Lungo il sentiero delle trasparenze
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Anteprima del libro
Lungo il sentiero delle trasparenze - Felice Foresta
Hikmet
1.
La tela smeriglio del tempo pareva aver inamidato le ultime smorfie di vita della panchina che dimorava al centro di piazza mercato. Rassegnato e ospitale fino all’indifferenza, il ripiano consegnava l’ultima resistenza di uno spicchio di graniglia o travertino – oramai non si capiva più di che materiale fosse – sempre alle stesse persone, sempre allo stesso velluto stinto di calzoni grigi e logori, sempre agli stessi vecchi, ai loro occhi raminghi e spenti. Tutti quelli che vi si sedevano, fosse solo per un fugace riposo o per la consueta sosta in attesa di licenziare l’ennesima giornata inerte, da quella posizione avevano modo di osservare il passeggio timido del paese, la declinazione giornaliera dell’abitudine e dell’attesa dei negozianti, e la divisa della guardia municipale, una macchia nera che, ogni anno, diventava sempre più larga ondeggiando nervosamente.
Tutte le volte che ero passato da lì, quei vecchi mi erano apparsi perduti, in silenzio e solitari com’erano. Solo di tanto in tanto sembrava che rimestassero i loro pensieri ad alta voce, sull’orlo di respiri corti e catarrosi che inibivano, però, ogni spicciola velleità di compiutezza. Ogni giorno era così, da anni. Estate e inverno. A mezzogiorno e a sera. Sempre, tranne il pomeriggio. Il pomeriggio – avevo sentito dire da uno di loro in una lingua ruvida e patinosa al tempo stesso, un misto di dialetto e nostalgia – serve a governare un sonno che è profondo ma dura poco, non quanto quello della notte, che sfugge ed è amico della morte.
Era di sabato, di sabato pomeriggio. Cosimo – il suo nome lo avrei appreso al termine del nostro incontro – però non doveva essersene accorto. Per lui, i giorni erano ormai tutti uguali. Estate e inverno. A mezzogiorno e a sera. O, forse, quel giorno era solo diverso. E poi, quel giorno, era stranamente in compagnia.
Era appena adagiato sulla panchina al centro di piazza mercato, quasi avesse il pudore di infastidirla. Aveva lo sguardo curvo, rivolto a est perché il sole era già sorto e non faceva più male ai suoi occhi che erano diventati un intreccio di vene coralline, ingrossate dal vento e dalla vanga. Il vento e la vanga – mi avrebbe confidato l’ultima volta che ebbi la ventura di parlargli – erano stati i suoi compagni per più di cinquant’anni nel piccolo campo ai piedi della montagna, più longevi dei compagni di partito che avevano smesso prima di credere all’idea di cambiare quel maledetto posto.
Una figura sbieca e di mezza età, estorta all’affannoso riposo del vecchio, gli vagava di fianco, tra l’orlo della panchina e il profilo della ringhiera che proteggeva il piccolo e malconcio prato intorno alla grande statua del filosofo, unico vanto del paese. Aveva le maniche della camicia appena arrotolate, quasi sin sotto il gomito, occhiali – credo – da sole e una biro nella sinistra che agitava confusamente.
Sembravano scambiarsi parole masticandole, più gesti che suoni, quei due. In verità Cosimo raccontava, l’altro annuiva e ascoltava soltanto. Ascoltava e annuiva, rimanendo in sospensione quasi si trovasse al confine tra la realtà e la finzione. Un limbo su cui era rannicchiato e non sapeva uscirne. Forse, semplicemente, non voleva allontanarsene, e i suoi movimenti erano una recalcitrante forma di difesa.
Ero in un paese che non mi apparteneva ma che sentivo mio per le tante volte che da lì avevo fatto esordire la mia militanza nella presuntuosa idea di conoscere luoghi che associavo agli antichi e fascinosi ricordi della letteratura greca affastellati durante gli anni del liceo. Non trovando l’abbrivo per un nuovo cammino, dettato dal suggestivo racconto su un cristogramma espropriato a un’antica raccolta di novelle locali, mi avvicinai alla panchina al centro di piazza mercato, rimasta, nel primo pomeriggio di un giugno appiccicoso e pallido, l’ultimo presidio per recuperare coordinate e direzione. Lasciando qualche metro di agio alla confidenza, cominciai a chiedere informazioni.
Il sole era alto ma Cosimo, prima di rispondermi, si sistemò ugualmente il berretto, alzò e abbassò più volte e con cadenza millimetrica la testa e, infine, allungò, per prudenza, la mano sinistra sulla fronte per proteggere il suo fascio di vene coralline dai raggi, non più insolenti ma solo saltuariamente fastidiosi.
«E chi sacciu», rilanciò senza scomporsi e senza indugiare.
Avvertii un freddo fuori stagione calare sulla mia ingenua curiosità. Cosimo, intuendo ci fossi rimasto male, si rivolse allora verso quella sagoma indistinta di cui continuavo a non percepire né il volto né la voce. Non cercava conforto, ma solo il filo di un discorso intimo, quasi una confessione, che io avevo inavvertitamente e, forse anche bruscamente, interrotto.
Provai, allora, ad arricchire la mia malferma richiesta d’aiuto con il puntello di una parola, laura, della cui incongruenza mi accorsi subito, tanto da affrettarmi a tradurla in una più banale.
«Sì, la grotta, quella famosa. Quella con dentro il cristogramma... beh, come dire, con il segno... il simbolo con il nome di Cristo che dovrebbe essere stato inciso sulle pareti di una grotta, di quella grotta...», cercai di giocarmi tutte le carte, aggrottando la fronte e i sostantivi per lo sforzo.
Cosimo biascicò due parole coniugate al condizionale e affidate alla cautela delle sue braccia allargate sino alla soglia del dolore. Questa volta, però, fra gli stenti di un italiano remoto – aveva temuto, forse, che la mia delusione fosse dipesa anche dalla neutra ostilità della sua risposta – aggiunse:
«La grotta? Quale grotta? E che c’è nella grotta? Ah, forse ho capito. La grotta di quelli che studíano? Dovete andare per la strada della gibbia, quella ormai quasi vuota, che torno-torno, se vi va bene, potete pure vedere qualche culivatta russa».
Compresi subito che la gibbia doveva essere qualcosa che aveva a che fare con l’acqua, un abbeveratoio magari, immaginai pure una vasca, o solo un recipiente o qualcosa di similare, ma la culivatta – che, certamente, doveva essere rossa – no, proprio no. Non avevo capito cosa fosse. Immediatamente interrogai – un «Che cosa?», abortito fra il serio e il faceto – con gli occhi Cosimo che, questa volta, manifestò tutto il suo dissenso ignorandomi. E, ovviamente, non rispondendo.
Mi vergognai di insistere, salutai e, non nascondendo la mia insoddisfazione, feci per andarmene attratto dall’insegna luminosa e multicolore dell’American Bar. Fu in quel preciso momento, però, che mi fermai e che tornai, non so perché, con lo sguardo all’indietro. Vidi Cosimo riprendere a raccontare. L’altro, invece, piegato sulle ginocchia quasi pregasse, sembrò si fosse messo a scrivere su un foglio ancora intonso. Appena mi voltai, quello interruppe e, sempre, senza guardarmi, trovò le parole per rassicurarmi: «No, non può sbagliarsi... mio zio non glielo ha detto – sa come sono gli anziani, danno tutto per scontato – quello è l’unico posto dove si trova ancora qualche esemplare di libellula rossa... se è fortunato, prima che faccia buio, ha più possibilità di vederne almeno uno. Quando sale l’umidità, di solito qualche libellula rossa si avvicina sempre al vecchio invaso. È proprio particolare, e poi il rosso in campagna fa sempre un bell’effetto».
Non solo il cammino, ma anche l’arcano era svelato. Cercai così un modo frugale per ringraziare. Non lo trovai, ma almeno avevo capito il significato di quella parola, e, soprattutto, avevo capito che quello dovesse essere un segno. Prima di allontanarmi, quasi per sdebitarmi, rimasi a guardare ancora per un po’ verso la panchina. Cosimo aveva ripreso a raccontare. Il nipote annuiva e ascoltava. Ascoltava e annuiva, e ora aveva iniziato anche a scrivere.
Ci sono paesi, pensai. Poi ci sono angoli di vita, d’inquietudine e di memoria.
2.
Non avevo mai visto una libellula rossa. In verità, non sapevo neppure che esistesse. Eppure di campagna ero stato abituato a vivere sin da piccolo, educato a raccoglierne ogni sfumatura di regole e colori.
Cosimo aveva ragione, riuscii a vederla. Quando me la trovai davanti, in quella pozza d’acqua madida di stagno, impigliata in filamenti d’erba molliccia che pareva marcia, il suo rosso, però, lo trovai finto. Troppo netto, troppo perfetto per non spezzare senza rompere l’anonima bellezza di quel posto, e per non lasciare briciole.
Ero appena giunto nei pressi di quella grotta, un tempo – avevo letto da qualche parte – dimora abituale di un mistico. Le piccole incisioni, visibili anche a un occhio poco incline, non lasciavano dubbi, erano aneliti di trascendenza e di preghiera. Il monte Consolino le aveva custodite per secoli. Le avversità e il silenzio si erano infranti invano su quella roccia. Nessuno avrebbe potuto profanare grafiti e segni che dominavano su una parete imperlata da gocce di umidità che sembravano lacrime, forse un po’ troppo pastose.
Pochi, in passato, erano entrati a far parte della schiera degli eletti. Pellegrini, studiosi, viandanti senza meta, cristiani senza credo. Adesso, solo caparbi transfughi della realtà erano capaci di raggiungere quella grotta, e, forse, la libellula rossa. Lei aveva un privilegio: le ali e la luce del mantello rosso, che le servivano per vincere l’inaccessibile ostilità di una feritoia appena accennata sulla schiena della montagna.
Nonostante l’arsura soffocante di un sole che non pensava per nulla ad allentare la sua morsa, quella pozza d’acqua sudava ma resisteva e riusciva a mantenere la soglia minima di vita per una vegetazione melmosa e attorcigliata come un fascio di alghe in cattività. Alla libellula iridescente, invece, quella pozza, nonostante la fanghiglia riottosa e i giunchi dimessi che galleggiavano senza tregua, sembrava porgere una superficie di cristallo e argento. Quella pozza sembrava farsi sostanza e al contempo rifrangenza, come la luce ammainata di una teiera antica.
Ne fui attratto per richiamo e per istinto.
Quell’insetto, nella sua insignificanza, avrebbe potuto volare, ronzarmi intorno, pungermi o solleticarmi, o solo ignorarmi. Non lo avrei notato se non fosse stato per quel carico di vita rosso sangue che animava le sue lunghe ali e le sue zampe sottili.
Osservai a lungo la libellula rossa, come un bambino che per la prima volta s’imbatte in qualcosa che pensa esista solo nelle fiabe. Mi sforzai di cogliere tutte le gradazioni di colore e di forma. Mi avvicinai cercando di contenere al massimo il rumore dei miei passi. Trattenni pure il respiro temendo che potesse agitarla e farla volare. Lei sembrò capire l’inerme curiosità infantile che tradivo. Rimase ferma, immobile, di una fissità irreale. In bilico su una cannuccia di palude ancora turgida, ricordò il rigore e la leggerezza di una ballerina adagiata sulle punte.
Fu proprio in quell’istante, fu per quell’impasto di equilibrio ed eleganza che dispensava una quiete innaturale, che pensai a un’improbabile leggenda della libellula rossa. Inventarla, costruirla, scriverla, e poi magari leggerla in qualche libro di scuola elementare. Confessai a me stesso che sarebbe stato bello. Ero andato oltre, però, mi corressi e pensai fosse solo un desiderio spuntato. O, forse, riannodando i fili dei pensieri, solo un segno. Nessuna menzogna.
Dopo la salutare quiescenza che mi ero imposto, avevo voglia di riprendere a scrivere, e forse ne sentivo pure la necessità. E quello era stato davvero il segno.
Era trascorso un bel po’ di tempo da quando avevo licenziato la mia ultima velleità letteraria, e adesso avvertivo la nostalgia di rimettere in moto il mio io. Aprire un foglio dal volto bianco e riprendere il cammino furono una cosa sola, la sensazione che si avvicinò a me senza fare rumore, forse sollecitata dall’eterea serenità di quel luogo. Una serenità che evaporava dal presente e che sconfinava nella suggestione incontrollata della leggenda.
No, la leggenda della libellula rossa m’intrigava ma no, non sarei stato capace di raccontarla, mi dissi compiacendomi per un moto di onestà che sapeva di resa. Avrei voluto