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In giro pel mondo
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E-book377 pagine5 ore

In giro pel mondo

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Info su questo ebook

Diario di viaggio d'epoca, 'In viaggio pel mondo' accompagna i lettori in un tour immaginario dei più affascinanti luoghi del mondo. Dalla scintillante Hollywood di inizio Novecento alle località allora esotiche del Sud-Est asiatico passando per la nostrana Venezia, all'epoca incontaminata dal turismo di massa, Mura ci consegna una serie di magiche cartoline vintage per viaggiare nello spazio ma anche nel tempo.-
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2022
ISBN9788728078914
In giro pel mondo

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    Anteprima del libro

    In giro pel mondo - Maria Volpi Nannipieri

    In giro pel mondo

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1941, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728078914

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    SONO STATA A HOLLYWOOD

    I.

    VOGLIO ANDARE IN AMERICA

    Da Trieste ad Algeri.

    — Perchè tacete? — mi chiese uno dei due amici che pranzavano con me in un’osteria romana.

    — Perchè non ho voglia di parlare. Sono stanca. In questi due mesi ho molto lavorato. Ho bisogno di stare senza far nulla e in silenzio.

    — Partite allora: cercate un paese tranquillo. Dormite, leggete, pensate.

    Continuammo a mangiare in silenzio. Tutti e tre pensavamo alla mia stanchezza divenuta ad un tratto qualche cosa di sostanzialmente importante. Tutti e tre pensavamo alla maniera migliore di farmi riposare. Poi io dissi:

    — Vorrei andare in America.

    L’amico che non aveva ancora parlato disse:

    — Le donne, a volte, sono irragionevoli come i bambini.

    Io, allora, insistetti, un po’ per convinzione, un po’ per spirito di contraddizione. Ripetei:

    — Vorrei andare in America.

    — Che cosa volete fare in America?

    Pensai alla mia vecchia nonna che diceva spesso: «Sì, è andato in America a sculacciare i macachi!» parlando di qualcuno che era emigrato. Dissi:

    — Intanto comincerei col riposare durante il viaggio perchè sceglierei l’America del Sud. Quindici giorni di mare. Senza telefono, senza giornali, senza le seccature di tutti i giorni. Poi mi leverei la curiosità di vedere da vicino quest’America che conosco soltanto attraverso le corrispondenze dei giornali e i racconti di quelli che ci sono stati. Ora io sono convinta che tanto i corrispondenti come quelli che ci sono stati non dicono tutta la verità su quello che vedono. Così vorrei io...

    — Dire la verità. Comincio a non credervi fin da ora.

    — Nessuna intenzione di dire la verità agli altri. Mi basta di dirla a me stessa.

    — Volete un consiglio? Riposatevi a domicilio, e per domicilio intendo il nostro paese. Per voi che preferite il caldo, c’è la Sicilia, c’è Capri, c’è la Libia.

    — No. Ho voglia di cambiare le idee, di vedere come si vive al di là dell’Oceano, nei paesi della ricchezza e dell’abbondanza. Voglio vedere gli americani vivere da americani.

    — Partite, mia cara, se potete — disse l’amico che mi approvava. — Un viaggio in America non è un’idea irragionevole. Mi racconterete al ritorno che cosa avrete veduto. A me, personalmente, direte la verità. La verità vera. Anch’io, come voi, ho sempre desiderato di attraversare l’Oceano: morirò con questo desiderio. Soffro il mal di mare e il mio cuore è debole. Non posso arrischiare la mia vita per soddisfare una curiosità.

    — D’accordo. Vi dirò la verità.

    Due mesi dopo partivo per l’America.

    ***

    Non c’è nessuno all’imbarco che sventoli un fazzoletto per me. Niente addii patetici, niente fotografie sulla banchina con mazzi di fiori fra le braccia e il sorriso sulle labbra. Parto sola, con la sensazione di lasciare me stessa ad attendermi. Forse lascio a terra il mio cuore triste. Penso che sia meglio partire senza l’ingombro pesante del cuore: al suo posto può annidarsi l’indispensabile egoismo di chi deve contare su se stesso. Appoggiata alla murata, con le lacrime agli occhi, dico addio al mio cuore che rimane sulla banchina.

    Quasi tutti agitano le braccia, gridando gli ultimi saluti mentre la nave si sposta con insensibile leggerezza. Ho voglia di chiudermi nella cabina, di non vedere nessuno, di non ascoltare l’angoscia degli altri.

    — Abbiamo imbarcato Mura — dice una voce poco distante da me.

    — Qual’è? — chiede un’altra voce.

    — Non lo so. Non la conosco. Me l’ha detto il Commissario.

    Mi volto verso le voci, fingendo di cercare me stessa fra i passeggeri, così come gli altri mi cercano.

    — Deve essere quella signora là in fondo, vestita di blu con la pelliccia grigia: mi ricordo d’una fotografia pubblicata su un giornale...

    Allora tutti si volgono da quella parte e anch’io considero con attenzione la signora vestita di blu. È una signora giovane, con gli occhi neri e un piccolo volto chiaro e sorridente. Saluta qualcuno che è rimasto a terra, qualcuno che non so chi sia, ma che agita un cappello maschile. Saluto anch’io, per solidarietà, l’ignoto che la lontananza confonde ormai con la folla, e mi pare di non essere più tanto sola.

    Poi, quando Trieste scompare nella bruma mattinale, rientro nella mia cabina, in alto, sul ponte delle imbarcazioni. Giù, sulla passeggiata, non c’è più nessuno.

    «Abbiamo imbarcato Mura», ripeto a me stessa, e l’espressione mi riesce sgradevolissima. Come se si trattasse di una cassa da imballaggio... La mia dignità è mortificata.

    — Che qualità di passeggeri abbiamo a bordo? — chiedo alla cameriera che mi aiuta ad aprire i bagagli.

    — Un deputato, tre o quattro commendatori, una marchesa che va a Rio Grande del Sud, sei aviatori che vanno in Argentina, parecchi commercianti italiani e molte famiglie ebree straniere che emigrano.

    — Oggi faccio colazione e pranzo in cabina: non ho voglia di scendere.

    Siamo in alto mare. Provo un senso di pace così profonda e così immensa che l’orizzonte mi pare troppo angusto per contenerla. Passeggio sui ponti in alto senza incontrare nessuno. A quest’ora i passeggeri stanno cambiandosi per scendere a colazione. Sono calmissima, come se vivere sul mare fosse per me la consuetudine. Non sono nè contenta nè entusiasta, e d’altra parte a questo viaggio non chiedo nè contentezza nè entusiasmo: soltanto un po’ di pace e un po’ di esperienza. Via via che l’Oceania si allontana, dimentico me stessa e il mio lavoro e la mia casa. La sera, prima di addormentarmi, faccio uno sforzo per ricordare la disposizione dei mobili del mio studio. È come se fra ieri e oggi si fosse scavato un abisso nel quale il ricordo fosse sprofondato. Provo la prima sensazione di gioia. «Posso fare quello che voglio, posso dormire senza che la sveglia mi obblighi ad alzarmi alle sei quando ancora è buio, posso mangiare se ho fame, non mangiare se non ho appetito, senza che altri mi obblighino ad inghiottire il cibo con ripugnanza; posso leggere, conversare, tacere, secondo la mia volontà e non secondo le necessità imperiose della vita a terra. Penso alla terra con ripugnanza e invidio il marinaio che, disteso bocconi in una scialuppa di salvataggio, sospende per un momento il lavoro e, i gomiti appoggiati a una traversa, il volto fra le mani, guarda lontano sul mare. Lo invidio perchè guardando nel nulla egli sa certamente vedere ciò che la sua immaginazione o il suo ricordo vogliono vedere. Io non posso ricostruire nulla.

    Mi addormento al tramonto del sole. Il mare, mi dicono l’indomani, è stato agitato tutta la notte. Non me ne sono accorta. Quando mi sono svegliata la nave era attraccata alla banchina del porto di Napoli. Allora sono scesa fino a Santa Lucia, poi sono salita al Vomero. Il Vesuvio fuma, imbronciato, fra le nubi. Fa freddo. Allora ritorno a bordo. Quando la nave riparte le nubi sono scomparse e il sole irradia su Napoli. Mi sono isolata sul ponte dei giochi. Verso prua, chiusi nella loro gabbia, due cani maltesi abbaiano ogni volta che passo loro davanti. La baia di Napoli scompare a poco a poco. La sua magnificenza si spegne nella lontananza. Alcune finestre dai vetri nitidi colpite dai raggi obliqui del sole irradiano raggi luminosi: sembra che si incendino. Poi mare. Mare.

    Scendo a pranzo per la prima volta. La mia compagna di tavola, una signora bruna, pallida, vestita color rubino, è la stessa che gli altri avevano scambiato per me. Viaggia sola. Presentazione, conversazione. Ma sono distratta. Non so ancora adattarmi alla conversazione generica che nasce fra persone che non si conoscono e che non sanno nulla l’una dell’altra.

    Dopo domani saremo ad Algeri, visiteremo la città moderna e andremo a scoprire la Kasbah di Pépé le Moko del film di Dudivier. La mia curiosità si sveglia.

    — Fate parte della carovana che visita Algeri? — chiedo alla mia compagna di tavola.

    — No. Visitai Algeri quindici anni or sono, quando venni dal Brasile in Italia per sposarmi. Non credo che sia molto mutata. La Kasbah sarà un po’ più lurida, la città un po’ più grande. Rimango a bordo.

    Invidio la sua indifferenza e anche la sua sicurezza. Quindici anni di vita di una città si riassumono per lei in un po’ più di spazio e in un po’ più di sudiciume. Forse ha ragione: semplifichiamo.

    Dopo il pranzo, nel salone, il Commissario mi presenta un gruppo di viaggiatori. Gli stessi che dicevano: «Abbiamo imbarcato Mura». Sono gli aviatori italiani che si recano in Argentina. Giovani, coraggiosi, entusiasti. Portano con loro un’atmosfera di freschezza. Non ci conoscevamo personalmente, ma siamo in fondo vecchie conoscenze: abbiamo vissuto nelle stesse città, negli stessi paesi. Ci affiatiamo in una serata.

    Poi la vita di bordo comincia come comincia la vita di una colonia balneare.

    Quando arriviamo ad Algeri è notte. La carovana che deve visitare rapidamente la città è formata da una quindicina di persone. Gli aviatori se ne sono andati per loro conto. Due agenti, oltre il cicerone, ci attendono per proteggerci durante la visita alla Kasbah. La città è quasi addormentata e fa fresco. Gli agenti si avvolgono nelle mantelline. Gli arabi ci guardano senza curiosità. Sono ormai abituati a queste periodiche visite di turisti. Qualche ragazzo si avvicina e ci propone l’acquisto di paccottiglie che non servono a nulla. Partiamo. La parte moderna della città non attrae la nostra attenzione. Rassomiglia ad una qualsiasi città di provincia francese, con qualche tocco di colore orientale. Pochissima gente per le strade: nessuna donna. Le automobili salgono sulla collina dove si allarga la città nuova. Belle costruzioni, bei giardini, belle strade. In fondo il nucleo illuminato della Kasbah. Ci fermiamo su una terrazza-belvedere dalla quale si domina tutta la città quasi addormentata: le lampade la disegnano nitidamente. A destra il porto militare, poi quello mercantile. L’Oceania sfolgora di luci. Accanto all’Oceania è attraccato il Neptunia che torna in patria. Partirà prima di noi. Nel porto militare alcune navi da guerra dormono. L’agente che chiude la piccola colonna è loquace; preferisco le sue descrizioni un po’ disordinate a quelle standardizzate del cicerone. Poi ci dirigiamo verso la Kasbah.

    — Percorreremo la Kasbah a piedi. Le automobili andranno ad aspettarci giù, oltre il quartiere ebraico.

    — Dovremo camminare molto?

    — Circa un’ora. Vi prego di non rivolgere la parola a nessuno, specialmente alle donne. Non vi occupate dei ragazzi se ne incontriamo. Guardare e tacere.

    L’odore nauseabondo del quartiere di Algeri si annunzia non appena ci avviamo per la prima stradicciola in discesa. Per qualche tempo non incontriamo nessuno. Talvolta un’ombra scompare dietro una porta che si richiude di colpo. Riconosciamo le viuzze, la scale, i balconi del film che ha reso celebre la Kasbah volgarizzandola. Qui Pépé le Moko incontrò la spia che doveva perderlo, qui la bella straniera veniva in cerca di emozioni e di pericolo e d’amore...

    A una svolta c’imbattiamo in un gruppo di arabi accovacciati e curvi su qualcuno che si lamenta. Ci fermiamo incuriositi. L’agente ci sospinge avanti. Pericoloso fermarci. Meglio è non occuparsi di quello che accade nella Kasbah. Tuttavia l’agente torna indietro e intima il «circolate!»; poichè gli uomini non si muovono egli chiede che cosa sia accaduto.

    — Hanno accoltellato un uomo... — dice un giovanotto bruno, con gli occhi più neri della notte, staccandosi dal gruppo.

    — E che cosa aspettate a chiamare la polizia? Che il ferito sia morto? — chiede l’agente. — Via, provvedete e sgombrate...

    E si riunisce a noi che lo attendiamo con un certo orgasmo. L’uomo che ha parlato con l’agente scende quattro gradini ed entra in una specie di tana dalla quale esce il suono di una di quelle musiche arabe che ossessionavano Pépé le Moko.

    — E andato a telefonare alla polizia — commenta l’agente.

    — Scusate — gli dico, — voi non siete «la polizia»? Non potevate occuparvi di scoprire chi è il feritore?

    — Credete che sia possibile scoprire chi è il feritore? Non conoscete la Kasbah. Nemmeno il ferito tradisce chi lo ha colpito. E poi, la Kasbah non è affar mio.

    Ora ci troviamo nel quartiere malfamato. Le porte delle case sono tutte aperte e dentro le lampade sono accese. Le donne troppo scollate, con le sottane troppo corte, i corpi troppo grassi e troppo nudi, i volti troppo dipinti, sono in piedi, appoggiate contro lo stipite, oppure sedute sui gradini con le mani intrecciate sulle ginocchia. Qualcuna tiene fra le dita ingiallite dalla nicotina una sigaretta accesa. Una parola d’ordine passa rapidamente appena moviamo i primi passi nel quartiere: «Les touristes!». Allora le donne abbassano le sottane, gettano il lembo di una sciarpa sulle spalle. Sento su di me i loro sguardi severi. La nostra presenza moltiplica la loro miseria. La prostituzione è forse meno umiliante dell’indifferenza con la quale passiamo nel mezzo della strada troppo stretta, dell’attenzione che poniamo a non urtare nelle loro gambe distese, dello sforzo che compiamo per non osservarle da vicino. Pochissime sono giovani e belle. Le altre sembrano il rifiuto del mondo. E più sono disfatte, più sono truccate, più sono vecchie, e più sono impudiche e audaci. «Che belle scarpine!» dice una bionda che sembra uscita da un disegno di Lautrec, indicando i sandali di una compagna di gita, «ne farei subito delle ciabatte». Credo che per queste donne le scarpe esistano soltanto sotto la forma di ciabatte. L’odore che esce dalle stanze senza finestre, odore di cipria, di chiuso, di sudore, di sporcizia, è insopportabile. Rigagnoli d’acqua sporca stagnano sull’orlo della strada. Intravedo qualche letto con le lenzuole ripiegate, luride. Provo un senso di nausea che non sa mutarsi in pietà.

    Di tanto in tanto una porta chiusa ha appeso un cartello: «Casa onesta». E un altro: «Qui abitano persone oneste». La distinzione è necessaria. Le donne s’accorgono quando ci soffermiamo a leggere e commentano, sghignazzando. Una mi domanda: «Che cosa vuol dire «Casa onesta»?

    In mezzo a questa miseria fisica, morale e spirituale, i bambini vivono per la strada, imparando fin da piccoli a guardare il vizio come necessità di vita. Come può sorgere un uomo onesto da un bimbo nato nella Kasbah?

    Ora siamo nel quartiere ebreo.

    Qui la strada è più larga, i negozi sono più decenti, tutti ancora aperti e illuminati. Molta gente è seduta ai tavolini disposti dinanzi ai caffè. Poi scendiamo l’ultima scalinata e rammentiamo l’addio alla Kasbah di Pépé le Moko. Lasciamo dietro di noi la città araba, l’inguaribile cancro di Algeri. Respiro profondamente per disinfettare i polmoni. Gli agenti ci lasciano. La Cattedrale è chiusa, la Moschea è chiusa. Sulla strada principale della città la popolazione europea invade i caffè, i cinematografi, le sale da ballo e quelle degli spettacoli di varietà. La sirena dell’Oceania urla il suo primo richiamo. Conviene tornare a bordo. Il Neptunia, al largo, si allontana dolcemente. Fra poco ci allontaneremo anche noi in direzione opposta.

    Quando la nave si stacca dal porto, la sola parte della città che attira la nostra attenzione è la Kasbah. Essa ha lasciato dentro di noi una sensazione di vuoto che diviene spavento. Forse anche paura. Abbiamo visto fino a qual punto una creatura può diventare miserabile.

    Appoggiata alla murata di prua, guardo la Kasbah con un senso di raccapriccio e penso a Bombay e alle sue donne accovacciate dietro i piccoli cancelli di legno che le fanno apparire in gabbia, e penso a Ceylon come si pensa alla disperazione.

    Sento il bisogno di guardare le stelle per ricevere un po’ di purezza.

    II.

    RITORNO DA HOLLYWOOD

    Comincio la mia serie di ricordi di Hollywood dal ritorno invece che dalla partenza. Ritornare, vuol dire fare un bilancio di quello che s’è visto e vissuto, vuol dire tirare le somme del dare e dell’avere d’una partita di viaggio ch’è durata quasi quattro mesi. Ho lasciato Rio de Janeiro il primo di marzo, subito dopo le indimenticabili feste carnevalesche: ritorno il 23 giugno con qualche esperienza di più, con molte curiosità appagate, con molte illusioni spente, e con una convinzione, questa: è sempre meglio accontentarsi della propria illusione e non voler mai guardare la realtà.

    Sono contenta di ritornare a Rio de Janeiro, così dolce e riposante dopo l’affannosa esistenza nord-americana. Rio de Janeiro, tutta verde sul mare, con le soavi colline che s’inchinano al cielo, e la chiara spiaggia inondata di sole, mi appare ora come una mèta di felicità. Il grande Redentore mi attende con le accoglienti braccia spalancate: si sente il bisogno di inginocchiarsi. Ed io so che in una sera di plenilunio, mentre il sole tramonta, salirò a godermi lo spettacolo della città che s’accende per incanto, e so che avrò gli occhi pieni di lacrime e il cuore gonfio di emozione.

    Viaggio sul Southern Prince, piccola nave coraggiosa che fila dritta e sicura sull’agitato Oceano. Una pausa di tranquillità e di raccoglimento fra due paesi opposti in tutto: nell’aspetto della natura, nello svolgersi dell’esistenza quotidiana, nel clima. Nuova York, ultima sosta del mio viaggio, Rio de Janeiro punto d’arrivo. Penso che se la World’s Fair invece che a Nuova York fosse a Rio de Janeiro ci sarebbe da chiedersi se Dio è veramente brasilero.

    Buona compagnia a bordo. Americani, brasiliani, argentini, giapponesi, italiani. Per la verità, come passeggero, sono la sola rappresentante dell’Italia. L’Argentina è rappresentata dalla scienza medica, l’America da giovani e rumorosi studenti, il Giappone da un silenzioso e studioso professore non so di che Facoltà, il Brasile da una famiglia deliziosa di belle figliole, giovani, fiorenti, fresche come il mattino a primavera: la famiglia Monteiro. E da due personaggi che non possono passare inosservati: il signor Getulio Vargas jr., figlio del Presidente Vargas, e il signor Garcia de Souza, aviatore.

    Getulio Vargas jr. ha lasciato la Johns Hokin Univers. nord-americana dopo il penultimo anno di studio e torna a casa per le vacanze. Ancora un anno di Nord-America e conseguirà la laurea d’ingegnere industriale. Una buona preparazione per la vita.

    Egli è forse il più gentile dei passeggeri che abbiamo a bordo. Non molto alto, più giovane della sua età, sorridente sempre, un po’ incomprensibile qualche volta, guarda nel mondo con i sereni occhi del padre e sorride con la dolce bocca della madre. Ha il volto di ragazzo quieto, con la fronte alta e intelligente, e due occhi scuri che potrebbero diventar crudeli se il cuore lo volesse. La sua apparenza fragile nasconde una forza che troverà la maniera di rivelarsi non appena sarà urtata dalla vita e sollecitata dalla lotta. Certi suoi gesti brevi, mitigati da una gentilezza di forma e di educazione, rivelano l’energia futura.

    — Progetti per l’avvenire?

    — Esercitare la mia professione e lavorare molto.

    Una buona confessione per un giovane che potrebbe considerare la propria vita con più facilità.

    — Politica? Non vi interessa la politica?

    Socchiude gli occhi contro il sole e scuote il capo.

    — No. Niente politica. Preferisco qualche cosa di più positivo, che dipenda da me stesso, dalla mia fatica, dalla mia volontà e non dagli eventi. Non amo la politica.

    — Diplomazia? Dal figlio d’un uomo politico, la diplomazia è il meno che ci si possa aspettare.

    — Nemmeno la diplomazia. Preferisco impiegare le mie energie nella soluzione d’un problema industriale anzichè nel gioco ininterrotto delle imboscate verbali e delle discussioni troppo spesso inutili, e sempre interminabili come un gioco di scacchi. E non mi piace giocare a scacchi. Sono un uomo positivo: amo il lavoro che è il risultato sicuro d’una operazione matematica. Il lavoro che è il risultato della mia volontà e della mia cultura e della mia intelligenza, senza giochi di parole e senza trabocchetti.

    Parla quietamente, sorridendo, e le sue parole sono leggere come il suo sorriso. L’espressione del volto è ancora quella d’un fanciullo, i pensieri e la volontà sono già d’un uomo. A considerarlo con attenzione c’è da rimpiangere che non abbia scelto la carriera diplomatica. Con quel suo aspetto di gentiluomo che sa rendere il proprio volto cortesemente inespressivo, avrebbe potuto diventare un diplomatico abilissimo e temibilissimo, se è vero che la prima dote di un diplomatico è quella di poter mostrare al proprio avversario un volto capace di chiudere la porta a qualsiasi espressione. Ma ecco che, di colpo, il volto dell’uomo che ragiona seriamente della propria vita di domani ritorna fanciullo e sorridente: ora è facile leggergli i pensieri nel sorriso e nello sguardo.

    — Quante lingue straniere parlate, oltre il portoghese, s’intende?

    — L’inglese, perfettamente. Il francese, come uno straniero. E lo spagnolo.

    — Niente italiano?

    — Qualche parola. Ma se non parlo italiano, riesco quasi sempre a comprenderlo. Specialmente se viene parlato senza fretta.

    D’accordo su questo. E d’accordo anche che egli è felice di ritornare nella sua bella città, nella sua casa, nella sua famiglia. La vita dello studente negli Stati Uniti è più divertente e più interessante che altrove, ma, come nella vita militare, a un certo momento si torna volentieri a casa, anche se ritornare a casa vuol dire «diventare un uomo serio» e dire un po’ addio alla giovinezza.

    Non rivolgo altre domande a Vargas jr. Che altro potrebbe dirmi? Nella vita d’un giovane che non ha problemi difficili da risolvere, gli interrogativi cominciano ad aver valore quando un po’ della giovinezza se n’è andata. Per ora la giovinezza è viva e fervida: meglio è goderla. Danzare, giocare a tennis, nuotare nella piscina, conversare con le belle ragazze... Le belle ragazze! Guardo per un momento il giovane Vargas che mi stringe la mano. Attento, amico! Da un uomo come voi le donne chiedono più di quanto possono chiedere a un altro uomo. Il vostro aspetto gentile crea attorno a voi un’atmosfera nella quale le donne cercano quello che non sempre trovano, quello di cui hanno bisogno più che d’ogni altra cosa. Cercano ciò che le ragazze nord-americane chiamano romance: dovete portare, nella vita, insieme col positivo che vi accompagnerà nel lavoro, quel tanto di poesia che vi farà perdonare qualche volta di essere un uomo forte con una volontà inflessibile, e forse crudele.

    — Oh, boy!

    Non c’è da dubitare. «Oh, boy!» gridato a pieni polmoni, vuol dire: «Io, Garcia de Souza, aviatore, sono qui, guardatemi!»E non è possibile resistere al richiamo. Garcia de Souza arriva nel gruppo dei passeggeri con la macchina fotografica a tracolla. Vuol fotografare tutti, promettendo a tutti una copia della fotografia quando sarà stampata: bisogna ubbidirlo e metterci in posa. È l’uomo più rumoroso e divertente che io conosca. Basta un suo: «Oh, boy!» per inoculare il buon umore in un momento di nostalgia silenziosa. Ha lo spirito fervido e alacre dell’aviatore che rassicura i passeggeri del suo apparecchio con un sorriso e una strizzatina di occhi. «Fidatevi di me, ragazzi, vi porto in cielo e vi rimando in terra senza pericolo!». Egli viaggia per studiare l’organizzazione dell’aviazione nel mondo. Ha studiato l’organizzazione tedesca, quella francese, quella inglese, e ora s’è occupato di quella nord-americana. È autore di un libro sull’aviazione intitolato: Aviaçao civil. Un lavoro complesso, interessante, documentario sull’aviazione brasiliana, con una breve prefazione del Presidente Vargas.

    — Ve ne darò una copia — promette. E quello che è sorprendente è questo: mantiene la promessa. Ho il libro sulla mia scrivania. Copertina bianca, parole azzurre: sembra che abbia le ali.

    — Verrò certamente in Italia nel 1942 — mi confida sottovoce, come se si trattasse d’un segreto. — Quando avrete la grande Esposizione Mondiale. Desidero molto tornare in Italia. Vi fui alcuni anni or sono, in volo, soltanto per due giorni. Che cosa sono due giorni in Italia quando ci si deve occupare e preoccupare del proprio apparecchio? Nulla. Ho avuto il tempo di assaggiare i vostri spaghetti e di ritornare in Brasile. Abitavo in un albergo di piazza Navona: il Bristol se ricordo bene. M’è rimasto il desiderio di conoscere l’Italia...

    — Ebbene, nel 1942, se vi ricorderete ancora della vostra compagna di viaggio, venendo in Italia, avvertitemi. Vi farò conoscere io il mio paese: sarò la vostra guida. Sono sicura che non dimenticherete mai più l’Italia. Ma dovrete condurre con voi vostra moglie e vostro figlio.

    Ora ha gli occhi lucidi di emozione. La moglie che riabbraccerà dopo parecchi mesi di assenza, il bambino che lo chiamerà di nuovo «papà». Egli è aviatore, il suo bambino sarà aviatore, i suoi nipotini saranno aviatori: ne è sicuro. Egli è il primo d’una nuova stirpe di audaci.

    La nave corre veloce: fra due giorni saremo a Recife, poi Rio de Janeiro, col suo porto miracoloso e il Redentore benedicente. Sulla banchina sventoleranno i fazzoletti di quelli che vengono a ricevere gli amici. In disparte, come sempre, invece di guardare la banchina, guarderò il cielo e le colline di Rio. Nessuno m’aspetta in nessuna parte del mondo. Parto, arrivo, riparto. I miei bagagli si riempiono di giornali, di fotografie, di libri, il mio cuore si riempie di ricordi e di emozioni. Ma alla partenza e all’arrivo sono sempre sola. È questa la mia forza: quella che mi permette di girare da sola per il mondo, di guardare la vita degli altri, di studiarne le vicende, senza lasciare un po’ del mio cuore dietro di me.

    Lontana, sul mare, mi aspetta soltanto Rio de Janeiro: la più bella città del mondo.

    III.

    PARTENZA PER HOLLYWOOD E ARRIVO A LOS ANGELES

    La nave parte da Rio de Janeiro in una trionfale notte di stelle: è da poco passata la mezzanotte e rimaniamo a lungo sui ponti perchè la baia di Rio è una incantatrice che ha sempre nuove attrattive per trattenere chi di essa è innamorato. A lungo, di lontano, vediamo il Redentore acceso di luce viva e chiara, come se scendesse o se salisse in cielo. Durante il viaggio, nelle notti più cupe, quando la nave è avvolta nell’impenetrabile manto notturno e anche la scia candida scolora nell’oscurità, chiudendo gli occhi, ho riveduto la radiosa luce del Redentore in una corona di stelle, e mi sono sentita rinfrancata. Quindici giorni di navigazione, non sempre calma, con una breve sosta a Trinidad in una mattina quasi fredda. La vita a bordo è così deliziosa, così varia e così riposante, che non vorrei arrivare in porto. Quando la nave si avvicina a Nuova York, piove. Una pioggerella fine, gelida, nebbiosa: una pioggia cittadina e nordica. Le colline che coronano la baia appaiono velate, e non possiamo che indovinare la statua della Libertà. I docks sono chiusi, abbandonati come tante botteghe in un giorno di sciopero, e le saracinesche abbassate e grigie hanno tutta l’espressione dei volti chiusi e inespressivi che respingono.

    Il Northern Prince attracca lentamente. I passeggeri sono tutti sui ponti. Pellicce e paltò dopo due settimane di costume da bagno e di abiti bianchi. Ci guardiamo con un’aria di sgomento. Molti di noi non conoscono l’America del Nord, alcuni scendono per la prima volta su questa terra straniera, per tentare una vita nuova, per cominciare un nuovo lavoro. Parlano soltanto poche parole d’inglese, e non possono dimenticare il castigliano di Buenos Aires e il portoghese di Rio de Janeiro.

    Nuova York, così corrucciata, appare inospitale: nessuno lo confessa apertamente, ma tutti abbiamo un po’ di paura. Durante tutto il viaggio abbiamo parlato di Nuova York con una specie di spavalderia: la stessa spavalderia dei bambini che si mettono a cantare quando debbono attraversare una zona buia. Improvvisamente, ciascuno di noi si sente solo: l’amicizia che per quindici giorni ci ha uniti tutti finisce. Dinanzi alla nuova vita ciascuno deve battersi con le proprie armi.

    Lo sbarco è semplice, ordinato, matematico. Siamo tutti incanalati come un gregge, con un numero di controllo. Non abbiamo tempo di

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