nei pizzi bianchi della cassa. Il suo profumo era dappertutto, invadeva il vuoto, spolverava gli oggetti, depositandosi sul lampadario di vetro colorato. L’avevo baciata sulla fronte, sulla nuca delicata, avevo mordicchiato irrispettoso il lobo di un suo orecchio, ma lei non si era svegliata, non si sarebbe svegliata mai più. La morte la rendeva insensibile a ogni sollecitazione, preda di un sonno profondo, assoluto, inquietante. Ma forse ero io a non esistere più, come uno spirito, un ectoplasma incapace di mettersi in contatto con il mondo dei viventi, una larva inquieta che nel cuore della notte vagava alla ricerca d’una pace negata, sfiorando i corpi degli umani, solleticandoli appena, senza riuscire a irritarli, a scuoterli, a farsi notare. Un’entità sommessa che poteva scivolare sul suo corpo inanimato, accarezzarla, volerla, entrare in lei, ma inavvertita, impalpabile. Dalle fessure delle persiane di quel lucubre seminterrato penetravano a tratti lampi di luce, riverberi dei fari di automobili che transitavano lungo il viale del nosocomio. Parcheggiata lì accanto c’era solo la mia auto, solitaria sotto la luce bianca dei grandi lampadari stradali, che d’improvviso parevano non rischiarare più niente, quasi fossero solo dei buchi neri sospesi per aria. Eppure la luce livida filtrava dalla finestra e, rimbalzando sul muro, ricadeva sulle mattonelle smaltate, frantumandosi in mille rigagnoli. Richiusi la porta dietro di me, delicatamente, senza rumore. Salii una breve rampa di scale e uscii per strada. Guidai lentamente fino all’uscita, oltrepassando la barra del portierato. C’era un bar poco più avanti, dentro un televisore era acceso malgrado l’ora tarda. Si vedevano delle figure muoversi sullo schermo a colori. Ma il bar era vuoto. Avvicinandomi mi accorsi che anche il volume era azzerato, sicché il tutto assumeva una dimensione irreale, come di un film d’altri tempi. L’infelicità era caduta di nuovo su di me come una pioggia fitta che penetrava nelle ossa, raggelandomi. Risalii in macchina, accesi la radio e avviai il motore. Il notiziario della sera aggiunse alla mia infelicità l’infelicità del mondo. Invano scrutavo la strada cercando nei cartelli segnaletici un’indicazione, una soluzione per la mia storia. Non sapevo dove andare. Procedevo solo per il piacere di sentire il rombo del motore spezzare il silenzio, come un brontolio sordo, di malumore. In uno spiazzale, una bancarella di legno chiaro tutta illuminata come a festa vacillava sotto il peso di frutta e verdura d’ogni genere, un oggetto vivo nella notte umida, come un’offerta, una tentazione. Vendeva anche fiori: lunghi gladioli rosa come capocchie di spilli spuntavano dai secchi d’acqua fresca in mezzo a carciofi, melanzane, sedani e lattughe romane. Comprai delle mele, pagandole a un omone sonnacchioso che stava riposando su una sdraio e che, costretto ad alzarsi per servirmi, rispose con un grugnito al mio saluto. Ripresi la corsa nella notte, lungo