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In virus veritas
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E-book368 pagine5 ore

In virus veritas

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Info su questo ebook

Il passionale Commissario Martoni, dopo una crisi esistenziale che lo porta a scoprire nuove dimensioni interiori, viene riportato all’attività investigativa da un collega americano dell’Interpol. Si trova così sulle tracce di eminenti figure della finanza internazionale.
L’indagine porta Martoni ad occuparsi della vicenda di un giovane e colto vescovo che trova la morte all’inizio del suo mandato pastorale in terra veneta, dove si risveglia in Martoni un profondo sentimento identitario.   
Nel contempo la pandemia di COVID-19 affligge il pianeta, mentre gli eventi portano Martoni ad incontrare negli Stati Uniti un singolare guru massmediatico ed un’attraente virologa.
La vicenda si articola in diversi luoghi del mondo, tra i quali un arcipelago del Pacifico in cui nasce una nuova corrente religiosa il cui leader gesuita si rivela una figura determinante per le sorti dell’umanità e per l’esito dell’indagine.
LinguaItaliano
Data di uscita26 gen 2024
ISBN9791223000519
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    Anteprima del libro

    In virus veritas - Andrea Marion

    1.png

    I Sorrisi del Leone

    69.

    Andrea Marion

    In virus

    veritas

    romanzo

    Ogni riferimento a persone esistenti, o esistite, o a fatti accaduti, quando non riconducibili a fatti reperibili nella cronaca

    o nella storiografia, è da ritenersi casuale e frutto

    della fantasia dell’autore.

    Copertina di Renato Carlassara

    Proprietà letteraria riservata

    2022 © Piazza Editore

    via Chiesa, 6 - 31057 Silea (TV)

    Tel. 0422.1781409

    www.piazzaeditore.it - info@piazzaeditore.it

    e-mail dell’autore: andy.marion@gmail.com

    ISBN 978-88-6341-280-2

    Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.

    Matteo 10,16

    Prefazione

    Si tu vales bene est, ego valeo!

    In molti scrittori appare sempre più frequente trovarsi in una lettura avvincente… dove è il racconto che ti attanaglia… soprattutto quando è un giallo-romanzo.

    Lo sappiamo tutti: il romanzo è un testo narrativo che tratta di vicende o eventi sia storici che fantastici. Questo autore ha la disinvoltura di traslare sul piano reale-storico le vicende personali. Il romanzo vorrebbe essere sempre una narrazione estesa, complessa e lunga, ma se a ciò aggiungiamo il Giallo, cioè quella narrazione fatta di misteriosi delitti, con inchieste articolate, impreviste ed imprevedibili, Andrea Marion ha la grande capacità di accompagnarti presso le sue strade, gli incontri con le persone e le cose… per farti capire che il contesto non è avulso dall’episodio che ti sta attanagliando.

    Ma per il nostro Autore è facile portarti, con sorprendente abilità, dagli ambienti Veneti a quelli statunitensi e poi ai mari tropicali; dalle Università supertecnologiche alle scuole elementari del cosiddetto terzo mondo… E lì dimostra la capacità, nella narrazione, di cogliere momenti educativi così diversificati, ma saper nel contempo legarli nel racconto; così come riesce ad avvicinare il mondo dell’alta finanza a quello della carità. Le descrizioni del piccolo paesino veneto, del borgo quasi medioevale fino alla super-organizzata metropoli… Tutto questo non scolora, anzi ingrandisce il racconto!

    Ma se a ciò si aggiunge un mistero nel Mistero, la passionalità nella lettura di questo libro è assicurata.

    Non da tutti capire, descrivere, analizzare un omicidio (come succede nei libri gialli), ma se a questo si aggiunge il mistero di un castello… la morte improvvisa di un giovane Vescovo… l’ammiccamento ed intreccio con IOR ed alta finanza… la pandemia di un virus… con una ricerca scientifica che sa di vero e di fantascienza che sembra vera… tutto questo ci lascia in apprensione per far domandare al lettore: adesso che cosa accadrà?

    Una nota piacevole è proprio il Venetismo del nostro autore. Sembra che non perda occasione per sottolineare continuamente l’amore alla sua terra, tinta non solo di approcci pittorici nella descrizione dell’ambiente, delle sue colline, montagne, delle campagne e dei monumenti fatti di case, borghi e stradine. Anche quando si trova in paesini disabitati dipinge l’ambiente come fosse parlante: "Sui lati non prospicenti la strada si aprivano… grandi e piccoli spiazzi... gli edifici… con ampie facciate caratterizzate da ballatoi in legno… grandi logge incassate nella struttura dell’edificio… Questi sporti lignei… offrivano" Una vera ode alla sua terra! Ma non è solo la poesia dei luoghi, è soprattutto il trasporto nelle dichiarazioni sociali e politiche che assurgono a ‘dichiarazioni d’amore’.

    E sì, è proprio nel Veneto che il Commissario Martoni, vero investigatore giramondo, ritrova "la positività in tutto ciò che lo circonda, sente sempre riaffiorare la sua innata propensione alla seduzione", concilia la sua mente con le indagini che restano sempre il senso forte della sua vita.

    Diventa piacevole questa lettura anche se sullo sfondo resta la catastrofe della pandemia, la sciagura del Virus! Il tutto accompagnato dal ‘giallo’ sotteso di omicidi, morti angoscianti, intrighi internazionali non solo economici-finanziari, ma di interessi volgari come di pedofilia organizzata. Bravissimo l’autore che ci accompagna attraverso tutto questo mondo che è comunque il nostro: trafelato, affannato, ansimante (come in un giallo), e che infine apre sempre alla gioia, alla speranza.

    Buona lettura!

    Bepi Bisetto

    1.

    «One, two, three… six!»¹

    Quando Jadu arrivò, Dumo era già ripartito con il fazzoletto in mano.

    «Jadu, out. Dumo, to the next round»².

    Amedeo non aveva dubbi. Dumo avrebbe battuto tutti, se non fosse incespicato o se non avesse lasciato vincere qualcun altro. Più probabile che si verificasse la seconda ipotesi, con quel ragazzo.

    Dumo non aveva rivali, tranne se stesso, nell’orfanotrofio di Uoru, la seconda isola per dimensione e popolazione dell’arcipelago di Neua.

    Amedeo Martoni era a Uoru, e teneva in mano il fazzoletto. Aveva insegnato lui ai bambini dell’orfanotrofio il gioco di rubabandiera, che era diventato l’attività principale nelle ricreazioni. In poche settimane i ragazzi avevano imparato a giocare anche a palla avvelenata, a quattro cantoni, a campana e a saltare l’elastico. Al chiuso li aveva istruiti a giocare a rubamazzo, con le carte da ramino perché quelle da briscola a Neua non si trovavano. Sempre al chiuso, aveva inventato un gioco dell’oca a dimensione naturale, con i ragazzi che si muovevano come pedine su un percorso di mattonelle segnate.

    Era diventato l’animatore più adorato da ogni orfano dell’arcipelago ospitato nell’istituto. Di fronte ad ogni bambino o bambina che gli si rivolgesse, Amedeo si trasformava istantaneamente nel padre amorevole che a loro era mancato. Un meccanismo automatico, irrefrenabile e compulsivo della sua mente convalescente.

    Amedeo era a Neua su invito del vescovo Rodrigo Ibarra. Si trovava nella nazione liberata dal gesto eroico di Demetrio Camilli, lo storico e filosofo che lui stesso pochi anni prima aveva snidato e catturato, e poi di fatto consegnato alle autorità americane, non immaginando le drammatiche conseguenze che ne sarebbero scaturite. Era ospite di quel prete a cui alcuni anni prima aveva visto celebrare messa in un sobborgo di San Francisco, ricavandone la convinzione che dall’intimismo di quel religioso non potessero partire iniziative di alcun interesse per gli investigatori dell’Interpol che indagavano allora sulle reti del terrorismo internazionale. Si era sbagliato, in quella occasione. Uno dei pochi errori di valutazione della carriera del commissario Martoni, che si accompagnava alle sue, talora geniali e altre volte fortunate, soluzioni di complessi casi polizieschi. Quelli di cui si era occupato fino a pochi mesi prima, fino alla soluzione del caso Pepito, il professore di ecologia trovato impiccato a Padova.

    Il ruolo di poliziotto era stato ricoperto più che egregiamente da Martoni fino alla scoperta che aveva distrutto la sua coscienza, messo in dubbio ogni sua sicurezza, cambiato il suo rapporto con la vita. La rivelazione di essere stato padre di un bimbo, o di una bimba, mai nato, abortito volontariamente dal grembo della madre, gli aveva tolto la dedizione al suo lavoro di commissario di polizia, aveva oscurato la sua vocazione verso la giustizia, aveva annebbiato la sua capacità di riconoscersi come uomo onorabile e giusto. La sua reazione non derivava solo dall’avversione verso la sua compagna di gioventù che aveva scelto di abortire sopprimendo una creatura concepita con lui. Amedeo portava contemporaneamente il peso della responsabilità e quello della sua dannata ambizione di allora, della sua maledetta voglia di esplorare la vita e i propri talenti oltre quanto gli sarebbe potuto e dovuto bastare.

    Era stato trovato riverso a terra, sul tappeto, dall’ex moglie Maura e dal figlio Carlo Giovanni, detto Cacio, quando, non trovandolo al telefono e non avendo informazioni dalla questura, erano andati a cercarlo a casa sua. La stanza era a soqquadro, si sentiva odore di urina, le lenzuola e il materasso erano fetidi. Amedeo era apparso agli occhi di Cacio così, addormentato in posizione rannicchiata, per terra, in quell’ambiente in cui non entrava aria da due giorni. Lo avevano portato a casa loro, accettando le sue intemperanze, i suoi pianti, le sue urla. Il fine settimana successivo era tornata Loriana, la figlia temporaneamente in Erasmus in Olanda, ma la sua presenza si era rivelata inutile. E così quella di Teo Minazzi, il suo superiore che era venuto in visita. Era passato a trovarlo anche il dottor Schillaci, anatomopatologo di riferimento della Questura di Padova, che aveva provato ad avvicinarlo nel suo ruolo di medico, venendo pure lui respinto senza appello.

    Amedeo era stato in quei giorni il viandante ramingo di un inferno personale dal quale sarebbe potuto uscire solamente con le proprie forze.

    Non era tornato al lavoro. Aveva utilizzato l’opzione di chiedere un’aspettativa non pagata per motivi di salute. Si era fatto dichiarare malato a causa dello stress dovuto alle sue ultime indagini. Voleva andarsene lontano, il più possibile, per vivere il proprio inconsolabile dolore senza pesare sulle persone care.

    Aveva studiato la geografia del pianeta, scoprendo che agli antipodi dell’Italia c’era più o meno la Nuova Zelanda, anzi più precisamente l’Oceano Pacifico, punteggiato di isole quanto la volta celeste nelle notti serene. E tra quelle isole c’era una piccola costellazione, che lo riportava a qualcosa di sé rimasto irrisolto: Neua. L’unico posto al mondo in cui probabilmente non c’era posto per lui, dove certamente non era gradito, a causa delle sue responsabilità nella vicenda dell’eroe Camilli. L’unico posto al mondo dove per lui aveva senso andare per sfidare il proprio destino, o per trovare una morte che in fondo poteva anche meritare.

    Amedeo aveva scritto una lunga lettera a Padre Ibarra, raccontandogli tutto, quasi avesse scritto ad un confessore. Il vescovo, appena ricevuta la missiva, lo aveva chiamato su Skype.

    «Buongiorno Amedeo, soi Rodrigo Ibarra» gli aveva detto in un italiano lento e approssimativo, con un accento sudamericano che lo faceva assomigliare ad una versione più incerta della parlata italiana di Papa Francesco.

    «Padre, che sorpresa, non pensavo parlasse l’italiano…».

    «Sì, io leggevo y ascoltavo da multo tiempo, ma provo parlare solo da poco, da quando me hanno chiamato por fare el vescovo. Scusame si parlo male. Chiamo per dirte solo un paio de cose, Amedeo. La prima es che Demetrio Camilli me aveva parlato de te. Avevi gagnato el suo grande rispetto, al di là della vostra disputa leale, y esta non è mai stata cosa banale por Demetrio».

    «Sì, lo so. Fu l’ultima cosa che mi disse quel giorno. Fu un onore per me, padre…».

    «La seconda è che tu es davvero bienvenido qui a Neua... In verità, vorrei essere esplicito. Abbiamo bisogno de ti qui quanto tu ha bisogno de essere qui co nosotros. Questo è tuo posto, in esto momiento, vieni presto! Arrivederce Amedeo». Padre Ibarra aveva terminato la conversazione prima di dargli il tempo di replicare.

    Da sei mesi Martoni viveva sull’isola di Uoru. Gli era stata assegnata una camera all’interno della missione, nell’ala in cui alloggiavano i frati. Faceva colazione e cenava con loro, ma era ovviamente dispensato dai riti e dalle preghiere quotidiane, a cui talora presenziava spontaneamente solo per la curiosità di capire fino in fondo anche quel mondo.

    Passava l’intera sua giornata, incluso il pranzo, all’interno dell’orfanotrofio. Insegnava giochi, ma anche l’aritmetica o l’inglese, qualunque cosa gli venisse chiesta. Ma ciò che lui adorava era fare l’animatore nelle ricreazioni, guardare i bambini correre, disinfettare le loro sbucciature dopo le cadute, farsi prendere in giro come uno zimbello quando gli chiedevano di fare i versi degli animali o di mettersi gambe all’aria a mimare un insetto ribaltato che non riusciva a rimettersi dritto.

    Amedeo era di nuovo felice. Profondamente felice. Ogni risata rivolta a lui da quei bambini richiudeva la ferita dei sorrisi persi di Bartolomeo o di Matilde, così Amedeo aveva deciso si sarebbero chiamati il figlio o la figlia mai nati.

    Tra i tanti sorrisi, Amedeo aveva sviluppato involontariamente una predilezione per quelli di Dumo e Sali, fratello e sorella, sei e cinque anni. Non erano quelli rivolti a lui i sorrisi che adorava, ma quelli che si scambiavano tra di loro. La loro complicità intrecciata alla tenerezza creava squarci di sole nel suo cuore.

    Dumo era un fulmine nella corsa, era imbattibile. Sali invece teneva in mano sempre la stessa bambola con il portamento di una piccola principessa dai piedi sporchi. Quando Dumo perdeva volontariamente una corsa o un gioco, per non diventare antipatico a tutti vincendo sempre, alzava subito lo sguardo su Sali, le faceva l’occhiolino e lei rideva come una matta.

    Erano entrambi molto bravi a scuola. Si raccontava che il padre di Dumo e Sali, una delle prime vittime del regime di Wamino, fosse un uomo colto, molto stimato, una sorta di sindaco locale di un’isola dell’arcipelago. La madre invece era morta durante la rivoluzione, con in mano il manico di un badile che nascondeva una cerbottana meccanica, con cui sparava dardi avvelenati contro i soldati.

    Dumo e Sali avrebbero continuato a studiare. Amedeo immaginava Dumo con una borsa di studio in un college americano, di lì a dodici anni, diviso tra studi scientifici e attività agonistica come velocista o come giocatore di football americano o di baseball. Sali invece chissà, magari sarebbe diventata un medico. Amedeo non li avrebbe mai lasciati soli, li avrebbe assistiti nel loro futuro, aiutati economicamente se necessario. Tra tutti gli orfani di Neua, quei due fratellini erano diventati un pezzo di sé, li aveva virtualmente adottati.

    Amedeo si era gradualmente ripreso anche mentalmente, nelle sue capacità razionali. Il vescovo Ibarra aveva accolto ciò che di Amedeo era rimasto dopo il collasso nervoso, ed assisteva alla sua ripresa, trasformando lentamente il proprio ruolo di conforto spirituale in una amicizia basata sulla reciprocità.

    Al suo arrivo a Uoru, il vescovo era stato per Amedeo un consulente spirituale unilaterale. Poi però, gradualmente, assieme alla guarigione, il rapporto si era evoluto. Padre Rodrigo dava sempre meno consigli al suo ospite e si intratteneva sempre più spesso a discutere con l’ex commissario di temi sociali. Si faceva spiegare il punto di vista del professionista sulla psicologia dei fuorilegge, sul rapporto tra degrado sociale e sviluppo della criminalità organizzata, sulla gestione dei sistemi penitenziari, sulla conversione alla giustizia dei condannati, da accoppiare possibilmente a quella delle loro anime.

    Era stato Padre Ibarra a suggerire al presidente Luzàn di avvalersi della competenza di Martoni, e così Amedeo ritornava al suo ruolo di poliziotto circa una volta alla settimana, quando lo portavano in idrovolante sull’isola principale di Neua, dove partecipava, come incaricato personale del Presidente, alle riunioni della commissione dedicata alla riorganizzazione della polizia e dell’intelligence nazionale. Riceveva un compenso generoso, che aveva fatto girare in automatico all’orfanotrofio, e che veniva totalmente destinato, per sua dichiarata volontà, all’acquisto di giocattoli e di supporti audiovisivi e musicali.

    Grazie ad Amedeo, e agli impianti stereo e ai dischi che procurava, i ragazzi dell’orfanotrofio sviluppavano anche alcune competenze musicali, imparando a distinguere lo swing dal rock ‘n roll, il funky dalla disco music, il soul dal country. E stavano imparando a ballare, con qualche lezione che settimanalmente Amedeo impartiva sulla social dance, tango e valzer in particolare, sul ballo caraibico, praticamente solo salsa, sui balli di gruppo e sul libero uso del corpo nella disco dance. Di recente si era fatto arrivare anche un video che introduceva all’hip-hop, a cui i ragazzi si dedicavano con sorprendente trasporto.

    Amedeo aveva anche importato un’abitudine che aveva mutuato dai ricordi dei GrEst, i campi scuola estivi parrocchiali a cui avevano partecipato anni prima i suoi figli Loriana e Cacio. Ogni mattina in cui non piovesse, dopo la colazione, i ragazzi si disponevano nel cortile rivolti all’ingresso principale e iniziavano la giornata ballando tre pezzi di musica diversa, con un repertorio fisso giornaliero che Amedeo cambiava solamente a cadenza mensile. Cambiava in realtà due soli pezzi su tre, perché i ragazzi non avevano voluto rinunciare a chiudere la partenza giornaliera immancabilmente con ‘Monster Jam’ della Sugarhill Gang, diventata così la colonna sonora di quel pezzo di vita di Amedeo Martoni. Quel "Wham bam, the monster jam, get up everybody and do the freak, to the beat", che sembrava interminabile, riportava ogni bambino, suora e animatore, anche quelli con la pressione arteriosa bassa, al pieno risveglio. Il fatto che le parole del testo avessero dentro tutta la malizia dell’underground rappante americano risultava in quel frangente trascurabile sia per Amedeo sia per la direttrice della struttura.

    Il rapporto dei bambini con la musica non si esauriva però con il ballo mattutino. Alla sera, come ultima attività all’aperto prima della cena, i ragazzi chiudevano la giornata con tre pezzi musicali partecipati. Si iniziava con i ragazzi raggruppati a cantare un testo in lingua neuari di ispirazione cattolica in tanti girotondi distribuiti nel cortile. Seguiva un allineamento dei bambini verso una direzione, virtualmente rivolta verso La Mecca, a cui alcuni rispondevano con inchini, altri con inginocchiamenti, recitando una filastrocca pure in lingua neuari.

    La giornata chiudeva con una danza della tradizione dell’arcipelago, che si riteneva risalente alla notte dei tempi, in cui le bambine ballavano da un lato agitando le anche in una sorta di ballo del ventre, mentre i ragazzi scimmiottavano di fronte a loro una danza di guerrieri, vagamente assimilabile ad una Haka Maori.

    Amedeo condivideva la vita di Neua per buona parte del proprio tempo, relegando i contatti con il mondo esterno a qualche ora serale o del fine settimana. C’erano esattamente undici ore di fuso orario tra Neua e il Veneto. Tutto accadeva in Veneto mentre Amedeo dormiva, tutto accadeva ad Amedeo mentre il Veneto dormiva. Si svegliava al mattino ascoltando il telegiornale serale italiano. Si addormentava leggendo i titoli delle testate regionali online del giorno successivo, già cominciato nella sua terra d’origine e ancora patria d’elezione.

    Chiamava a casa di mattina o di sera, usando WhatsApp o Skype. Parlava con Loriana, con Cacio, a volte anche con Maura. Usava Skype anche per sentire i suoi genitori, a giorni alterni, provando ogni volta un senso di colpa per non essere più con loro e pregando di poter tornare in tempo prima che la loro salute si deteriorasse in modo irreversibile. Non chiamava mai invece Teo Minazzi, suo diretto superiore, né altri colleghi di lavoro.

    Non cercava neppure Rossana Bauli, l’ex fidanzata diventata leader del partito autonomista riformista veneto, il VAF, sigla di Veneto Autonomo Federalista, e da pochi mesi Vicepresidente della Regione. Non si parlavano da molte settimane, esattamente da quel pezzo di merda che gli era piovuto addosso quando aveva rifiutato di diventare assessore alla Sicurezza Regionale. Era sicuro che Rossana fosse totalmente dedicata alla propria missione politica, e anche del fatto che si intrattenesse intimamente con qualcun altro, non sapeva però con chi.

    A volte chattava su Whatsapp con Silvia Setti, la protagonista di un’avventura sensuale avvenuta nel corso dell’ultima indagine. Era lei a cercarlo, e il tono dei suoi messaggi diventava sempre ben presto malizioso. Era chiaro che Silvia aspettava il ritorno di Amedeo per tornare a sedurlo con il suo modo di fare suadente e le sue forme irresistibili. Ed in questo caso, il pensiero di tornare ad assaporare la fragranza di Silvia andava gradualmente crescendo in Amedeo di pari passo con la propria guarigione, confermandogli la bontà ed integrità della ripresa.

    Amedeo dedicava un paio d’ore al giorno alle notizie che arrivavano dai continenti, in particolare dall’Europa.

    La cronaca mondiale era pervasa dalla paura degli ultimi dati sul riscaldamento globale del pianeta. C’era in atto anche una grave crisi finanziaria diffusa nel mondo, legata alla scomparsa, nel giro di un mese, di una serie di figure cardine dell’economia mondiale. Finanzieri, più che politici, anziani e molto potenti, tutti scomparsi in un breve lasso temporale. Rappresentavano i vertici della finanza globale, che comprendeva i grandi gruppi bancari, le maggiori holding e le principali società di intermediazione mobiliare del pianeta. Le notizie sulle cause di tali morti erano vaghe e confuse, spesso oscurate dal riserbo, ma nelle cronache ricorrevano i riferimenti a polmoniti e a complicazioni respiratorie.

    Sarà una congiura mondiale di eredi stanchi di aspettare il proprio turno pensava divertito Martoni ritornando a giocare con il suo vecchio ruolo investigativo.

    Tra le figure di spicco scomparse c’era anche una figura religiosa, Monsignor Archibald Biggs, australiano, considerato un’eminenza grigia delle finanze vaticane e dello IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, noto anche come la Banca del Vaticano. Oramai ultraottantenne, aveva ricoperto vari ruoli nell’amministrazione finanziaria pontificia. Era considerato un allievo della prima ora del discusso Monsignor Paul Casimir Marcinkus, dal quale si era però ben presto dissociato, evitando ogni coinvolgimento negli scandali che avevano colpito la gestione dello IOR negli anni ’80. Negli anni ’90 si era spostato dalla finanza vaticana all’organizzazione del sistema delle Università Pontificie disseminate nel mondo, per tornare solo nel 2005, dopo la morte di Papa Wojtyla, in età avanzata, ad occuparsi direttamente dello IOR e degli investimenti finanziari della Santa Sede.

    Amedeo si teneva informato anche sulle cose italiane. L’Italia era sempre sotto la lente d’ingrandimento mediatica per la faccenda degli sbarchi di immigrati a Lampedusa e delle controversie nate tra il governo italiano e alcune ONG straniere dedite al salvataggio dei naufraghi. Saltuariamente si intratteneva anche con qualche video in rete, come la satira di Fratelli di Crozza o la cronaca sportiva di Novantesimo Minuto, che lo riportavano a contatto con il suo passato.

    La cronaca veneta era invece dominata dalla politica regionale e dalle stilettate reciproche che il Governatore Zara e la sua vice Bauli si lanciavano quasi giornalmente. Erano alleati verso Roma, ma nemici dichiarati in casa, entrambi a caccia dei voti autonomisti di centro, destinati a risultare decisivi nelle consultazioni elettorali.

    Amedeo aveva notato che il Gazzettino aveva ripreso la notizia della morte di Monsignor Biggs. Una pagina intera aveva approfondito la sua storia, collegandola ad un altro fatto di cronaca risalente a circa un anno prima. Amedeo ricordava quella vicenda, ne avevano parlato anche i telegiornali. E la corrispondente del Gazzettino che se ne occupava era una vecchia conoscenza di Preganziol della sua amica Alina Pavan.

    L’anno prima il nuovo vescovo di Ceneda, Giacomo Cosimo Baldi, titolare della diocesi di Vittorio Veneto, era stato trovato morto nella sua residenza, meno di un mese dopo l’inizio del mandato pastorale in terra veneta. Si trattava di un giovane prete molto brillante, che aveva da poco compiuto cinquant’anni.

    Di famiglia emiliana molto benestante, aveva avuto una vocazione adulta negli anni di iscrizione al corso di Laurea in Economia e Finanza alla LUISS, la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali di Roma, intitolata a Guido Carli. Laureato con il massimo dei voti e la lode, aveva rinunciato all’ipotesi di un dottorato, e aveva proseguito piuttosto con gli studi teologici per cinque anni.

    Dopo un breve diaconato, appena compiuti i trent’anni era diventato sacerdote. Era stato da subito associato ad una parrocchia di Roma, ma le competenze del giovane don Baldi in materia economica erano un patrimonio così importante per la Chiesa che le sue altre attività si erano concentrate, da subito, sull’assistenza all’ufficio di programmazione e organizzazione delle Pontificie Università. In quella posizione era entrato in contatto diretto proprio con il direttore, Monsignor Biggs appunto, di cui era da subito diventato un po’ discepolo e un po’ segretario personale.

    L’articolo insisteva sul rapporto strettissimo che si era instaurato tra il vecchio prelato e il brillante giovane prete, che nel 2005 aveva seguito il proprio mentore, abbandonando il lavoro di gestione universitaria e passando a ruoli amministrativi all’interno dello IOR.

    Il giovane don Baldi era diventato capo ufficio stampa della direzione dell’Istituto, ma le sue posizioni ed esternazioni avevano in qualche caso creato polemiche ed imbarazzi in Vaticano. Si diceva che le convinzioni di Baldi fossero andate via via distinguendosi e allontanandosi da quelle di Monsignor Biggs.

    Le cronache erano arrivate a parlare di sfida generazionale ai vertici della finanza vaticana, di presunti schieramenti che si andavano formando all’interno della Chiesa attorno alla politica finanziaria, soprattutto per quanto concerneva le diocesi dei paesi meno sviluppati. A detta dei cronisti più maliziosi, il contrasto aveva prodotto la formazione di due fazioni contrapposte anche all’interno della compagine cardinalizia. Si sosteneva che le future scelte di Papa Francesco sulle nomine di nuovi porporati potessero risultare decisive, proprio in virtù del possibile spostamento della maggioranza da una fazione all’altra.

    Questa disputa interna al Vaticano, di cui all’esterno arrivavano solo indiscrezioni confuse e spesso non attendibili, aveva creato agitazione diffusa, circospezione. I comunicati stampa della Santa Sede erano divenuti sempre più vaghi, ermetici. E non erano mancate polemiche, sulla stampa laica, quando a don Baldi era arrivata, come un fulmine a ciel sereno, la nomina a vescovo.

    "Promoveatur ut amoveatur"³ era la locuzione ricorrente usata dai giornalisti per descrivere l’ultimo passo, rivelatosi poi drammatico, della carriera di quel brillante giovane prelato.

    2.

    Faceva un freddo cane. Un vento gelido gli arrivava sulla faccia dalla collina che stava risalendo lungo Bancroft Way. Aveva passato da poco l’incrocio con Telegraph Avenue, camminava sul lato destro. Stava per arrivare al Cafè Roma, e poi all’International House. Amedeo era imbacuccato sotto il berretto di lana, il cappuccio della felpa ed il bavero rialzato del giubbotto. Era già buio, alle sei e tre quarti di un tardo pomeriggio di novembre.

    Non c’era quasi nessuno per strada. Sull’altro lato di Bancroft Way una persona non molto robusta portava con fatica due scatole di plastica che sembravano piene e pesanti. Si fermava, le appoggiava, per poi riprenderle e riavviarsi lungo la salita. Amedeo si impietosì.

    Attraversò la strada e si offrì di portarne una.

    «Thank you very much»⁴. Si abbassò la sciarpa. Era una giovane donna, di certo una studentessa.

    «Where are we taking these boxes?»⁵ indagò Amedeo.

    «Not far, you are lucky. Less than a block, the Department of Arts is right up the street»⁶. Sorrise.

    Amedeo accompagnò la ragazza dentro il Dipartimento, salirono al secondo piano con l’ascensore e riposero le scatole in uno stanzone.

    «Really nice of you. Thank you so much. What’s your name?»

    «Amedeo, nice to meet you»⁸. Le porse la mano.

    «Nice to meet you too, I’m Lussìa»⁹.

    «Lussìa? Sorry, how do you spell it?»¹⁰

    «L U C I A, Lussìa».

    «Ah, Lucia! It spells the same in my country, I am Italian»¹¹.

    «Really? Nice, I am from Mexico»¹².

    «Nice. Solo se unas palabras… – sorrise – I’d better go now, have a nice evening»¹³.

    «You too, Amedeo»¹⁴.

    Arrivò all’I-House, andò direttamente in camera, si rilassò per un quarto d’ora. Scese alla dining room, trascurò per una volta le attenzioni di Sandy all’entrata, scelse le pietanze alla tavola calda e si andò a sedere vicino ad Aramis, un olandese che gli era stato presentato da un altro residente italiano, Alvise Pepito, e che era lì per frequentare l’MBA, il Master in Business Administration. Era seduto con un suo amico, forse anche lui studente nello stesso programma.

    Aramis era un tesoro, una delle persone più gentili ed affabili che Amedeo avesse mai conosciuto. Faceva però parte di un gruppo di studenti di business, residenti all’I-House, che Amedeo trovava strani, diversi. C’erano Claire e Jean, francesi, Marco e Luigi, italiani, Ivo, tedesco e tanti altri, in quel gruppo. Amedeo li trovava tutti gentili, ma il loro atteggiamento aveva sempre, soprattutto quando stavano assieme, un che di affettato, di costruito, di innaturale.

    Era come se recitassero, tra di loro e spesso anche con altri. Mancava quella franchezza e spontaneità nello sguardo che era un valore che Amedeo portava gelosamente con sé fin da bambino, dalle amicizie di paese. Amedeo ne aveva parlato un giorno ad Aramis, girandoci un po’ attorno per paura che l’argomento lo offendesse.

    Tutt’altro. Aramis era andato dritto al punto. In quell’ambiente degli studenti di business, dei futuri grandi manager, la postura, l’uso degli sguardi, l’ordine e la scelta delle parole pronunciate era argomento di formazione.

    Era persino materia di studio, perché tutti frequentavano almeno un corso di tecniche comunicative all’interno del programma del Master. Non sembravano così a caso, erano così per scelta. Forse stavano persino facendo i compiti per casa, mentre dialogavano tra di loro e con altri con quegli atteggiamenti artefatti.

    «Aramis, are you sure that this behaviour will not eventually change the way you are? Your personality, I mean»¹⁵.

    «That’s exactly the reason they want us to do that! A good manager must always be fully under control, and good training is necessary to achieve that. It could be a big matter, there could be millions on the line, you know, one day, when we’ll have a career»¹⁶.

    «Come on! This way you are all going to look the same, say the same things, behave in the same way. You will all be so boring!»¹⁷

    «Well Amedeo, let’s face the truth. Aren’t politicians looking a bit alike in their manners? Aren’t bishops and cardinals? And bankers? You know, this is happening, it’s the world we live in»¹⁸.

    «There’s a convenient conventional way of doing things in each environment, a main stream, you mean»¹⁹.

    «A Mainstream, yes. That’s an interesting word. I’ll propose it in one of my

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