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I racconti del destino
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I racconti del destino
E-book275 pagine3 ore

I racconti del destino

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Info su questo ebook

Dodici racconti in bilico tra la vita e la morte. Un unico filo conduttore. Il destino.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2015
ISBN9788892508538
I racconti del destino

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    Anteprima del libro

    I racconti del destino - Luca Bilancioni

    Ringraziamenti

    IN FUGA

    Correva. Con tutto il fiato che aveva in corpo, quel dannato.

    Non mi aspettavo una reazione così fulminea. Nello stesso istante in cui mi ha visto ha capito chi fossi e mi ha caricato come un toro, colpendomi con la testa al centro dello stomaco.

    Mentre boccheggiavo, imprecando per la mia ingenuità, si è lanciato di corsa dalle scale del suo appartamento.

    Pur dolorante, mi sono ripreso in pochi istanti dandomi all’inseguimento.

    Sono sempre stato molto rapido, ma lui aveva la paura dalla sua. La paura di ciò che lo attendeva.

    Arrivai in strada e lo individuai in fondo alla via. Ripresi dunque a correre in quella direzione.

    Come sempre ero vestito con abiti semplici, il che mi avvantaggiava. Lui invece appariva più impacciato. Era in giacca e cravatta, probabilmente stava per uscire e andare al lavoro.

    Convinto di avermi seminato si infilò in un bar. Entrai a mia volta.

    Il locale era molto grande e affollato. Non vedevo il mio uomo da nessuna parte. Scrutai i singoli volti, molti dei quali mi guardavano incuriositi, ma nulla da fare. All’apparenza l’avevo perso. Sarebbe stata la prima volta. D’altronde non c’erano altre via di uscita.

    Mi rimaneva solo il bagno. Doveva essere lì per forza. Ma rimasi presto deluso. Era solo un cesso vuoto, senza nemmeno una finestra da cui scappare.

    La rabbia cominciò a montarmi rapida nel cervello. Dovevo pensare e in fretta.

    Tornai al centro del bar e mi accorsi che c’era un’uscita di sicurezza posteriore seminascosta, vicino al bancone. Doveva essere passato da lì, dannazione a lui, e ormai l’avevo perso. Tuttavia sapevo dove trovarlo.

    Uscii rapidamente dal locale e raggiunsi la mia auto, che si trovava a pochi isolati da lì. Partii immediatamente alla volta della mia destinazione, un moderno grattacelo al centro della città.

    Parcheggiai di fronte all’ingresso e lo raggiunsi. Nessuna traccia del fuggitivo, ma in cuor mio ero convinto che l’avrei beccato esattamente dove pensavo che fosse.

    Entrai e con passo sicuro salii sull’ascensore premendo il tasto del quarto piano.

    Appena uscito, mi trovai di fronte alla porta di un ufficio. L’insegna dorata recava una scritta molto semplice: Tramonto S.p.A.

    Aprii lentamente la porta, e mi trovai in un ambiente che ben conoscevo. Elegante. Invitante. Suadente. Al centro, in piedi, il mio uomo in preda a una fervente agitazione. Un fiume di parole irrefrenabile usciva dalle sue labbra per andare a riversarsi sul suo interlocutore, un bell’uomo brizzolato sulla quarantina, che lo ascoltava con apparente noncuranza, comodamente seduto alla sua scrivania.

    Non mi aveva sentito arrivare. Meglio così. Mi avvicinai lentamente, non volevo sporcare.

    Il mio braccio destro avvolse il suo collo, la mia mano sinistra si posò sulla sua testa. Non fece nemmeno in tempo a realizzare che cosa gli stesse accadendo. Un movimento fulmineo, una rapida torsione e lui crollò ai miei piedi. Morto.

    Il suo destino, inesorabilmente, si era compiuto.

    Rimasi per alcuni istanti a guardarlo, in attesa di quello che mi avrebbe detto la persona seduta alla scrivania, che nel frattempo non aveva mosso un muscolo. E sapevo che non sarebbero stati complimenti.

    <> esordì. <>

    Lo guardai negli occhi, e attesi alcuni istanti prima di rispondere.

    <> gli dissi. <>

    Lui mi rispose sorridendo, cosa che faceva di rado: <<È vero, ma come sai, viviamo in un mondo di eterni indecisi e chi, come te, ha scelto di fare l’assassino di suicidi, talvolta deve aspettarsi che anche chi paga per morire possa cambiare idea.>>

    <> replicai, confermando le sue parole. Dopo di che, sorridendo a mia volta, me ne andai senza aggiungere altro, silenzioso come ero venuto.

    IL TUNNEL

    Pioveva a dirotto. A malapena vedevo la strada.

    La giusta punizione per aver deciso di mettermi in viaggio proprio quella sera, stanco com’ero dopo una settimana di super lavoro.

    Fortunatamente ero quasi arrivato a destinazione. Ancora una galleria e sarei potuto uscire dall’autostrada.

    Vi entrai armato di buona pazienza, consapevole che si trattava di un tunnel famoso per la sua estensione.

    Percorsi alcuni km armeggiando con l’autoradio, dato che lì dentro il segnale era decisamente ridotto, prima di notare una stranezza.

    L’illuminazione era molto scarsa, ben peggio di quanto mi ricordassi rispetto all’ultima volta che ero passato da quelle parti. Inoltre pareva affievolirsi man mano che procedevo.

    Poco male. Le luci dell’auto servivano bene a questo.

    Andai avanti prestando attenzione a non farmi tradire da eventuali colpi di sonno. Poi, di colpo, la luce sparì del tutto. E con essa se ne andò anche la piacevole musica che ero finalmente riuscito ad ottenere.

    Emisi un verso di insofferenza mentre accendevo i fari abbaglianti. Cominciai ad avvertire una sensazione di disagio. Volevo uscire di lì il prima possibile.

    Mentre premevo il piede sull’acceleratore, aumentando la mia andatura, feci caso ad un’altra cosa che mi incuriosì. Notai che ero solo. Nessun altra auto, né davanti né dietro di me. Solo nel buio più assoluto, rischiarato dai soli fari della mia auto.

    Non so perché, ma quella constatazione aumentò la mia sensazione di fastidio.

    Preso dai miei pensieri, quasi non mi accorsi di ciò che mi si parò davanti. Da un momento all’altro, infatti, i miei occhi videro una cosa assurda, talmente assurda che impiegai alcuni istanti ad accettarla. Frenai bruscamente per non andarmi a schiantare.

    Davanti a me si ergeva un muro. Un muro di solidi mattoni che mi sbarrava la strada, abbracciando l’intera galleria.

    Ero sbalordito. Rimasi ad osservarlo interdetto per diversi istanti, incerto sul da farsi. Dietro di me il nulla.

    La curiosità prevalse sulla prudenza. Decisi di scendere per osservarlo meglio. Spensi il motore lasciando i fari accesi e mi avvicinai a quell’improbabile sbarramento. Volevo toccare quell’assurdità con mano.

    Era vero. Un muro costruito pietra su pietra, chissà da chi. Un pazzo probabilmente.

    Mi dissi che se si fosse trattato di un’opera autorizzata, avrebbero dovuto mettere dei segnali, deviato il traffico o qualcosa del genere. Mi domandai come tutto ciò fosse possibile. Ma non trovai alcuna risposta.

    Decisi che era inutile continuare a lambiccarsi il cervello. Quella dannata galleria era fuori uso, che mi piacesse o no.

    Imprecando, giunsi alla conclusione di non avere altra scelta se non quella di rimontare in macchina e invertire la marcia, tentando di raggiungere il varco che avevo notato poco prima. Un punto di raccordo con la corsia opposta.

    Appena misi in moto ebbi tuttavia l’ennesima spiacevole sorpresa di quella giornata. Il motore non voleva saperne di ripartire.

    Mi domandai come fosse possibile. Mi precipitai a guardare il contatore della benzina e vidi con disappunto che ero rimasto a secco.

    Eppure ero convinto di essere entrato in riserva appena pochi kilometri prima. Tentai di guardare sotto l’auto per individuare eventuali perdite, ma non vidi nulla di anomalo.

    Il panico cominciò a impadronirsi di me. Non ero tipo da spaventarsi facilmente, ma l’idea di essere al buio, in mezzo al nulla e con l’auto in panne non mi piaceva per niente.

    Mi resi conto che avrei dovuto abbandonare la macchina e ripercorrere tutta la strada a ritroso a piedi, sul marciapiede di emergenza, armato soltanto della piccola torcia che tenevo per i casi di emergenza. D’altronde non vedevo altra soluzione. Anche volendo chiamare qualcuno, lì dentro il cellulare non aveva campo.

    Non mi rimaneva che rassegnarmi e tornare indietro, per quanto la prospettiva non mi risultasse allettante. Ancora una volta mi chiesi come fosse possibile che nessun altra macchina passasse da quelle parti. Conclusi che non era decisamente la mia serata fortunata.

    Chiusi l’auto e, per scrupolo, posizionai, ad alcuni metri di distanza il triangolo di emergenza. Dopodiché mi misi in cammino.

    Marciai a ritroso per un tempo interminabile. Il cuore mi batteva forte nel petto. Il mio senso di ansia stava progressivamente aumentando.

    Cercai di accelerare il passo, anche perché non sapevo per quanto tempo la mia piccola torcia mi avrebbe supportato. Non la usavo da parecchio e temevo che da un momento all’altro mi sarei ritrovato immerso nel buio più assoluto.

    Passò un tempo relativamente breve prima che i miei timori diventassero realtà. Un ultimo guizzo della lampadina e mi ritrovai cieco, in mezzo al nulla.

    Fui quasi tentato di tornare indietro, ma sapevo che sarebbe stato un gesto stupido e inutile. L’unica cosa che potevo fare era proseguire, tastando la parete del tunnel con la mano e prestando attenzione a non inciampare.

    Continuai a camminare con un’angoscia crescente. Ormai stavo perdendo ogni tipo di cognizione, sia spaziale che temporale. Non avevo più idea di quanta distanza mi separasse dalla mia auto né di quanto potesse mancare all’imboccatura del tunnel. Sapevo solo di non potermi fermare, se volevo emergere da quell’incubo.

    Finalmente, dopo un altro lasso di tempo indeterminabile, vidi una luce. Dovevo essere vicino all’uscita. Provai una gioia immensa. L’entusiasmo, favorito dalla progressiva illuminazione della strada davanti a me, mi spinse ad accelerare il passo.

    Iniziai a correre. Mancava poco.

    Finalmente vidi l’esterno. Pioveva ancora a dirotto. Con un sorriso raggiunsi l’uscita della galleria.

    Appena giunto all’aria aperta, tuttavia, mi accorsi che qualcosa non andava. Schiantata a bordo strada, vidi un’automobile accartocciata su se stessa.

    Il veicolo emetteva rivoletti di fumo, destinati a spegnersi sulla pioggia battente. Dietro l’auto si era formata una lunghissima coda di veicoli, che venivano fermati da agenti di polizia.

    Tre auto con i lampeggianti accesi sbarravano loro la strada. Finalmente compresi il perché della mia solitudine all’interno della galleria.

    Evidentemente quel disastro doveva essere avvenuto subito dopo il mio ingresso. Mi avvicinai di più al veicolo, pur mantenendo una certa distanza, per il timore che esplodesse.

    Cercai di guardarlo meglio, ma la pioggia scrosciante me lo impediva. Pochi attimi dopo arrivò un’ambulanza a sirene spiegate, andandosi a posizionare nei pressi dell’auto. I militi scesero di corsa con una barella ma vidi che i poliziotti fecero loro un cenno con la testa, come a indicare che non c’era più nulla da fare per i malcapitati protagonisti dell’incidente.

    Li vidi mettere in atto diversi sforzi per aprire le portiere del veicolo. Estrassero un corpo. In quell’istante la pioggia rallentò di intensità. Guardai meglio. Per un istante mi parve di riconoscerlo. Mi avvicinai mentre lo stendevano a terra.

    Arrivai così vicino da udirli, mentre dicevano che non c’era più nulla da fare. Ero ormai a fianco a loro. E vidi. Vidi me stesso, in un lago di sangue, steso senza vita in mezzo a tutte quelle persone. Per un attimo mi girò la testa. Sentii l’impulso di vomitare.

    Poi ricordai. Il colpo di sonno, il testacoda, il mio disperato tentativo di riprendere il controllo dell’auto, e infine lo schianto. Un urto tremendo, in grado di togliermi la vita in un istante. Con una tale rapidità da far sì che non me ne rendessi nemmeno conto.

    O meglio, una parte di me non se ne volle rendere conto. Quella stessa parte che ha tentato di far finta di nulla e mi ha indotto a procedere nel mio cammino come se niente fosse successo. Ma non si può sfuggire al proprio destino. Così come un treno è costretto a percorrere il tracciato indicato dai binari. Non esiste possibilità di deviare.

    Mentre coprivano il mio corpo con un telo e lo caricavano sull’ambulanza, notai che le luci del tunnel alle mie spalle si erano riaccese, intense come le ricordavo.

    Capii che potevo rimettermi in marcia, e questa volta non avrei incontrato alcun muro a fermarmi.

    COCCI

    Rabbia… devastante, incontrollabile. Non so come fermarla.

    Voglio distruggere tutto ciò che mi capita a tiro.

    Lo faccio.

    Con un calcio infrango il portaombrelli di ceramica, con un pugno distruggo la vetrata della sala da pranzo.

    Vedo rosso. E’ l’odio che mi annebbia la vista. E’ il sangue che mi scorre lungo il braccio.

    Ancora. Voglio rompere altre cose. Bicchieri, piatti, tv, stereo. Centinaia di cocci e vetri per terra, macchiati del mio stesso sangue.

    Ho lasciato per ultime le foto. Decine, tutte sparse per la casa. Quanto le ha sempre amate le sue cazzo di foto la mia cara mogliettina.

    Maledetta, mi guarda e mi sorride, come se non fosse successo nulla. Spacco la prima, la seconda, la terza... perdo il conto. Altri vetri infranti. Altro sangue versato.

    Ah, che soddisfazione. Ho sempre odiato quelle cornici colorate. Guarda questa… il nostro matrimonio. Quante promesse mi ha fatto quel giorno.

    Bugiarda!

    Infrango quell’immagine con un calcio, mandando in frantumi il tavolino che la sorregge.

    E ora quest’altra… il nostro splendido viaggio di nozze in Australia. Io che ho sempre odiato andare in aereo. Quindici ore di volo, per andare a vedere quei dannati canguri. Bene, quale fine migliore per questa foto, che volare dalla finestra?

    Fatto. Guardo di sotto. Non ho centrato nessuno, peccato.

    E ora, dulcis in fundo, la migliore. Quella dove siamo tutti e tre assieme, io lei e il mio grande, grandissimo amico. Eccoci lì, abbracciati in riva al mare. Che bel quadretto.

    Lei per me è come una sorella mi diceva sempre. E voi siete un po’ come la mia famiglia, visto che sono uno scapolo incallito.

    Parole al vento. Solo parole al vento. Entrambi mi avevano tradito.

    Erano passati solo due giorni da quella notte, una notte che non dimenticherò mai. Quella notte mia moglie aveva affidato il suo cuore a quello che era il mio migliore amico, e lui aveva distrutto tutto.

    Non preoccuparti, andrà tutto bene. E’ solo un intervento da niente…

    Entrambi mi avevano detto la stessa frase, prima di entrare in camera operatoria. Lui, il grande cardiologo, e lei, la donna della mia vita.

    Peccato che alla fine qualcosa sia andato storto, e colei che aveva giurato di non abbandonarmi mai, mi abbia lasciato. Solo, in questo mondo schifoso, senza nemmeno la spalla di un amico su cui desiderare di piangere.

    La foto mi sfugge dalle mani. Forse anche la vita mi sfugge dalle mani. Troppo dolore, troppo sangue. Chiudo gli occhi e mi abbandono ai ricordi, accogliendo docilmente il mio destino.

    GIULIA

    Mi chiamo Giulia.

    Sono morta all’età di trent’anni e quella che sto per raccontare è la mia storia.

    I miei genitori perirono in un incidente stradale quando avevo diciassette anni. Quella notte mi ero fermata a dormire da un’amica e loro rientravano da una cena aziendale.

    Per cause ancora ignote, forse un colpo di sonno, mio padre perse il controllo dell’auto andandosi a schiantare in autostrada.

    Mia madre morì sul colpo. Mio padre rimase per sei mesi in coma, sospeso tra la vita e la morte, per poi arrendersi.

    Andai a trovarlo in ospedale tutti i giorni. Potevo vederlo da dietro un vetro. Pregai con tutte le mie forze affinché avvenisse un miracolo, ma non ci fu nulla da fare. Una notte semplicemente spirò.

    Quella stessa notte la mia fede e il mio carattere un tempo solare, furono spezzati dal dolore.

    Divenni chiusa e introversa. La musica, che iniziai ad ascoltare in ogni occasione, si trasformò nel mio unico rifugio.

    Mia zia Elizabeth, sorella di mia madre, mi accolse a vivere con se. Eravamo molto legate, soprattutto da quando due anni prima era rimasta completamente sola, non avendo mai avuto figli ed essendo suo marito morto per un infarto.

    Purtroppo la nostra convivenza non si rivelò un’esperienza semplicissima. La morte del marito e successivamente quella di mia madre trasformarono mia zia, un tempo energica e grintosa, in una donna ansiosa e irascibile. Inoltre il suo affetto nei miei confronti divenne quasi morboso e di conseguenza opprimente.

    Tutto ciò si tradusse sovente in liti molto accese su questioni spesso banali.

    Anche a scuola la mia vita subì dei cambiamenti. Progressivamente mi allontanai dalle mie vecchie amiche e persino dai ragazzi la cui corte tanto avevo trovato gradevole fino a prima dell’incidente.

    Ero una bella ragazza, o almeno questo è quello che mi ripeteva mia zia innumerevoli volte al giorno. Abbastanza alta per la mia età, avevo lunghi capelli neri e occhi azzurri. Ma non me ne importava più nulla.

    La mia adolescenza, fino a quel momento spensierata, si trasformò progressivamente in un monotono ripetersi di angoscianti giornate grigie e uguali l’una all’altra.

    Crescendo le cose non cambiarono. Mi iscrissi all’università di legge con la vaga idea di fare l’avvocato, ma soprattutto per continuare a tenermi la mente impegnata grazie agli studi.

    Anche in quell’ambito cercai, come ai tempi del liceo, di passare inosservata. Vestivo sempre in maniera semplice, non mi truccavo e frequentavo le lezioni senza legare con nessuno.

    Tuttavia spesso capita che il destino, beffardo, si accanisca nei confronti di chi vorrebbe essere semplicemente lasciato in pace.

    Al terzo anno di università conobbi Mark. Era un bellissimo ragazzo, biondo, con un fisico sportivo e due occhi in grado di incantare.

    Per un intero anno fece di tutto per attirare le mie attenzioni, frequentando i miei stessi corsi, lanciandomi continue occhiate e tentando di parlarmi.

    Le barriere da me erette nei confronti del resto del mondo finirono con l’essere sempre più deboli e incrinate a ogni suo nuovo assalto.

    In fondo una parte di me, una grossissima parte di me, provava il fortissimo desiderio di ricevere amore.

    Ricordo quanto l’idea del sesso mi spaventasse e mi eccitasse allo stesso tempo. Non ne sapevo molto, in realtà, ma le mie pulsioni giovanili, solo apparentemente sopite, erano come il fuoco che cova sotto la cenere. E fu così che a ventidue anni accettai il mio primo invito a cena.

    Fu un serata bellissima. Per quanto io fossi nervosa e impacciata finii progressivamente col rilassarmi e divertirmi per la prima volta da più di cinque anni.

    Mark dovette faticare ancora un bel pezzo prima di riuscire a vincere tutte le mie riserve, ma alla fine ebbe successo.

    Ancora oggi avverto dei brividi quando ripenso al nostro primo bacio e soprattutto alla prima volta in cui abbiamo fatto l’amore. Fu splendido e liberatorio.

    Da quel momento la vita iniziò lentamente a sembrarmi meno insulsa.

    Persino le innumerevoli attenzioni di mia zia nei miei confronti iniziarono a sembrarmi meno oppressive.

    Iniziai nuovamente a vedere dei colori attraverso la nebbia grigia che aveva oscurato la mia vita.

    Io e Mark finimmo l’università l’anno successivo. Lui iniziò la pratica per diventare avvocato, mentre io trovai un posto nell’ufficio legale di una società di forniture navali.

    A poco a poco la mia esistenza stava ritrovando un senso.

    Lo stesso giorno in cui passò l’esame da avvocato mi chiese di sposarlo. Fu il momento più bello della mia vita.

    Ci sposammo sei mesi dopo. Avevo ventisette anni. Dalla morte dei miei genitori ne erano passati dieci, e in quel momento pensai di potermi lasciare tutto alle spalle.

    Il giorno dopo le nozze avevamo un volo prenotato per il Messico. Da sempre mi affascinavano quelle località ed ero riuscita a convincere il mio neo marito a sceglierle come destinazione.

    Ricordo che una brutta sensazione si impadronì di me quando lui mi disse di voler portare la moto in garage prima di partire. Sebbene fosse ben lungi dall’essere nuova, ci teneva tantissimo e non si fidava a lasciarla in strada.

    Accantonai le mie preoccupazioni con una scrollata di spalle etichettandole semplicemente come frutto delle troppe emozioni del giorno prima.

    In realtà qualcosa accadde realmente. Qualcosa di orribile e in grado di stravolgere nuovamente il corso della mia vita.

    Appena prima di raggiungere il garage, Mark fu travolto da un pirata della strada alla guida di un veicolo di grossa cilindrata.

    Costui era completamente ubriaco nonostante fossero appena le tre del pomeriggio.

    Mio marito morì sul colpo. Nonostante i tempestivi soccorsi non vi fu nulla da fare.

    Ad appena ventisette anni mi ritrovai vedova e orfana.

    Il mio vecchio abisso di disperazione, che a

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