Terapia al bacio
Di Eileen Wilks
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Info su questo ebook
Seely Jones è un'infermiera speciale dai talenti nascosti e dal passato oscuro che, davanti alla richiesta di aiuto di Ben di stargli vicino durante tutta la convalescenza, non riesce a tirarsi indietro.
Il problema è che lui non ha fatto i conti con la sua bocca tentatrice e con la dolce tortura che la presenza di una donna come Seely gli procura.
Eileen Wilks
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Terapia al bacio - Eileen Wilks
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Meeting at Midnight
Silhouette Desire
© 2004 Eileen Wilks
Traduzione di Maria Latorre
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2005 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3051-945-9
1
Non stavo pensando alla morte. Non stavo pensando affatto. Era una di quelle notti in cui un uomo non vuole dare ascolto neppure ai propri pensieri. Avevo alzato il volume della radio nel tentativo di soffocare qualche pensiero randagio, ma era stato un errore.
Maledetta musica country. Ogni canzone parlava di un amore perduto. Ma allora perché continuavo ad ascoltare?
Incominciai a tamburellare le dita sul volante. C’era vento, il tergicristallo spazzava via pioggia e nevischio, ma io conoscevo quella strada quasi come conoscevo quella lungo cui avevo vissuto per tutta la vita.
Tutta la vita... quarant’anni. Per buona parte di quegli anni non ero stato l’unico occupante della casa, ma adesso ero solo. Un quarantenne solo.
Un quarantenne che, anziché rinsavire, diventava sempre più sciocco. Scossi la testa. Perché mi ero lasciato convincere da Sorenson a trattenermi a bere qualcosa anche dopo avere concluso l’affare? Per fortuna mi ero limitato a un solo bicchiere.
«Andiamo, bevine ancora uno» mi aveva sollecitato il proprietario dell’albergo. «Offre la casa.» Aveva perfino cercato di convincermi che il tempo non era un problema, che non c’era stata ancora nemmeno una gelata.
Non ancora, appunto. Avevo usato tutto il mio tatto. Quell’uomo era un bastardo, ma era il bastardo che aveva appena deciso di rivolgersi alla mia società per un grosso lavoro di ristrutturazione.
«Ehi! Un omone come te dovrebbe essere in grado di reggere gli alcolici. Non comportarti da signorina, altrimenti incomincerò a domandarmi se sei abbastanza maschio per fare questo lavoro.»
Mi ero limitato a guardarlo, troppo annoiato per preoccuparmi delle buone maniere. «Non riesco a definire uomo colui che beve per provare la propria virilità.»
Gemetti al ricordo di quella conversazione. Già, e io ero davvero un uomo. Un uomo stupido. Si gelava, c’era una pessima visibilità, io dovevo essere al lavoro alle sette e mezzo del mattino seguente, ed eccomi che guidavo su una strada di montagna a mezzanotte meno dieci.
Apparve di colpo un tornante privo di protezioni. Staccai il piede dall’acceleratore e lo premetti leggermente sul freno, deciso ad affrontare lentamente la curva.
A metà trovai del ghiaccio.
Slittai pericolosamente sulla strada, sentii agitarsi le cime dei pini che crescevano sotto il livello stradale, sul fianco della montagna. Cercai di raddrizzarmi, ci riuscii.
La parte posteriore del pick-up continuò a slittare ancora un po’, ma per fortuna avevo ripreso il controllo. Superai la curva sano e salvo. E attraverso la pioggia e il nevischio che continuavano a cadere, vidi una frusta nera che saettava per aria, dritto verso di me.
Un cavo elettrico. Scoperto.
Se avessi avuto il tempo di riflettere, avrei anche rischiato. O forse no. Il cavo mi avrebbe colpito in pieno con una scarica letale di corrente elettrica. Non c’era tempo per riflettere, non ce n’era neppure per avere paura. C’era soltanto il tempo per agire. Sterzai verso sinistra e premetti i freni.
Grosso errore.
Il pick-up andò in testacoda. Sollevai il piede dal freno. Il cavo arrivò alla fine del volo a un passo dal paraurti. Continuai a girare, pronto a tornare indietro per la strada dalla quale ero venuto. Peccato che il pick-up continuasse a slittare di lato.
Il guard-rail. Un segnale indicava che era danneggiato, ma io non avevo visto segni di danni. Forse...
Lo colpii con il retro del furgone, che si arrestò mentre la parte frontale continuava a slittare.
Neppure allora pensai alla morte. Non pensai affatto, mi limitai a spalancare la portiera in risposta alla necessità impellente di uscire da lì. Purtroppo era già troppo tardi, troppo tardi per fare qualsiasi cosa che non fosse cadere con il furgone oltre il bordo della strada, verso il precipizio.
Uno stridio metallico. Mi trasformai in un oggetto che cercava di rimbalzare senza danno nell’abitacolo del furgone. Fu come se le tenebre mi avessero afferrato con un pugno gigante. Qualcosa mi colpì sulla testa, poi il silenzio. L’immobilità. Giacqui sotto un’intera montagna di dolore, ascoltando qualcuno che gemeva.
Ciò mi irritò. Chi era l’idiota che gemeva, quando ero io ad avere addosso il peso di tutta la montagna? Aprii la bocca per zittirlo. I gemiti cessarono.
Qualcosa in quella sequenza di causa ed effetto risvegliò le mie cellule cerebrali. Ero io che gemevo. Ed ero... ero... ero nel furgone, solo che ero sospeso, in bilico in una strana angolazione.
Cercai di sbattere le palpebre. La palpebra destra sembrava gommosa. Avvertivo una forte pressione al petto e all’inguine. Il furgone era penzolante in aria, il muso puntato verso il basso, ma l’inclinazione non era eccessiva.
Ero vivo. Ed ero ferito.
Quanto gravemente, non ero in grado di stabilirlo. Il dolore mi soffocava, mi impediva di pensare, però ricordavo di essere stato colpito alla testa. D’istinto sollevai la mano per toccarmi e un dolore insopportabile mi esplose nella spalla.
Restai fermo ad ansimare. Dunque mi ero ferito anche lì.
Sollevai la testa con circospezione, mi accorsi di non poterla muovere. La capote del furgone si era incassata. I finestrini erano rotti, frammenti di vetro mi scintillavano accanto. Anche la portiera era sfondata.
Respira profondamente, mi dissi. Il panico non mi avrebbe aiutato. Agitai le dita della mano sinistra, mossi il braccio, poi la gamba. Bene, almeno sul lato sinistro non avevo riportato danni. Ero sopravvissuto a un ruzzolone lungo il fianco della montagna ed ero ferito, ma ancora vivo. E non ero intrappolato tra le lamiere. Potevo ancora uscire.
Sarebbe stato un incubo.
Il gancio della cintura di sicurezza era umido, sdrucciolevole, ma riuscii a sganciarlo. I jeans erano bagnati, come la giacca. E sotto a questa, la camicia mi aderiva addosso, calda e umida.
Avevo perso moltissimo sangue.
Quel pensiero mi terrorizzò. Afferrai la maniglia della portiera, tirai, non ottenni niente.
Fu allora che fui investito dalla paura, da un terrore cieco che escluse qualsiasi altra cosa, anche il dolore. Afferrai più forte la maniglia e incominciai a scuoterla, finché riuscii a spalancare la portiera.
Un cigolio sinistro mi fece slanciare fuori. Cercai di attutire il colpo, ma quando toccai terra con i piedi, fu come se il dolore mi mandasse in corto circuito.
Non svenni. Per un pelo. Ma per qualche tempo rimasi immobile per terra, incapace di articolare qualsiasi pensiero. Alla fine mi accorsi che là fuori faceva molto più freddo che dentro il furgone. Forse uscire non era stata una buona idea, ma adesso, almeno, ero uscito da quell’abitacolo opprimente. Cosa fare?
La strada. Dovevo arrivare alla strada. A quell’ora era improbabile che passasse qualcuno, ma prima o poi il cavo elettrico caduto avrebbe attratto l’attenzione.
Mi rizzai a sedere. Quel movimento mi lasciò sfinito, prostrato. Sollevai la testa. Non riuscivo a vedere la strada. Era troppo buio e l’oscurità non mi aiutava di certo. Di quanto ero caduto? Difficile stabilirlo. Per il momento sapevo soltanto che dovevo tornare su.
Con la mano sinistra mi afferrai la destra e me la infilai nella tasca della giacca. Ero circondato dagli alberi. Pini, per lo più. Non c’era molta vegetazione di sottobosco, e il poco che c’era era stato schiacciato dal passaggio del furgone. Tanto meglio. Avevo un sentiero lungo il quale procedere.
Camminare era fuori discussione, così mi avviai carponi.
Una volta Gwen mi aveva detto che le donne dimenticano subito i dolori del parto. Lo aveva detto scherzando, asserendo che fosse in quel modo che la natura le spingeva a ripetere l’esperienza. A quell’epoca non avevo compreso. Avevo sentito diverse donne scambiarsi racconti e mi era sempre sembrato che ricordassero benissimo i dolori del travaglio.
Adesso capivo cosa voleva dire. Ero consapevole di soffrire, ma era come se il dolore non ci fosse più, come se avesse lasciato soltanto la sua orma dietro di sé.
Quando si soffre molto, si perde ogni contatto con il passato e con il futuro. Non resta che il presente, privo della capacità di allineare un momento dopo l’altro come grani di una collana. Alcuni grani andarono perduti. Altri restarono inchiodati dentro di me, come schegge intorno alle quali era cresciuta la carne.
E uno dei grani che erano rimasti inchiodati nella mia memoria era il momento in cui era terminata la caduta del furgone.
Non avevo pensato a cosa avesse potuto arrestare la caduta, ma lo capii nel momento stesso in cui sentii uno scricchiolio sinistro, poi un rumore di legno spezzato. Tesi il collo per guardarmi alle spalle.
Rami spezzati, vetri infranti, e alla fine anche i fari si spensero. Una massa informe, il furgone e l’albero, rotolò lentamente verso il fondo del burrone, dove atterrò con un fragore mostruoso. E io sbattei le palpebre, ondulando sulle ginocchia e sull’unica mano utile, simile a un ponte sospeso nel vento.
Il mio dolore per la perdita del furgone non durò molto. Avevo un altro compito da assolvere. In alto. Dovevo salire fino alla strada.
Per qualche tempo fui scosso dai brividi, poi anche quelli cessarono, ma ero troppo assorto per rendermi conto che era un pessimo segno. Ricordo di avere pensato a Zach, ma quei pensieri non erano legati a un momento particolare. Mi capitava spesso di pensare a mio figlio.
Però ricordo l’angelo.
Quel ricordo ha un principio, un proseguimento e una fine, come tanti grani allineati in bell’ordine. Fu il calore a richiamarmi indietro. Si insinuò dentro di me e mi avvolse, costringendomi a notarlo. Mi accorsi che era reale. Me ne accorsi perché ricominciai a tremare, e con i tremiti tornò anche il dolore.
Socchiusi gli occhi.
Non fu il suo viso a darmi l’idea che fosse un angelo. Era bella, ma più esotica che angelica, con quegli zigomi larghi, piatti e gli occhi a mandorla. Aveva labbra carnose, ma doveva essere un angelo. Riluceva.
Deluso, gracchiai: «Allora sono morto».
Quelle labbra carnose si distesero in un sorriso. «No, niente affatto.» Aveva una voce morbida, dolce, spessa come il miele. E un accento meridionale che mi parve strano, in un angelo. «Ti rimetterai presto.»
Dissi una