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Memorie di uno schizoide
Memorie di uno schizoide
Memorie di uno schizoide
E-book426 pagine6 ore

Memorie di uno schizoide

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Info su questo ebook

Non c’è un motivo preciso per cui un autore debba deporre la penna della fantasia, chiudere la cartella delle sudate carte di vent’anni, e iniziare a dire di se stesso. Il desiderio di raccontarsi scoppia in mezzo al cuore come una fatalità data dai successi e dalle disgrazie di una vita, finalmente abbastanza matura da donare al mondo il distillato delle sue pene, delle sue speranze.

Figlio di una madre anaffettiva e di un padre violento, schizoide non per sua scelta e depresso per tara genetica, il protagonista delle Memorie racconta se stesso attraverso un difficile percorso di lotta e istinto di sopravvivenza contro i demoni della follia, le angosce della malattia psichica, gli insulti e le beffe che a più riprese lo trascinarono, a cavallo di due millenni, sull’orlo del suicidio.

Può il “dimenticato” per eccellenza dal mondo dei ricchi e dei crudeli, dei bigotti e dei falsari dello spirito, redimersi attraverso il compimento di una missione che lo porterà assai più in là dei fragili traguardi di questo tempo?
Le “Memorie di uno schizoide” racchiudono il grido di rivalsa di un apparente sconfitto dalla sorte, che nonostante tutto e tutti riesce a ribellarsi ai lacci di familiari e medici aguzzini, per gridare al mondo la sua sconvolgente profezia…

Leggendo questa biografia si avverte il fascino interiore della natura umana, il "grande mare" delle anime sensibili. Una narrazione toccante, lucida, vera, che non vi lascerà indifferenti. 

Laureato in lingue e culture internazionali, Raffaele Isolato applica le sue ricerche in campo etico ed epistemico a novelle e romanzi che spaziano dal fantasy al noir, al filone avventuristico, alcuni dei quali già pubblicati in rete e cartaceo. In attesa di pubblicazione sono le ultime opere di narrativa e saggistica, e i più significativi esperimenti poetici. Tra i titoli pubblicati su Amazon: Perfect (saga distopica in tre volumi), Viaggio a Mezzomondo, Amazing Amazon, Una giornata in frigo, Il male online, Elemental Symphony, Il ladro di anime, Le cento e una ballata (raccolta di ballate in endecasillabi e settenari), I dialoghi della nuova morale, Chi vuole andare in TV?, Viaggio a Nord, Dall’altra parte del nulla, Lineamenti di religione universale, Inferno XXI (poema didascalico-allegorico in trenta canti), Il nulla imperfetto, L’amore elementare, La pieta e lo scandalo, Nati alla luna nuova, Viaggio a Lost City, L’angelo dalle ali di carta, All’ultima porta, non fermarti, Cuor di notte (14 novelle d’amore ingrato), Il Presidente (tragedia in cinque atti in versi sciolti).

 
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita22 mar 2019
ISBN9788832549980
Memorie di uno schizoide

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    Anteprima del libro

    Memorie di uno schizoide - Raffaele Isolato

    Raffaele Isolato

    Memorie di uno schizoide

    (1981-2019)

    The sky is the limit

    UUID: 35646e2a-4f84-11e9-96ff-bb9721ed696d

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Quando tutto ha inizio (1981-1987)

    Gli anni elementari (1987-1992)

    Gli anni medi inferiori (1992-1995)

    Liceo (1995-2000)

    Università (2000-2005)

    Gli anni artistici (2006-2009)

    Roma, Losanna, Londra (2009-2010)

    Stati Uniti e secondo periodo romano (2011-2012)

    Gli anni bui (2013-2015)

    Come d’inverno, un germoglio (2016-2019)

    Io sono quello della stazione, quello che ha perso

    il treno e se ne fa un vanto. Sono quello che guarda gli altri

    che corrono sui binari, che annaspano dietro i loro sogni perduti,

    sempre più lontani. Io sono quello della pensilina, quello che sorride

    alla strada deserta, alle rotaie arrugginite e invase dalle erbacce;

    quello che non si aspetta più nulla, e che semplicemente

    se ne sta, finché non è finita. Qualsiasi cosa sia. La vita.

    Come l’erba dei campi io sarei stato fedele a questo principio:

    avrei percorso le strade del mondo come uno spettro,

    un soffio d’aria o un raggio di luna. Gli uomini avrebbero provato

    a sedurmi con le loro paure, mia madre con le sue promesse

    di imminenti disgrazie: io invece avrei continuato

    a essere libero e a ricercare la purezza dell’increato.

    Quando tutto ha inizio (1981-1987)

    Nascita e primo sguardo sul mondo

    Nacqui trentotto anni fa in pieno Meridione, in una delle province più sovrappopolate e sottosviluppate d’Europa. Per sottosviluppate non intendo per carenza di risorse, o diffuso analfabetismo: non è così facile giudicare l’arretratezza di una civiltà, di una qualsiasi porzione d’umanità.

    È ormai certo che la mia vita sia giunta a un punto di non ritorno. Alle soglie dei quarant’anni giunge un momento nell’esistenza di ognuno, in cui si è chiamati a tirare le somme e a dare uno sguardo all’altra parte della china: è naturale aspettarsi una continuazione del percorso direttamente influenzata dalla prima metà. Se ti è andata bene e sei stato fortunato la via continuerà in discesa; se appartieni invece alla zona d’ombra, se il mondo o chi per esso ha deciso di degradarti e gettarti tra gli afflitti, allora non dovrai fare altro che sperare che il tormento si affievolisca sempre più nell’ottundimento della vecchiaia.

    È quello che suppongo accadrà anche a me. Nel mezzo del cammin della mia vita, mi sono ritrovato a fare i conti con un destino anomalo, ai limiti dell’impossibile, che vorrei condividere qui tra queste pagine, a beneficio della maggioranza degli esseri umani che non sa cosa significhi depressione, e ancor meno ha familiarità con una personalità schizoide.

    Nacqui dunque in una delle province dell’assolata Napoli, ridente e problematica capitale del Sud Italia. Ancora oggi non la sento mia, e forse non sono mai stato un napoletano vero: magari chissà, non sono mai stato neppure davvero vivo. Contrariamente a quello che si pensa, la depressione non è una privazione di gioie esistenziali, una malattia che impedisce di provare piacere o attaccamento per chicchessia: è più una patologia del reale, un’epifania del Vero nudo e crudo che eclissa il sole nell’azzurro del firmamento, e al suo posto mette la notte. Il buio, il freddo cosmico.

    È questo il Vero? Indubbiamente. È questa la realtà, la sorte dei saggi e di chiunque ha avuto la sventura di aprire gli occhi sulla cruda natura della vita. Io, straniero nel mondo, in Italia, a Napoli e all’interno della mia stessa famiglia, estraneo e alieno ai sentimenti più naturali dell’esser vivo, scrivo per gridare al mondo che libertà è anche dissentire dalle opinioni comuni. Libertà è legittimare la propria anomalia, in quanto portatore della disusata epifania cosmica del Vero.

    Io che scrivo, io che sono

    La mia giornata tipo inizia dopo mezzogiorno. Dopo aver fatto fatica a chiudere occhio tutta la notte, resto a letto in camera mia, una specie di bunker in cima alla casa dei miei, a fissare il soffitto e a desiderare di essere morto. Perché non ti uccidi una buona volta, allora?, mi sono sentito dire da una giovane psicoterapeuta, un giorno.

    Non è così facile. Per uccidersi occorre avere una certa forza attiva che contrasta con la passività assoluta dell’essere depressi. In più, sono molti i casi in cui non si è sicuri di passare a miglior vita senza prima trascorrere un certo numero di anni in agonia, magari con la spina vertebrale fratturata, o il cervello vittima di danni irreparabili e umilianti per la dignità del quasi suicida.

    No: meglio starsene a letto, ancora un altro po’.

    Di lavarmi non ho voglia: non lo faccio quasi mai, magari un paio di volte alla settimana. Mi piace stare immobile e far finta di non esistere. Nel frigo di camera mia ho scorte alimentari sufficienti, di solito, per quindici giorni: poi posso ancora permettermi di girare la chiave nella toppa e supplicare i miei di darmi altre provviste.

    Prego, prego di essere morto o che almeno fuori sia di nuovo già notte. Mi disturba la luce, ho sempre le persiane chiuse. Soffro?

    No, non posso dirlo. Soffrire implicherebbe già l’automatica ricerca di una soluzione, un gridare al mondo il proprio dolore e l’attivazione delle forze cosmiche invisibili incaricate di scuoterci dal nostro torpore malinconico. Io non soffro, io non gioisco del nuovo meriggio che filtra dalle imposte: semplicemente, vorrei non starmene qui a respirare. Sono cosciente che tra poco dovrò pure mettere i piedi a terra, trascinarmi alla scrivania e tentare di leggere qualcosa al pc.

    La mia vita, o quel che ne rimane, è in rete. Qui contatto di tanto in tanto qualche editore, scrivo la bozza di una nuova opera, mi invento storie e personaggi di altri mondi. Mi piace dirmi scrittore: uno scrittore esiste solo in quel che fa, non è un uomo come gli altri. Mi sento un po’ meno uomo, e quindi meno depresso, quando scelgo le parole davanti alla tastiera.

    Ahimè, la mia storia è troppo lunga per appartenere a un uomo che semplicemente ha scelto di non esistere. Se qualcuno leggerà mai queste memorie, le troverà costellate di aneliti alla salvezza, alla normalità, alla vita così come conviene che sia. Tutti tentativi vani, esauritisi nel pieno dello scoppio, come petardi che fanno cilecca al momento critico.

    La vita allo specchio

    Perché scrivo, allora? In un certo senso, mi affascina vedere la mia esistenza stesa come un vestito davanti a me, qui sul piano da lavoro. È talmente vuota di emozioni, di sentimenti, di amici, di sostegni, di conforti e di successi, che pare uscita da uno di quei romanzi per bambini in cui i personaggi o sono tutti buoni o tutti cattivi. O tutti positivi o tutti negativi, o tutti pieni o tutti vuoti. Una vita inutile, la mia, che mi piace però immaginare degna di essere descritta proprio perché anomala, affasciante perché assurda nel suo fallimento cosmico.

    Scrivo, quindi. Scrivo anche per sbattere in faccia al mondo (il quale mi auguro un giorno leggerà qualche brano di tutto ciò) che non c’è una ricetta per vivere la vita come si conviene. La vita non è un dono, e neppure una maledizione: è più uno stato di coscienza che si oppone al vuoto perfetto del resto dell’universo, e il cui unico scopo è la sofferenza del senziente. Per sfuggire in qualche modo alla perpetua agonia del sentirsi vivo, l’uomo si è immaginato di essere così perché deve esserlo, perché così è stato creato da Colui che è perché è. Delegando ogni responsabilità della propria esistenza a principi trascendentali o etico-sociali, la vita cosciente ha imperato a tal punto sul pianeta da soppiantare qualsiasi altro tipo di controparte o di ostacolo naturale. Oggi vivere è un labirinto di controsensi, tutti legittimati però dall’imperativo etico del vivi perché così ha da essere.

    Peccato mortale, dunque, è non voler vivere. Peccato è anche non far nulla perché la vita vuole che ci si muova, che si goda e si soffra, che si sia felici o ci si arrabbi. Non c’è spazio per nessun altro modo di vedere, soprattutto in quegli ordinamenti sociali che ancora troppo si rispecchiano in una concezione della vita ferina, semplice, il più possibile anelante a uno stato puro e incontaminato della giustizia civile.

    L’Italia è ancora uno Stato sognatore, a ben vedere. Appena in linea con le direttive della moderna evoluzione del pensiero occidentale, pende ancora dalle sue catene di matrice umanistica e religiosa. Nessuno può desiderare la morte perché quest’ultima è tabù, è disgrazia, è la peste dei vivi. Nessuno deve sembrare triste o sfiduciato perché la normalità è l’euforia, la crescita, il guadagno, il male purché si goda.

    Essere depressi è essere malati: l’obbligo è curarsi per riprendere a funzionare.

    Memorie di chi?

    Lo so, quando si legge un libro di memorie si sottintende sempre che chi le scrive sia un essere speciale, un uomo che si è distinto tra gli altri o che almeno che abbia compiuto una serie di imprese degne di nota. Io stesso mi sono qualificato come schizoide per distinguermi dalla maggior parte della mia potenziale cerchia di lettori. Ma che cos’è uno schizoide?

    Premetto che anche questa non è che un’etichetta. Più il sapere razionale si specializza in vari campi del sapere, più si innalza e prospera l’albero della conoscenza: giungeremo forse al punto che a ciascuno di noi sarà affibbiata un’etichetta a seconda del proprio tipo sociale. Oggi i gruppi di etichettati si fanno sempre più numerosi, e di conseguenza meno nutriti al loro interno. Ci sono i depressi, gli schizoidi, gli schizofrenici, i narcisisti, gli psicotici. Un tempo c’erano i matti, i melanconici, i superbi, i vanesi. Non avrà mai fine la passione degli uomini nel dar nome a cose, animali, altri uomini e astrazioni: è nella loro natura. L’uomo è nato per giudicare, selezionare, studiare e dire: Chi sei tu? Fatti riconoscere, così che io possa tenerti sotto controllo.

    Secondo la mia etichettatura, la mia dovrebbe essere una personalità piuttosto schiva, senza rapporti col mondo esterno, appagata della propria solitudine ed emozionalmente fredda, sotto tono. Prospettive di guarigione: poche o nessuna. Forse perché la schizoidia non è una malattia? Forse perché ogni uomo dovrebbe essere accettato per ciò che è, senza obbligarlo a particolari ricette di felicità, o di auto-sufficienza?

    Io sono schizoide, schizoide vuol dire me: di conseguenza la parola stessa perde significato per confondersi nel campo sterminato delle caratterizzazioni dell’Io. Sto qui, tuttavia, e aspetto la morte in un apatico atteggiarmi proprio perché la mia libertà è stata neutralizzata dietro un’etichetta che mi qualifica come minorato. Non ho diritto di scegliere o di influenzare nessuno, io.

    Il viaggio comincia

    Giudicate voi, dunque, spettri lettori. Ha la mia vita il diritto di essere accomunata alle vostre, o rimarrà per sempre nel limbo delle vite inferiori, quelle sorte per sbaglio e da neutralizzare al più presto per la tranquillità delle esistenze prosperanti e lussureggianti come Dio comanda?

    Per lunghi anni ho rimandato il giorno in cui avrei scritto una mia autobiografia. Non tanto per mancanza di contenuti o perché mi sentissi inadatto al compito della voce narrante: semplicemente, non mi pareva di aver raggiunto quella sufficiente distanza emotiva e cognitiva dalle mie esperienze reali, necessaria per farle diventare pagine scritte. Si può essere realisti e fedeli ai fatti finché si vuole: una realtà descritta diventa istantaneamente una rappresentazione, qualcosa di diverso da ciò di cui si scrive. Come un pittore deve porsi a una certa distanza dal modello per dipingerlo, così uno scrittore deve astrarsi da sé stesso, prima di descriversi e immortalarsi come semplice personaggio da tragicommedia.

    Mi muoverò quindi a passi prima malfermi, poi sempre più spediti, in una cronaca dell’impossibile che spero varrà la pena di leggere e commentare proprio in virtù dei tratti stranianti che la costellano in lungo e in largo. Chi vorrà potrà darmi del malato: per amor di categorie, io mi sono dato invece la nomea di essere autentico. Solo a me e a pochi altri, infatti, è spettata la sperimentazione della vera essenza del dolore, della solitudine, dell’angoscia alle soglie della follia e dell’incomunicabilità. Solo a noi, i depressi della storia, è concessa la visione incontaminata del vero volto del giorno, quello che si cela dietro il rassicurante schermo dell’azzurro.

    Colei che deve dirsi madre

    Nei più elementari trattati di schizoidia, si accenna al ruolo cardine della figura materna nella vita del bambino schizoide. La madre in questione è anaffettiva, o poco partecipe dei bisogni emozionali di suo figlio sin dai primi giorni di vita.

    Mia madre, in questo senso, è sempre stata un mistero per me. Generosa, vivace e dolce con gli altri, ha mostrato un volto alieno in casa, soprattutto per me che ero il primogenito dei suoi tre figli. Molti anni dopo, questa sua freddezza ha avuto una parziale spiegazione nelle parole della mia nonna materna, che mi confidò che avendomi lei concepito fuori dal matrimonio, sono stato una delle cause determinanti del suo matrimonio infelice con mio padre. Credo che da questo sia dipeso l’odio inconscio nei miei confronti, che a un certo punto la portò a desiderare di abbandonarmi a casa di sua madre per rincorrere un sogno di libertà a Milano, in compagnia del suo novello sposo. La nonna non demorse: fedele all’atavica e cinica inflessibilità morale delle contadine di un tempo, le impose di tenersi il figlio e di accettare quel che il destino, o un attimo di follia sensuale, le avevano assegnato.

    Non a caso le prime foto che ho di me, quelle che per anni sono state appese in salotto o esposte sulle mensole prima che le sfigurassi con le mie mani, rappresentano un bambino in lacrime, crucciato, spaventato, frignante per motivi sconosciuti. Si direbbe che io sia venuto al mondo piangendo, e che piangendo sia intenzionato ad andarmene. Una madre che ai livelli più profondi della sua coscienza non desidera il proprio figlio, mina alla base tutte le certezze che il piccolo ha del mondo. Almeno per i primi anni di vita, la genitrice è tutto per il suo bambino, è la certezza che il sole sorga al mattino e che il pavimento mai gli sprofonderà sotto i piedi. Venuti a mancare i capisaldi della mia vita affettiva, respirando forse attraverso i polmoni di mia madre un’atmosfera tossica di rancori e violenze mal sopite, il mio stesso universo ha iniziato a decadere, e profonde voragini si sono allargate nelle prime conoscenze empiriche acquisite su questo nuovo, inesplorato pianeta.

    Gli errori di una madre si riproducono nella psiche del figlio come piccoli fori su una maglia tenera ed elastica: crescendo, questa maglia si porta dentro i suoi buchi, che diventano sempre più larghi e profondi, pericolosi per il soggetto in questione e per tutti coloro che gli vivranno intorno. Questo non perché i fori si approfondiscono per i nuovi, sopraggiunti colpi del destino: sono sempre gli stessi, solo adattati a una maglia più ampia ed espansa.

    Una madre anaffettiva è di per sé uno scherzo di natura. Una mamma che addirittura arrivi ad odiare il frutto delle proprie viscere, è un attentato a qualsiasi forma di vita nell’universo: necessariamente, questa povera creatura dovrebbe in qualsiasi caso togliersi la vita assieme al suo errore carnale.

    Storia di un sorriso

    I primi anni li trascorsi con i miei genitori a casa dei miei nonni paterni, in provincia di Napoli. Qui mia mamma disse sempre di aver passato il periodo peggiore della sua vita. Di origini contadine, l’entrata in paese era per lei un miglioramento del suo sempre aborrito status vivendi: era quello a cui aveva sempre segretamente mirato, anche se per ottenerlo aveva dovuto scendere a compromessi con un marito sbagliato, e un matrimonio di convenienza.

    Purtroppo, accettata solo per la modesta dote e il ruolo di schiava in una famiglia essenzialmente matriarcale, ebbe a pentirsi delle sue scelte avventate sin dai primi giorni di convivenza con i suoceri. Una delle prime condizioni del matrimonio sarebbe stata quella di cedere alla mia nonna paterna il suo primogenito: la povera cinquantenne era giunta a riprovare uno spasmodico desiderio di maternità, e la nuora contadinotta doveva appagarlo col primo frutto del suo amore. Assai più tardi, mia madre ebbe a gloriarsi con parenti e conoscenti di non aver mai voluto scendere a compromessi, e che suo figlio se l’era tenuto perché le apparteneva: non l’avrebbe data vinta alla strega per nessuna ragione al mondo, anche se era stata costretta a cedere in mille altre provocazioni di minore importanza.

    A parer suo, io stesso avrei dovuto ringraziarla per questo suo atto eroico. Peccato fosse dettato solo dalla rivalità tra due donne possessive e del pari anaffettive, piuttosto che dall’ansia di offrire a un neonato una meritata stabilità emozionale.

    Sballottato per i primi anni di vita tra le braccia di due donne in perpetuo litigio, crescevo silenzioso, piagnucolante, sempre in preda a qualche malattia di turno. Uno dei miei primi ricordi consiste in una visione sfocata di mia madre e della nonna che litigano di fronte al lavello della cucina, per un tozzo di pane bagnato che la nonna voleva darmi per merenda, e che mia madre insisteva mi venisse levato, perché poi non avrei succhiato dal biberon. Io ero seduto sulla tavola, in posa per qualche foto che voleva scattarmi mio padre con la complicità del nonno.

    Mio padre fu, come emergerà dal prosieguo delle memorie, una delle persone più negative e superficiali che abbia mai conosciuto nella mia vita. Se nella mamma potei pure notare una profondità di odi, risentimenti e sentimenti distorti, in lui tutto è sempre stato banale, meschino, asservito al più banale utilitarismo e allo sviscerato attaccamento alla propria madre. A lungo mia madre si lamentò che l’unico amore del marito era quello primigenio, mai intaccato e sempre più ossessivo, per la donna che gli aveva dato la vita. Per circa un trentennio la nonna imperò sui destini di tutti noi, manipolando a suo piacere la rozza, debole mente del papà.

    Su questo terreno avvelenato, io stavo seduto sul pavimento, in un angolo, aspettando di riconoscere un vero genitore che mi amasse per chi ero in realtà: come bambino, come creatura umana, anziché come oggetto di scambio, contesa oppure odio viscerale. Non ridevo quasi mai, per questo motivo le poche volte che succedeva storcevo la bocca in una piega innaturale, come se non vi fossi pienamente abituato. Una volta la nonna mi urlò ridendo: Quanto sei brutto quando ridi! Ma non ti vedi?

    Da allora non ho sorriso più in pubblico: si direbbe che abbia preso a odiare il mio viso, la mia bocca, il taglio spento e piangente degli occhi. Piangevo e mi detestavo perché lentamente i miei tratti somatici si adattavano al dolore senza nome, al senso d’abbandono che mi crescevano dentro.

    Circa vent’anni dopo avrei provato a costruirmelo, un sorriso, tramite un costoso apparecchio ortodontico e l’estrazione di quattro denti che ostacolavano il corretto allineamento degli altri. Pregai e quasi imposi ai miei con mille storie, che pagassero le cure per la mia dentatura: portai l’apparecchio per due anni, ma i risultati non furono quelli sperati. La bocca continuava ad essere troppo piccola e con la piega all’ingiù, le guance troppo paffute e importanti perché si notassero i denti nuovi. Quella fu insomma la sconfitta definitiva da parte di un destino che non mi voleva felice.

    Ed eccomi qui: Raffaele, il bambino senza sorriso.

    Solitudini, e prime esperienze con la morte

    Intrappolato all’ultimo piano di una delle tante palazzine popolari del mio paese d’origine, non sono entrato mai in contatto con bambini della mia età, almeno prima dell’asilo. C’era solo un vecchietto con cui balbettavo volentieri, alla finestra dirimpetto al balcone della cucina dei nonni: mi chiedeva come stessi, che facevo. Mi sorrideva e io sentivo di volergli bene.

    Un giorno a quella finestra si affacciò sua sorella (il vecchio era celibe e viveva con lei, essendo già gravemente ammalato di qualche misteriosa sindrome), che mi disse che il mio primo amico era morto. Io non seppi che rispondere: che significava morto? Immediatamente in me si instillarono i concetti di partenza, lungo viaggio, torto fatto a un piccolo amico che avrebbe aspettato invano il suo ritorno ancora a lungo.

    Un incontro più diretto e traumatico con la morte lo ebbi qualche anno dopo (io già fanciullo ai primi anni delle elementari) nelle stesse palazzine popolari dove vivevo con la mia famiglia. Una solitaria vecchietta di un appartamento a un isolato dal nostro era morta di punto in bianco, una mattina, dopo aver chiesto alla vicina un bicchiere di latte. Aveva lamentato un leggero malore, poi si era messa a letto ed era spirata in grazia di Dio. Immediatamente, diffusasi la notizia, iniziò il pellegrinaggio di vicini, parenti, curiosi, passanti all’appartamento della defunta.

    Resta qui all’ingresso. Non è roba per te, mi ammonì mia madre, lasciandomi solo e andando a fare le sue condoglianze ai parenti in lacrime.

    Preda di un’arcana curiosità, guidato quasi dall’invisibile scia luminosa che il destino mi approntava davanti, io mi sono spinto invece, non visto, fino alla camera da letto dove giaceva la vecchia, con un fazzoletto annodato sotto il mento, bianca e tranquilla nel suo sonno eterno.

    Ecco una morta, mi dissi, nel tentativo di produrre in me chissà quale grossa impressione. L’impatto dovette esserci eccome, anche se imprecisato, visto che a trent’anni di distanza non ho ancora dimenticato quella visione anomala, quasi fuori posto in un mondo che per un bambino ancora scoppiava di vita, di suoni e colori inesplorati, di parole e significati che più mi si sottraevano, più ero ansioso di comprendere.

    Nei decenni successivi pregai molto per quella vecchina morta nel suo letto, supplicando il mio Dio che le concedesse il riposo eterno così come mi avevano insegnato che si faceva per tutti i morti. Dopotutto, mi dicevo, "se quella è stata la mia prima morta ci sarà stata una ragione: devo pregare per lei."

    Quest’ossessione per i morti è assai diffusa in tutto il Sud: si direbbe che uomini e donne, giunti a una certa età, comincino a esorcizzare la finis vitae venerando i propri cari estinti, e impetrando da loro ogni sorta di protezione perché rimandino il più possibile la sorte nefasta che, loro per primi, li condusse all’oltretomba. Così quotidianamente si scomodano parenti e sconosciuti estinti, santi decapitati e martiri torturati, idoli sacrificati e patrioti assassinati, perché più radiosa e invincibile germogli la vita nel mondo dei sopravvissuti. Per lungo tempo io stesso sono rimasto legato a questi lacci atavici: poi ho capito che l’unica cosa che i morti ci chiederebbero (se potessero), sarebbe quella di dimenticarli, e di lasciarli finalmente andare nel vuoto in-senziente che li ha inglobati dopo un’esistenza di travagli.

    Così ho smesso di pregare per la mia sconosciuta vecchina, per il mio amico vicino morto a tradimento, e per tutte le anime dei parenti che nel corso degli anni hanno preso la via del cielo. Non del tutto, però. Una parte di noi è sempre legata alla morte di chi ci è stato caro: un eterno riposo è dovuto da tutte le anime tormentate, al rispetto per la sorte liberatrice che le attende.

    Ricordi al buio

    Anche quando finalmente (grazie alle incessanti pressioni di mia madre) traslocammo in un nuovo appartamento tutto per noi, a meno di un chilometro dai nonni, le cose non migliorarono molto. Mio padre era deciso a non tagliare il cordone ombelicale con sua madre, la nonna era sempre presente, quasi quotidianamente, a casa nostra, e mia madre sempre più amareggiata nei confronti della sua stessa nuova famiglia e di quel matrimonio che faceva acqua da tutte le parti.

    Nel mezzo c’ero io, ma già quasi più nessuno si curava di me. Ero una specie di bambolotto triste (su di me le mire e le ripicche della nonna non si erano ancora assopite), all’inconsapevole ricerca della propria, vera mamma. I primi episodi che ricordo all’interno della casa nuova mi vedono di sera, solo nel mezzo del lungo corridoio che la divideva in due metà, quasi al buio se non fosse stato per le luci dei lampioni stradali che filtravano dalle tende.

    Mia madre non c’era, io ero rimasto (a soli tre anni) assieme al mio fratellino appena nato che dormiva nella sua culla. Era come se mi fossi svegliato da un breve sonno, capendo immediatamente di essere rimasto solo. La casa era immersa nel silenzio, la portafinestra che dava sul balcone era chiusa e io mi ci sono trascinato a piedi scalzi, scosso dai brividi di panico e dai primi singhiozzi. Fuori c’era vita: la vecchia dirimpettaia mi indicò alle sue amiche come una sorta di attrazione spiaccicata contro i vetri.

    Vieni, vieni qui bel bambino.

    Ma io volevo solo che la mia mamma venisse a prendermi. Non so per quanto tempo fossi rimasto lì a piangere, disperato. A un certo punto la porta d’ingresso si aprì ed entrò mia madre, che evidentemente era uscita a fare delle commissioni credendo che non mi fossi svegliato prima del suo arrivo.

    Il punto non è: si è trattato solo un incidente, ti sarai consolato dell’angoscia provata una volta che ti sei risentito al sicuro. Il fatto è che il veloce abbraccio di mia madre, le sue parole confortanti e la sottile messa in ridicolo per il fatto di essermi lasciato andare così alla paura ("tu, un ometto di tre anni!), non sono bastati per farmi dimenticare quel trauma. Come neppure quello che seguì a qualche anno di distanza.

    La mamma e il mio fratellino erano andati dal dottore, lasciandomi solo col mio terzo fratello (io avrò avuto sette anni, lui neanche uno). Ancora una volta mi feci prendere dal panico al vedere che lei cominciava a prolungare la sua assenza: mi lavai la faccia per la prima volta da solo, e uscii in strada. Da solo, piangendo, brancolai in direzione di quello che credevo fosse lo studio medico (per fortuna a meno di duecento metri di distanza). Mia madre mi incontrò proprio all’ingresso dello studio, allora ancora affollato: mi rimproverò per aver lasciato solo l’ultimo fratello, dovette alla fine riaccompagnarmi a casa senza aver visto il dottore.

    Episodi banali, certo, ma che in qualche modo hanno segnato la vita dell’uomo che sarei stato. Da qualche parte per le strade buie di questo paese senza nome, senza gioia e senza realtà, brancola un bambino in lacrime in cerca di qualcuno che non lo abbandoni.

    Una possibile analisi

    La mia mamma ha sempre protestato di essere stata una buona madre per me (e soprattutto per gli altri due tuoi fratelli: loro si che mi vogliono bene come merito!). A me che l’accusavo di essere stata sempre un’egoista e di non avermi dato abbastanza affetto (non ricordo un solo suo abbraccio, né una parola di conforto nei miei lunghi periodi di depressione), rispondeva che era colpa mia che non lo sentivo. Il motivo era che io ero nato senza sensibilità, senza sentire affetto e senza ricompensare chi mi voleva bene per le cure che mi dedicava. Questi i rimproveri di una madre anaffettiva: dare sempre la colpa a qualcuno, anche se questo qualcuno, per natura, è diventato la sua stessa vittima.

    Mi sono sempre chiesto i motivi della durezza di cuore di quella donna, degli impedimenti che la ostacolarono nel dare affetto al suo primogenito (non parlo per i miei due fratelli, che non ho mai conosciuto davvero). Un punto cardine di questa analisi abbozzata, è di certo la sua infelicità da ragazza contadinotta e ignorante, sognante il classico principe azzurro che venisse a strapparla via da quell’ambiente di degrado in cui era cresciuta, da un padre possessivo e violento, e da una madre schiava delle convenienze e di una morale al limite del bigottismo.

    Se fossi nata ai giorni d’oggi, mi sono sentito spesso ripetere da ragazzo, non avrei mai commesso l’errore di sposarmi. Avrei studiato, mi sarei trovata un lavoro, sarei stata felice.

    Ovviamente, questi suoi rimpianti non la esimevano dalla convinzione di esser stata una madre migliore di molte altre sprovvedute, che al primo ostacolo lasciavano marito e figli e scappavano per inseguire un sogno. Quanto però di quella frustrazione per il suo desiderio infranto, si nascondeva nella cattiveria con cui mi puntava il dito contro, e mi assicurava che se fossi stato al suo posto, avrei anch’io chinato il capo sotto l’ancestrale giogo conformista, che costringeva tutte le giovinette di campagna di quell’epoca a prendere marito intorno ai vent’anni?

    La pena per la disobbedienza sarebbe stata la morsa impietosa dei parenti curiosi e chiacchieroni, la vergogna della madre di una figlia probabilmente snaturata, le voci maligne della contrada. Incapace di resistere a tutto questo, a suo dire, mia madre avrebbe ceduto al corteggiamento del papà.

    Qualcosa non mi quadra. Perché concepirmi immediatamente, addirittura fuori dal matrimonio, se si sentiva così costretta dalle convenienze? E poi perché scegliere quel giovane dalla mente così instabile, vittima della possessività di sua madre, paesano volgare e sempliciotto forse più di uno di quei rozzi contadini a cui era abituata? Credo che a strapparle l’ultimo consenso abbia giocato un ruolo determinante un particolare che lei stessa non si è mai abbassata ad ammettere: l’interesse economico, la voglia di dirsi donna di paese a sfregio delle sue amiche d’infanzia, e magari anche di migliorare un tenore di vita fino ad allora tra i più bassi della società italiana di fine secolo.

    L’interesse e l’avidità sono stati sempre due palle al piede per la donna che mi ha dato la vita: per interesse (e per la paura di perdere la casa e il mantenimento di suo marito) si costrinse a soprassedere alle violenze a cui lui mi sottoponeva, a negarle fino al ridicolo, e a diventare essa stessa la mia carnefice, per paura che io destabilizzassi il fragile equilibrio domestico a cui lei aveva sacrificato il suo desiderio di amare, di essere amata.

    L’altra metà del cielo

    E mio padre? Questo ha sempre avuto in comune con sua moglie: l’ossessione per quel che avrebbe potuto essere la sua vita se mai avesse ceduto all’imposizione di sua madre (reggente assoluta della sua volontà) di sposarsi e di procreare secondo le prescrizioni di ogni buon vivere civile. Sin da piccolissimo, sono stato costretto ad ascoltarlo lamentarsi della moglie con amici, parenti, genitori, sorelle: chi gliel’aveva fatto fare di sposare quella rozza contadina che fino al giorno del matrimonio non era neppure stata abituata ad avere un bagno in casa? Aveva avuto fidanzate di ben altro stampo, lui! Di sicuro era un bel ragazzo e i buoni partiti non gli sarebbero mancati.

    Se poi avesse voluto far vita da scapolo, ancora meglio! Tutti i soldi guadagnati col suo duro lavoro se li sarebbe tenuti lui, senza dover per forza badare alle spese familiari e ai costi di una vita in cinque.

    Neanche lui, ovvio, è stato il peggiore dei padri. Nonostante tutto non ha mai abbandonato il nido domestico, e ha continuato a sostenere economicamente me, mia madre e i miei fratelli senza troppe scenate anche quando credeva che esigessimo un po’ troppo per il suo modesto stipendio da impiegato statale. Tutto questo per gli ammonimenti della sua saggia genitrice: fa sempre comodo avere una moglie di umile estrazione in casa, eternamente sottomessa alla sua metà, e soltanto occupata a badare a dei bambini che un giorno sarebbero diventati la spalla e il bastone della vecchiaia del marito.

    Peccato che la moglie in questione lo odiasse, i bambini scappassero via una volta raggiunta la maggiore età, e uno di essi addirittura diventasse un po’ tocco ed eternamente bisognoso di cure per tenersi in vita.

    Solo molto tardi imparai che da qualsiasi figura paterna un figlio apprende innanzitutto a sentirsi forte nel mondo, ad aver fiducia negli uomini, a sentirsi sempre protetto per avere un appiglio nei momenti di difficoltà e di bisogno.

    Cosa è stato invece, mio padre per me?

    Una figura quasi sempre assente per lavoro o per i suoi lunghi pomeriggi a casa dei suoi. Eternamente in litigio con mia madre, volgare verbalmente e moderatamente violento, rozzo nei modi e nell’approccio col mondo. Credo che la chiave di questa sua instabilità psichica fosse una esacerbata immaturità, che nel morboso legame con sua madre trovava il suo innegabile caposaldo.

    Del tutto privo di spiccate qualità intellettuali, figlio della morale lassa e approssimativa del Meridione più arretrato, cercò sempre di applicare alla sua stessa famiglia una mentalità da padre-padrone che tuttavia, manco a farlo apposta, non gli riuscì mai perfettamente. Come la mamma, non aveva forse un carattere abbastanza forte per portare a termine i suoi folli piani di imposizione; o forse gli difettava proprio la volontà di concludere qualcosa di veramente importante, nell’educazione come nella stabilità del suo nucleo familiare.

    Anche se nel suo giovanile piano di studi aveva inclusi ben tre anni di scuola superiore (a differenza di mia madre, che il diploma di terza media lo prese solo dopo i quarant’anni), non dimostrò mai alcuna spiccata predilezione per la cultura. Di aspetto piacente e dongiovanni incallito, investì la quasi totalità delle sue energie adolescenziali nella ricerca di partner che soddisfacessero la sua lussuria: dopo, l’inflessibile nonna paterna riuscì a metterlo sulla retta via e a imporgli di trovarsi un lavoro. In questo campo non si può dire che fallisse: fu, anzi, piuttosto fortunato nel trovare un impiego statale nelle ferrovie, sistemandosi in età relativamente giovane e ad hoc per un decoroso matrimonio.

    Il tratto che più mi rende riconoscibile mio padre da tutti gli altri esseri umani da me conosciuti e analizzati nel corso della vita, è senza dubbio la sua indomabile, devastante ipocondria. Non ricordo un solo giorno in cui abbia confessato di sentirsi bene o di non soffrire di qualche acciacco: ogni sua pausa da lavoro, la trascorreva a letto con una benda per il mal di testa, o dal medico

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