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La Maledizione di Persefone (L'Esercito degli Dei #3): #Anathema
La Maledizione di Persefone (L'Esercito degli Dei #3): #Anathema
La Maledizione di Persefone (L'Esercito degli Dei #3): #Anathema
E-book715 pagine12 ore

La Maledizione di Persefone (L'Esercito degli Dei #3): #Anathema

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Info su questo ebook

Ric ha perso la sua anima gemella, perché le leggi degli Dei vietano ad un demone e una ninfa di amarsi.
Da quando non può più parlarle, la sua vita sembra aver perso di significato e il demone si limita a sopravvivere, giorno dopo giorno, preda della disperazione.
Ma se qualcosa cambiasse tutto?
Se, all’improvviso, tornasse di nuovo umano?
Allora potrebbe stare con la sua myssi senza infrangere nessuna regola e vivere quell’Ektel, quella completezza, che insegue da oltre cento anni.
Gli Dei, però, non tollerano chi disobbedisce alle loro regole e Persefone, la Regina degli Inferi, è pronta a punire entrambi per quella violazione. Dovranno combattere per aver salva la vita e solo un uomo può aiutarli: Damian, il Principe dei Guerrieri.
Ma, dopo tutto il tempo che hanno trascorso lontani, Ric e Dina si ameranno ancora abbastanza per continuare a lottare?

 
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2015
ISBN9788893156110
La Maledizione di Persefone (L'Esercito degli Dei #3): #Anathema

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    Anteprima del libro

    La Maledizione di Persefone (L'Esercito degli Dei #3) - Thalia Mars

    PERSEFONE

    Thalia Mars

    thaliamarszj@gmail.com

    Thalia Mars Official FanPage (Facebook official page)

    L’Esercito degli Dei (Facebook group)

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti storici, persone e luoghi reali è usato in chiave fittizia. Gli altri nomi, personaggi, località e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi rassomiglianza con avvenimenti e luoghi autentici e persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

    Grazie a Ombretta Torchio per l’editing

    Copyright © 2016 by Thalia Mars

    Quello che non ti uccide, ti rende più forte.

    PROLOGO

    Telling me to go,

    But hands beg me to stay.

    Your lips say that you love,

    Your eyes say that you hate.

    There's truth in your lies,

    Doubt in your faith.

    What you build you lay to waste.

    Linkin’ Park – In Pieces

    Mi dici di andarmene,

    ma le tue mani mi implorano di restare.

    Le tue labbra dicono che mi ami,

    i tuoi occhi dicono che mi odi.

    C'è del vero nelle tue bugie,

    dubbio nella tua fede.

    Quello che costruisci distruggi.

    Linkin’ Park – In Pieces

    Febbraio 1981

    Il bagno della suite era elegante e molto lussuoso.

    Maioliche immacolate rivestivano pareti e pavimento. C’erano sanitari in ceramica lucida e un lavandino candido, sormontato da uno specchio grande quanto tutta la parete.

    Chiuse la porta dietro di sé e si avviò verso la grande vasca idromassaggio, che si era ormai riempita d’acqua. Ne saggiò la temperatura immergendo la mano: era molto calda.

    Perfetto.

    Si voltò e raggiunse il lavandino, rimirando il proprio riflesso nello specchio.

    Indossava soltanto un accappatoio di morbida spugna color lavanda: lunghi boccoli grigio-azzurri le cadevano lungo le spalle strette ed incorniciavano il viso di una perfezione rara.

    Occhi dal taglio un po’ allungato di un blu intenso, naso piccolo e dritto, labbra a forma di cuore.

    Era bellissima.

    Ma lui l’aveva lasciata ugualmente.

    Lì, in Madagascar, il suo uomo l’aveva abbandonata senza darle neanche una spiegazione.

    Nemmeno una squallida scusa a cui potesse aggrapparsi per consolare il suo cuore in frantumi.

    Era riuscita ad imbarcarsi su una nave mercantile che aveva fatto rotta verso Sochi, nel sud della Russia, sulle rive del Mar Morto.

    La sua idea era quella di tornare ad Antalya, in Turchia, dalle sue sorelle che, di certo, l’avrebbero accolta con affetto.

    Tuttavia, durante il viaggio, si era resa conto che non sarebbe stato possibile.

    Non era più una ninfa del mare, perché stare vicino al suo myssi, la sua anima gemella, per settant’anni, l’aveva resa mortale.

    E le sue sorelle Ondine non avrebbero mai ospitato un’umana nella loro colonia.

    Distolse lo sguardo da se stessa, come disgustata, e si avvicinò alla vasca.

    Quella suite le era costata tutti i soldi che le erano rimasti, ma non importava.

    Niente aveva più importanza.

    Sciolse la cinta dell’accappatoio e se lo sfilò, lasciandolo cadere a terra.

    Afferrò una confezione di sali da bagno e svitò il tappo di plastica. La svuotò nell’acqua, creando un vortice di bollicine.

    Era rimasta sola.

    Non aveva più il suo myssi, non aveva più le sue sorelle. Non aveva più nemmeno i suoi poteri di ninfa.

    Si immerse lentamente nell’acqua ed appoggiò la testa al bordo della vasca.

    Doveva decidere cosa fare della sua vita.

    Con la punta delle dita accarezzò il tatuaggio che aveva all’interno del polso sinistro.

    C’era scritto il nome del suo uomo.

    Aerico.

    Dei dell’Olimpo, Ric le mancava ogni giorno.

    Il suo myssi l’aveva abbandonata da meno di un mese e si sentiva così persa.

    Non era mai stata sola in tutta la sua vita, non sapeva cosa fare.

    Chiuse gli occhi, lasciando che l’acqua calda cullasse il suo corpo, e sospirò.

    Poi, di colpo, un dolore lancinante al ventre la fece piegare su se stessa.

    Era forte, acuto. Straziante.

    Riaprì gli occhi e si accorse che l’acqua si era tinta di rosso.

    E diventava sempre più denso, il colore sempre più intenso.

    Un dubbio spaventoso la pervase, come una doccia gelata.

    Si voltò, afferrando il barattolo di plastica vuota. Strinse il coperchio tra le mani, finché la plastica rigida non si spaccò con uno schiocco.

    Allora ne afferrò un pezzo e premette la punta acuminata contro il polso, fin quando una goccia di sangue non stillò dalla sua pelle candida.

    E quella stessa goccia, nel giro di un istante, si tramutò in acqua.

    Un’altra fitta, ancora più forte, la fece gemere e chinarsi in avanti, fino a toccare l’acqua con la fronte.

    Allora si rese conto con orrore di cosa stesse accadendo: il suo sangue stava cambiando.

    Stava tornando immortale.

    DIMENTICARMI DI TE

    On my knees, I'll ask

    Last chance for one last dance

    'Cause with you, I'd withstand

    All of hell to hold your hand

    Nickelback – Far Away

    In ginocchio, chiederò

    un’ultima possibilità per un ultimo ballo,

    perché con te, resisterei

    a tutto l’inferno per stringerti la mano.

    Nickelback – Far Away

    Novembre 2032 – Capitolo 1

    Uscì dalla pizzeria e le porte di vetro si richiusero automaticamente alle sue spalle.

    Teneva in mano una crocchetta di patate grande due volte il suo pugno: l’avrebbe morsa volentieri, ma era appena stata tolta dall’olio bollente.

    Una donna che spingeva una carrozzina gli lanciò un’occhiata intimorita, mentre gli passava accanto e accelerava il passo.

    Ric non si offese.

    D’altronde, chiunque si sarebbe spaventato nel vederlo.

    Un metro e ottantacinque centimetri di armoniosi muscoli, rivestiti da un giubbotto di pelle marrone, una camicia azzurra, dei jeans chiari e Timberland a stivaletto ai piedi.

    Capelli castani curati in un doppio taglio, occhi di un bel verde limpido, in un viso che sarebbe stato uno splendore, se soltanto non avesse avuto quell’orrenda cicatrice.

    Una linea malferma lo sfregiava dal sopracciglio, passando sulla palpebra, fino allo zigomo.

    Era mostruoso, lo sapeva.

    Ma ormai aveva più di quattrocento anni e aveva fatto l’abitudine alle occhiate della gente.

    S’incamminò pigramente lungo il largo marciapiede di quella strada poco trafficata.

    Morse la crocchetta, raggiungendo subito il cuore di mozzarella incandescente.

    Imprecò tra i denti quando dovette sollevare la mano fin sopra la testa per rompere il filo bollente di formaggio.

    La verità era che aveva una voglia matta di falafel.

    Peccato che lì a San Lorenzo non ci fosse un solo locale in grado di farne di decenti.

    Ricordava ancora i più buoni che avesse mai mangiato: era stato nel 1908 in Siria.

    Ingoiò l’ultimo boccone ed accartocciò il tovagliolo, gettandolo nel primo cestino che incontrò lungo la strada.

    Non gli mancava per niente quel periodo.

    All’epoca vagava per il mondo come un fantasma; non sapeva dove andare, non sapeva cosa fare.

    Ancora non si capacitava della maledizione che Era aveva gettato su di lui e l’unica cosa che lo preoccupava era di non fare del male a nessuno. Ma era difficile, per un demone infettivo come lui.

    Era un Oimedo: il suo sangue, tutti i liquidi del suo corpo erano mortali per gli esseri umani. Era sufficiente che si avvicinassero alle sue lacrime per essere colti da una malattia che li avrebbe uccisi nel giro di poche ore. Col suo sangue, bastavano pochi secondi.

    Perciò, i suoi divertimenti si riducevano necessariamente a ninfe, demonesse, e tutte le creature sovrannaturali che popolavano l’amata Terra.

    Comunque, nel corso degli anni aveva accettato quella maledizione ed aveva imparato a convivere con se stesso.

    Si fermò ad un semaforo rosso e inclinò lievemente la testa di lato, osservando l’uomo all’altro lato della strada.

    Panciuto, con un costoso completo elegante. Una corona di capelli bianchi attorno alla testa e la pelle olivastra tipica del sud Italia.

    Teneva in mano una ventiquattrore di metallo ed era impaziente di proseguire oltre.

    Ric sapeva chi fosse e cosa contenesse quella valigetta.

    Quando il semaforo scattò, entrambi s’incamminarono sulle strisce pedonali; Ric accelerò il passo per raggiungerlo e, quando gli passò accanto, gli diede una spallata.

    L’uomo si voltò a guardarlo, infastidito da quel gesto palesemente belligerante.

    «Stai attento!» esclamò.

    Ric lo afferrò per il bavero della giacca elegante e puntò gli occhi verdi dritti nei suoi.

    L’uomo sembrò spegnersi per un istante, mentre gli occhi di Ric s’illuminavano, sempre di più, fino ad assumere un colore rosso brillante.

    Poi lo lasciò andare.

    L’uomo, come in trance, gli porse la valigetta.

    Ric la prese ed entrambi si diedero le spalle, raggiungendo i marciapiedi opposti. Ric non si voltò indietro per guardare l’uomo, che tirava fuori una Beretta dalla tasca interna della giacca e se ne infilava la canna in bocca.

    Sentì lo sparo e le grida degli umani intorno a lui.

    Ridacchiò tra sé e continuò a camminare, tirando fuori uno smartphone dalla tasca dei jeans.

    Scorse la rubrica fin quando non trovò il numero che gli interessava.

    Inoltrò la chiamata e una voce maschile, roca e autoritaria, rispose al secondo squillo.

    «Ehi, Ric.»

    «Tutto risolto» disse il demone, «I soldi sono entrati?»

    «Devo chiedere a…» esitò, «Come diavolo si chiama? Comunque credo di sì.»

    Ric sbuffò.

    «Si chiama Alessia, Dam. E credo che tu debba sforzarti di imparare il nome delle tue segretarie.»

    «Lo faccio» protestò Damian, «Ma appena l’ho imparato Hektor se le scopa e loro si licenziano. E io devo imparare altri nomi.»

    Ric ridacchiò.

    «Dovremmo trovare una soluzione, quel ragazzo proprio non riesce a darsi un freno.»

    Damian grugnì; avevano già avuto quella conversazione più e più volte. Ric sapeva quanto Damian non amasse rimproverare i suoi uomini.

    «Stai venendo in ufficio?» gli chiese.

    «Sì» rispose Ric, «Dieci minuti e sono lì.»

    Capitolo 2

    Ric parcheggiò la BMW Tron nel garage sotterraneo del palazzo. Quando chiuse lo sportello dietro di sé, spese un momento per rimirarla.

    Amava le nuove automobili sportive. Quella era fantastica: le linee morbide, eppure nell’insieme aggressive, quel nero metallizzato quasi invisibile nella notte. Una vera meraviglia.

    Passò di fronte alle automobili di servizio del Principe, senza curarsene, tranne poi lanciare un’occhiata innamorata alla Lamborghini Veleno rossa fiammante e tirata a lucido, parcheggiata nell’angolo più vicino al vano scale.

    Era nato quando l’unico mezzo di trasporto era il cavallo e ora, invece, poteva ammirare quelle meraviglie della meccanica.

    Tutto sommato, era fortunato.

    Entrò nel vano scale e premette il pulsante di chiamata dell’ascensore. Le porte si aprirono all’istante e lui entrò, pigiando il tasto 8.

    Il palazzo della Drep Service si trovava nella zona nuova di San Lorenzo.

    Costruita negli anni sessanta come città industriale, era tappezzata di fabbriche, alcune funzionanti, altre in perenne stato di abbandono. La gran parte delle case e dei locali era stata edificata tra una fabbrica e l’altra, così che c’era pochissimo spazio verde. Giusto qualche albero ogni tanto.

    La zona nuova era leggermente migliore: alti palazzi lucidi e ultramoderni, tutti con alte classi energetiche, alimentati da fonti di energia rinnovabili e tante altre idiozie ecologiche.

    Lui era cresciuto svuotando il suo vaso da notte dalla finestra, tutti quei concetti sulla sostenibilità gli risultavano ancora difficili da assimilare.

    C’era anche un parco con un laghetto, in cui era sempre certo di trovare Damian, quei giorni in cui sembrava svanire nel nulla.

    Il Principe aveva comprato quel palazzo dieci anni prima, quando erano dovuti tornare a San Lorenzo perché le Lamie, delle stronze mangiaumani senz’anima, erano riuscite a creare un’apertura che congiungesse gli Inferi a una delle molte fabbriche abbandonate di quella città.

    Avevano impiegato un po’ per capire dove si trovasse quel passaggio e un po’ di più per capire come chiuderlo, ma alla fine c’erano riusciti.

    E poi erano rimasti.

    Il Principe dei guerrieri, figlio invincibile ed immortale di Ares, aveva bisogno di una pausa. Ed anche i Maximi del khrathos, i soldati del suo esercito.

    Per quanto quei guerrieri semidivini fossero stati addestrati soltanto a combattere come se nella vita nient’altro avesse importanza, dieci anni a zonzo per il mondo senza fissa dimora erano stati troppo anche per loro.

    Non che in quegli anni si fossero riposati, tutt’altro.

    La Drep Service, la loro società di copertura, impegnava buona parte del loro tempo e non potevano fare a meno di lavorare: era uccidere gli umani che manteneva lo stile di vita lussuoso e necessariamente attivo dei Maximi. E poi c’erano i lavori per gli Dei.

    Gli Olimpi si facevano sentire di rado, ma quando qualcuno di loro si presentava con un problema da risolvere, si rischiava sempre di arrivare ad un passo dall’apocalisse.

    Le porte dell’ascensore si aprirono in un grande atrio. Marmo chiaro sul pavimento, pareti di un caldo color nocciola, e un enorme bancone in mogano dietro cui sedeva una ragazza che non aveva più di venticinque anni.

    Lunghi capelli biondi legati in un elegante chignon, un tailleur blu notte dalla minigonna inguinale, e delle tette così grandi da mettere a dura prova i bottoni della camicetta e della giacca.

    A lato del bancone c’era una porta in vetro satinato che dava sull’ufficio dell’Amministratore Unico.

    Quando lo vide entrare, la ragazza sollevò la testa e il suo viso s’aprì in un sorriso radioso.

    «Buongiorno, signore» salutò.

    «Buongiorno, Alessia» ricambiò Ric. Si appoggiò con un gomito al bancone di legno e sbirciò i fogli che erano ammucchiati sulla scrivania.

    «Il bonifico è entrato?» le chiese.

    Alessia tamburellò con le unghie laccate sullo schermo da trenta pollici che era sulla scrivania e poi annuì.

    «Stamattina, signore, come avevano promesso.»

    «Ottimo», Ric appoggiò la ventiquattrore sul bancone, «Questi sono un po’ di contanti extra. Ti dispiace portarli in banca?»

    Alessia annuì di nuovo e si sbrigò a nascondere la valigia sotto la scrivania, mentre Ric andava verso l’ufficio.

    Aprì la porta di vetro senza bussare ed entrò nella stanza dalle grandi vetrate. Era luminosa e ariosa; c’era soltanto una grande scrivania in ciliegio sgombra di tutto, fatta eccezione per un block notes e un porta penne.

    Su una comoda sedia di pelle dallo schienale alto, sedeva il Principe dei guerrieri.

    Jeans neri e una camicia bianca, con le maniche arrotolate sugli avambracci.

    Alto più di un metro e novanta, era grande e possente. Capelli di un nero corvino erano tagliati alla marines e nel viso, bello come solo quello del figlio di un Dio sarebbe mai potuto essere, splendevano gli occhi incredibili: uno verde e uno blu.

    «Alla buonora» sbottò Damian, appoggiandosi allo schienale che scricchiolò sotto il suo peso.

    Di fronte a lui, su una delle poltroncine in pelle, sedeva un altro uomo.

    Alto e sottile, dava l’idea di essere flessibile come un giunco. Riccioli scuri attorno ad un viso magro e dalle guance scavate. Gli occhi scuri, generalmente annebbiati dai suoi molti vizi, erano inverosimilmente lucidi.

    Indossava un gilet di jeans con una maglia a mezze maniche, lasciando scoperte le braccia esili.

    I jeans chiari erano strappati sulle ginocchia e aveva ai piedi delle Dottor Martens nere.

    Ric si chiuse la porta dietro le spalle e chinò il capo.

    «Salute, Dio dell’estasi.»

    Dioniso sorrise.

    «Ric, amico mio» lo salutò, «È un po’ che non vieni alle mie feste.»

    Ric ridacchiò, afferrando lo schienale della poltroncina libera e tirandola indietro, prima di sedersi.

    «Il lavoro ci impegna, mio Signore» rispose il demone, «Ma posso garantirti che io ed Hektor non mancheremo alla prossima occasione.»

    Damian sbuffò, appoggiando le mani sul piano liscio della scrivania.

    «Manca solo un’altra festa a voi due depravati» mugugnò.

    Ric rise di nuovo, prima di rivolgersi al Dio.

    «Come mai sei tra i mortali? Credevo che non potessi più scendere dall’Olimpo.»

    Dioniso arricciò il naso e strinse gli occhi a quel pensiero.

    «È vero» mugugnò, con l’espressione di un bambino in castigo, «Stare a contatto con gli umani è una delle cose che Zeus mi ha vietato di fare.»

    Ric si morse il labbro inferiore, cercando disperatamente di non ridere.

    Dioniso era figlio di Zeus, il più giovane tra gli Olimpi per la precisione.

    Era il Dio dell’estasi, del vino e delle feste. Era come il rampollo irresponsabile ed eternamente giovane di una famiglia ricca; amava fare festa con le ninfe, amava le droghe ed ogni cosa che ottenebrasse i sensi. Era davvero raro riuscire a vederlo lucido, come in quel momento.

    Zeus gli aveva vietato categoricamente di entrare di nuovo in contatto con gli esseri umani.

    L’ultima volta che l’aveva fatto, era stato nel 1964: il giovane Dioniso era sceso dal Monte Olimpo, si era stabilito in una bella casa in America, la nuova terra dello spasso, ed aveva deciso di chiamarsi Jim Morrison.

    Secondo i suoi programmi, avrebbe dovuto divertirsi da matti.

    E lo fece, in effetti. Musica, droghe, donne: si era divertito in ogni modo possibile.

    Salvo poi far incazzare Zeus, quando aveva visto quel figlio diventare più famoso di lui tra gli esseri umani.

    Finì che nel 1971 dovette fingersi morto per non incorrere nelle ire del padre, e si affrettò a tornare sull’Olimpo.

    «Quindi, se non è per stare con gli umani, che ci fai qui?» chiese Ric.

    «Pare che ci sia un problema con un demone» tagliò corto Damian.

    Il Principe si spazientiva molto facilmente.

    «Un gruppo di demoni» precisò Dioniso, lanciandogli un’occhiata infastidita, «Stanno minacciando le ninfe di Antalya.»

    Ric sentì il cuore mancare un battito a quel nome, ma mascherò il dolore con la maestria dell’abitudine. Aggrottò le sopracciglia e chiese:

    «Le ninfe non ti appartengono. Perché mai dovresti proteggerle?»

    Dioniso sorrise.

    «Le ninfe mi divertono. E quella colonia mi sta particolarmente a cuore, perché sono davvero le più disinibite al mondo.»

    Damian roteò gli occhi, snervato da quei continui riferimenti alle sue stupide feste, e Ric si lasciò andare ad un sorriso amaro.

    Sapeva benissimo come fossero le ninfe di Antalya.

    «Di che demoni stiamo parlando?» chiese poi il Principe.

    Dioniso alzò la testa.

    «Non li ho visti personalmente, perciò non saprei dirti. Ma le ninfe mi hanno riferito che sono guerrieri.»

    «Demoni Kato?» chiese Ric.

    «No» Damian scosse la testa, portandosi le mani dietro la nuca ed inclinandosi all’indietro. La sedia scricchiolò di nuovo, «I Kato non sono molto forti, le ninfe li avrebbero fatti fuori senza problemi.»

    «Sono arrivati da sud» spiegò il Dio, «E sono talmente pericolosi che le ninfe sono costrette a rimanere in acqua per non farsi prendere.»

    Damian alzò gli occhi al soffitto, riflettendo.

    «Probabilmente non possono andare più a nord. Quello è territorio delle Amazzoni e quelle stronzette non sono per niente socievoli con i demoni.»

    Ric sospirò.

    «Più forti delle ninfe, ma non abbastanza per le Amazzoni. Io direi che sono Zmeu.»

    «Andremo a vedere» concluse Damian, raddrizzandosi.

    Dioniso volse gli occhi scuri su di lui.

    «Mi garantisci che risolverete il problema?» chiese.

    Damian inarcò le sopracciglia.

    «Esiste un problema che non sappiamo risolvere?»

    Dioniso sorrise della sua arroganza e si rilassò contro lo schienale.

    «Bene» sospirò, «E quando avrete finito, le ninfe celesti saranno pronte ad allietare voi e il khrathos alla mia festa a Kyzyl.»

    «Saremo onorati di partecipare, mio Signore» rispose Ric, mentre Damian roteava gli occhi per l’ennesima volta.

    E quando Dioniso svanì nel nulla, Ric si appoggiò le mani sulle cosce e scivolò più in basso sulla poltroncina, appoggiando la nuca allo schienale.

    «Che palle» sbottò.

    «Già» mugugnò Damian, appoggiando i gomiti sulla scrivania, «Odio le feste di Dioniso. Invita sempre la Regina delle Amazzoni.»

    Ric aggrottò le sopracciglia e sollevò la testa.

    «Parlavo dei demoni, idiota» lo sfotté.

    Damian si alzò in piedi, camminando verso le grandi vetrate.

    «Quelli non sono un problema. Andrò con Hektor e gli ekaty, torneremo in un paio di giorni.»

    Ric si voltò a guardarlo, appoggiando il gomito sullo schienale.

    «Quando è stato deciso che io resto qui?» chiese con tono polemico.

    Damian si appoggiò con la spalla alla vetrata: le braccia conserte e le caviglie incrociate.

    «Quando ho pensato che Antalya non fosse proprio il posto migliore in cui portarti.»

    Ric sollevò le gambe, piantando rumorosamente i talloni sulla scrivania ed incrociando le caviglie.

    «Sei gentile a preoccuparti per me» lo sfotté, «Ma se mai avessi bisogno di una moglie, ti assicuro che non saresti tu.»

    Damian sbuffò, volgendo lo sguardo al panorama.

    «Fa’ un po’ come ti pare» grugnì.

    Il palazzo era costruito accanto al parco comunale; da quel punto, Damian poteva vedere le fronde degli alti pini e il laghetto artificiale, tondo, in cui anatre e cigni sfilavano placidamente.

    Aveva tanti bei ricordi in quel posto.

    Ricordi che, a volte, avrebbe tanto preferito poter dimenticare.

    Ma non sarebbe mai riuscito a dimenticarsi di lei, perciò la sua unica soluzione era distrarsi.

    Con la guerra.

    Qualunque guerra che lo tenesse impegnato e non gli permettesse di fermarsi neppure per un istante, perché se fosse rimasto solo coi suoi pensieri, allora… beh, il dolore sarebbe stato insopportabile.

    «Quando vuoi partire?» chiese Ric, con tono annoiato.

    Damian non si voltò a guardarlo.

    «Domattina.»

    Capitolo 3

    Arrivò alla gigantesca villa quando ormai il sole era tramontato da un pezzo. Oltrepassò i doppi cancelli di ferro, uniche aperture nella doppia muraglia di piombo che circondava tutto il terreno. Nello spazio tra i due muri, c’era un fossato largo quattro metri e profondo una ventina, costellato di spuntoni d’acciaio, che avrebbero infilzato chiunque fosse stato così stupido da tentare di entrare.

    La BMW percorse senza problemi il lungo viale in salita, che tagliava il verde curato dell’immenso giardino, fino a raggiungere la piazzola di ghiaia di fronte all’ingresso.

    La villa era un edificio a pianta rettangolare di due piani fuori terra, costruita con mura di cemento e piombo rivestite in legno scuro, per dare all’insieme l’aspetto di una casa di montagna.

    Sei ettari di terreno la circondavano, rendendola un luogo favolosamente appartato.

    Ric parcheggiò la BMW accanto alle cinquanta Yamaha del khrathos ed attraversò la piazzola. Salì i tre gradini di pietra ed aprì un’anta del grande portone blindato.

    L’ingresso dava direttamente sulla larga scalinata in legno che portava al piano di sopra, dove c’erano le ventiquattro camere da letto della casa, e al piano seminterrato, dov’era allestita una comoda palestra.

    A sinistra, un arco in muratura conduceva alla sala da pranzo, dove due lunghissimi tavoli in ciliegio erano di certo già apparecchiati per la cena, come poteva dedurre dal chiacchiericcio degli uomini che riusciva a sentire; da quella stanza, si accedeva anche alla cucina, gestita sorprendentemente bene da Alessandro e Tommaso, due Maximi figli di Afrodite e di origini Italiane.

    Non avevano servitù alla Baita, come la chiamavano i ragazzi, perché a nessun umano era concesso attraversare i cancelli.

    Tutti i guerrieri del khrathos erano semidei, spesso avevano a che fare con il sovrannaturale, erano loro stessi molto più forti di qualunque essere umano; non potevano permettere che qualche mortale scoprisse cosa fossero in realtà. Per non parlare del fatto che gli Dei dell’Olimpo li avrebbero uccisi tutti, se gli umani avessero scoperto del mondo divino che si celava dietro la facciata di normalità creata appositamente per loro.

    A destra dell’ingresso, un altro arco dava sul grande salone.

    Cinquanta guerrieri, uomini adulti, figli degli Dei, perciò bellissimi e dotati di forza straordinaria, addestrati al solo scopo di uccidere, maestri in ogni arte da combattimento ed esperti in ogni tipo di arma, erano stati capaci di trasformare quella stanza in una sala giochi degna del più infimo bar di quartiere.

    Il mobilio moderno a tinte acciaio e porpora stonava con tutti i loro giocattoli.

    Console elettroniche proiettavano videogiochi sulla parete bianca, tre tavoli da biliardo dominavano la sala, accanto a due postazioni per l’hockey ad aria, sei simulatori di gare motociclistiche con tanto di Ducati a grandezza reale, e un piano bar che avrebbe fatto invidia al locale più in di San Lorenzo.

    A quell’ora, in genere, i Maximi erano radunati attorno ai tavoli e mangiavano l’equivalente nutrizionale della quantità di cibo che avrebbe potuto sfamare un villaggio africano per settimane.

    Ric non aveva fame, però.

    Il solo nominare Antalya gli aveva chiuso lo stomaco, oltre ad avergli fatto passare la voglia di vedere qualunque altro essere vivente.

    Così, attraversò l’arco ed entrò nel grande salone dei divertimenti, sorprendendosi di trovare Hektor dietro il bancone del bar.

    Alto e possente, quasi quanto il suo Principe, Hektor aveva capelli di un biondo chiarissimo rasati cortissimi. La mascella larga, il naso dritto.

    Indossava una maglia bianca a mezze maniche: aveva una mano posata sul bancone e l’altra chiusa attorno ad un bicchiere di Zacapa XO.

    Teneva gli occhi chiusi, come se stesse pensando. Aveva quarantacinque anni, ma ne dimostrava almeno dieci di meno, con quella pelle luminosa e perfetta. Come tutti i Maximi era mortale, ma invecchiava molto più lentamente degli umani. Delle leggere rughe ai lati degli occhi si formavano quando sorrideva.

    Era bello come un pericoloso angelo della morte.

    «Che ci fai qui?» chiese Ric, avvicinandosi lentamente. Hektor aprì gli occhi di un gelido color piombo: erano proprio quelli a farlo sembrare un assassino.

    Il Maximo aggrottò le folte sopracciglia bionde e le sue labbra carnose s’incresparono in un sorriso divertito.

    «Non posso bere un rum in santa pace?» ribatté.

    Ric storse la bocca e piegò la testa di lato, assentendo.

    «Certo che puoi.»

    Si appoggiò con i fianchi al tavolo da biliardo ed incrociò le braccia sul petto.

    «Ma converrai con me che è strano» continuò, «Il vorace Hektor che salta la cena?» Strinse un occhio, «Non dirmi che stai male.»

    Hektor s’inumidì le labbra e ridacchiò.

    «No. Certo che no» rispose, distogliendo gli occhi da quelli del demone.

    Ric lo fissò per un altro lungo momento, rimanendo in silenzio. Poi, assolutamente impassibile, disse:

    «Melia, mia cara, esci da lì sotto, per cortesia.»

    Hektor si morse il labbro inferiore ed alzò gli occhi al soffitto, sforzandosi di non ridere.

    Fece un passo indietro ed una ragazza si alzò in piedi da sotto il bancone.

    Lunghi capelli mossi e rossi, come le foglie degli alberi in autunno. Indossava un abitino fucsia aderente alle forme deliziose.

    Si asciugò le labbra con il dorso della mano, tenendo gli occhi bassi, mentre Hektor si riallacciava i jeans.

    «Tesoro» le disse Ric, «Aspetta vicino alla porta, va bene?»

    La ninfa annuì e a passo svelto uscì dal salone, accompagnata dal ticchettio dei suoi tacchi a spillo sul parquet.

    Hektor si appoggiò di nuovo al bancone, stavolta con i gomiti, e sollevò il bicchiere di rum, sfoderando quel suo sorriso strafottente.

    «Come te ne sei accorto?» gli chiese, bevendo un sorso.

    «Sento il loro odore, genio» lo sfotté il demone, «Ti ha dato forse di volta il cervello?» chiese, restando calmo, «Ci sono delle regole per gli ospiti. Se ti avesse beccato Damian, ti avrebbe scorticato vivo.»

    Hektor sorrise ancora, per nulla spaventato.

    «Damian non sente gli odori come i demoni» ribatté, irriverente.

    Ric scosse piano la testa e si lasciò andare ad un sorriso cameratesco.

    «Passami la mia vodka» disse poi.

    Hektor si voltò e prese una bottiglia di Absolute Vodka dallo scaffale a muro. Non si curò di prendere il bicchiere, lanciando al demone l’intera bottiglia.

    Non c’era pericolo che Ric ne lasciasse un po’.

    Afferrò la bottiglia al volo e la stappò, mentre Hektor beveva un sorso del suo rum.

    «Domattina partiamo per Antalya» disse il demone, «Sei in grado di tenertelo nei pantaloni e non far scappare anche questa segretaria?»

    Hektor rise. Aveva una voce bassa e melodiosa.

    «Ci posso provare. Ma sarà difficile. Ha un bel culo.»

    Ric sbuffò.

    «Sembri un ragazzino in piena crisi ormonale.»

    Hektor rise di nuovo, agitando il rum nel bicchiere. Poi chiese:

    «Quindi, hai deciso di andare?»

    Ric buttò giù un sorso di vodka.

    «Perché mi fate tutti la stessa domanda?» chiese, sedendosi sul tavolo da biliardo, «Sono stato con lei in ogni angolo del mondo, ma non mi sembra che abbia smesso di viaggiare.»

    «Perché era la tua myssi e ci preoccupiamo per te, se decidi di andare nel luogo in cui hai incontrato la tua anima gemella.»

    Ric alzò gli occhi al soffitto, come esasperato.

    «È un posto come un altro, Hek.»

    Hektor lo guardò di traverso, così che la sua fronte si corrugò in un’espressione di chiaro scetticismo.

    Ric strinse gli occhi verdi.

    «Insisti» ringhiò, «E stasera ti strappo la carotide.»

    Hektor allora sorrise. Batté il bicchiere vuoto sul bancone e sospirò, aggirandolo.

    «Bene» disse, «Visto che hai messo fine alla mia lussuria, dovrò peccare di gola.»

    Il demone annuì.

    «Buon appetito» gli augurò, mentre il ragazzo usciva dalla sala.

    Rimasto solo, Ric abbassò gli occhi sulla bottiglia che teneva tra le mani. Arrotolò la manica della camicia e lo sguardo gli cadde inevitabilmente sul tatuaggio che aveva all’interno del polso sinistro.

    Dina era scritto nella lingua degli Dei.

    Un sorriso mesto gli colorì il viso.

    Damian e Hektor non erano molto lontani dalla verità, purtroppo.

    «Davvero?» chiede Hektor sorpreso, «Avevi una myssi

    Ric fa ondeggiare la vodka nel bicchiere, mentre appoggia un braccio alla spalliera del divano su cui sono seduti.

    «Sei sordo o solo un po’ lento?» lo sfotte il demone, guardando le ninfe camminare per il locale.

    Sono ninfe celesti, Nefeli per la precisione: hanno tutte lunghi capelli bianchi come nuvole e indossano dei completi di pelle nera che aderiscono come guanti alle loro forme da capogiro.

    Ric piega la testa di lato, mentre scruta il culo a mandolino di quella che serve da bere al divano vicino al loro.

    Dei dell’Olimpo, ha sempre amato San Pietroburgo e i suoi locali per immortali.

    «Non capisco» insiste Hektor, «Sei un demone, quindi la tua myssi era un demone?»

    Ric rotea gli occhi, esasperato.

    Di solito Hektor è abbastanza sveglio: è figlio di Atena ed è un grande stratega. È la mente del khrathos. Ma quando esagera con l’assenzio, diventa come un mastino: lento ad imparare e buono solo a menare le mani.

    «No, Hek. Era una ninfa acquatica, un’Ondina» risponde con tono annoiato.

    Hektor stringe gli occhi grigi e si gratta la tempia, mentre con l’altra mano tiene il bicchiere di rum. Sarà il settimo? Ric non li ha contati, ma dopo averlo visto scolarsi la bottiglia di assenzio, ha perso le speranze di riportarlo in albergo lucido.

    «C’è una legge» dice, sbiascicando le parole, «Gli Dei non permettono ai demoni di innamorarsi delle ninfe.»

    «Sì» sbotta Ric, «Perché le ninfe acquatiche sono lacrime di Poseidone e i demoni sono tenebra di Ade. Hai fatto i tuoi compiti. Ma la mia situazione era diversa.»

    Hektor si volta sul divano, incrociando le gambe come un bambino di fronte al nonno in attesa di una storia.

    «In che senso?» chiede, attento per quel che la sbronza gli permette.

    Ric rotea gli occhi.

    «I demoni non hanno myssi» gli spiega, «Ma io non sono un demone: ero un umano ed Era mi ha punito, trasformandomi in un demone, ti ricordi?»

    Il Maximo aggrotta le sopracciglia bionde ed annuisce, con la fronte corrugata nel tentativo di concentrarsi.

    «Bene» continua Ric, agitando il bicchiere vuoto in direzione di una ninfa, «Perciò, io ho una myssi. Siamo stati insieme per settant’anni e poi, quando abbiamo iniziato a diventare mortali come succede a tutti i myssi, lei ha cominciato ad ammalarsi, perché il mio sangue era ancora infetto. Così l’ho dovuta lasciare.»

    Hektor resta con la fronte corrugata e le sopracciglia aggrottate. Si muove sul divano, facendo ondeggiare il bicchiere e versandosi un po’ di rum addosso, ma non se ne accorge neppure.

    «E cosa c’entra Persefone?» gli chiede.

    Ric sospira.

    Odia quando il suo amico diventa un ubriaco curioso.

    «La storia è complicata» risponde, «Ti basti sapere che Persefone ha scoperto che amavo ancora la mia myssi e mi ha punito per aver infranto quella legge. Così ora non posso più rivolgerle la parola o lei verrà risucchiata negli Inferi.»

    Hektor si porta una mano al petto.

    «Ma è una storia tristissima!» enfatizza.

    Ric alza gli occhi al soffitto e allunga il bicchiere verso la ninfa che si è avvicinata.

    Lei lo riempie con altra vodka ed Hektor alza gli occhi grigi a guardarla.

    «Ehi, Nefele» le dice, «Il mio amico mi ha appena raccontato una storia strappalacrime. Ti va di consolarlo?»

    La ninfa tira le labbra in un sorriso. I suoi occhi sono neri come la notte più buia.

    «Dipende» risponde, «Quanto era triste questa storia?»

    «Una storia d’amore» spiega Hektor, che d’un tratto non sembra più troppo ubriaco e sfodera quel suo sorriso da conquistatore che lo rende irresistibile per ogni donna, «Era struggente, dolcezza. Davvero. E soltanto le impareggiabili arti amatorie di una ninfa celeste possono salvarlo.»

    La ninfa allora si volta a guardare Ric.

    «Hai davvero bisogno di me, mio Signore?» gli chiede.

    Ric inarca le sopracciglia.

    «E tu vuoi davvero lenire le pene di un demone?»

    La Nefele si inginocchia, posando a terra la bottiglia piena.

    Appoggia le mani sulle cosce di Ric e sorride, mostrando i denti bianchi e perfetti.

    «Per l’Oimedo che ci protegge al fianco del Principe?» si allunga su di lui, finché le labbra morbide non sfiorano le sue, «Puoi chiedere quello che vuoi, mio Signore.»

    Voleva Dina, ecco cosa voleva.

    Per trent’anni le era stato accanto senza poterla amare, così che lei non rischiasse di morire, e negli ultimi venti non aveva neanche potuto rivolgerle la parola.

    Non c’era giorno in cui non pensasse a lei, non c’era luogo che non gliela riportasse alla mente.

    Andare ad Antalya?

    Certo che era un problema, cazzo.

    Era lì che l’aveva conosciuta, centoventiquattro anni prima, quando lei era una bellissima ninfa e lui un disperato rigurgito degli Inferi, che non sapeva cosa fare della propria vita.

    L’aveva presa con sé ed avevano girato il mondo.

    L’aveva amata con tutto se stesso.

    Per settant’anni erano stati felici. Felici davvero.

    Ma quella era la realtà e non una bella favola, perciò potevano scodarsi la fantasia di un lieto fine.

    La condanna di Era prima, e quella di Persefone poi, incombevano sulle loro teste come pericolose spade di Damocle.

    Perdere un myssi significava lasciarsi indietro un pezzo di cuore, una parte di sé che non si sarebbe mai più ritrovata in nessun altro al mondo.

    Ma Ric, il cuore, l’aveva perso per intero.

    Non c’era niente in quel mondo che potesse più entusiasmarlo, niente che avrebbe mai potuto portarlo anche solo vicino alla felicità.

    Buttò giù una sorsata di vodka e scese dal tavolo: si sarebbe buttato sul letto ed avrebbe ubriacato il suo dolore, come faceva ogni notte da troppi anni.

    Uscì dal salone tornando nell’ingresso e si soprese di trovare la ninfa terrestre accanto alla porta.

    Aveva dimenticato che le aveva chiesto di stare lì.

    La ninfa abbassò lo sguardo per rispetto e lui la scrutò da capo a piedi.

    I capelli erano lunghi, con stretti e vaporosi riccioli di un bel rosso.

    Il viso era come quello di tutte le ninfe, assolutamente perfetto.

    Anche il corpo era come quello di tutte le altre: eternamente sexy.

    Le ninfe erano creature lussuriose: venivano educate fin da bambine a compiacere un uomo. L’arte della seduzione era nel loro sangue ed avevano bisogno degli uomini.

    Una ninfa privata del sesso era destinata ad impazzire.

    «Come ti chiami?» le chiese.

    Conosceva già la risposta a quella domanda, perché tutte le ninfe rispondevano sempre allo stesso modo.

    La Melia non sollevò la testa.

    «Non ho nome, mio Signore. Sono una Melia, come le mie sorelle.»

    Le parole erano le stesse, ma con la voce di Dina avevano avuto tutto un altro sapore.

    Quando l’aveva presa, anche lei era soltanto un’Ondina come le sue sorelle.

    Era stato lui a darle un nome che la distinguesse da tutte le altre.

    Certo, non aveva avuto molta fantasia, ma lei era stata felice lo stesso.

    Ric scrutò ancora le forme della Melia, strette nell’abitino fucsia.

    Forse avrebbe potuto affogare il dolore nella vodka e in qualcos’altro.

    «Ti va se andiamo su da me, prima che ti riporti in città?» le chiese.

    Il viso della ninfa s’illuminò e sorrise.

    «Sarò lieta di compiacerti, mio Signore.»

    Capitolo 4

    Damian entrò nella propria camera, chiudendosi la porta alle spalle.

    Attraversò la stanza mentre si toglieva la maglia. La gettò sul morbido tappeto avana ai piedi del letto kingsize dalla testiera in legno intarsiato.

    Passò accanto al comò da cinque cassetti, sormontato da un grande specchio ovale, ed entrò nel suo bagno privato.

    Maioliche nocciola e un piatto doccia grande come un letto a due piazze, con un soffione enorme ed un sedile per l’idromassaggio.

    Non che lui l’avesse mai usato: perdere tempo a farsi massaggiare da getti d’acqua calda non rientrava tra le cose che amasse fare.

    Chiuse i vetri del box doccia dietro di sé e si fermò sotto il getto dell’acqua quando era ancora fredda.

    Gli dispiaceva per Ric.

    Tornare nel posto in cui aveva conosciuto Dina non sarebbe stato semplice e Damian lo sapeva benissimo.

    San Lorenzo era il luogo in cui aveva conosciuto la sua myssi.

    La sua splendida Sofia.

    La figlia umana di Poseidone che si era sacrificata, uccidendosi per salvare il mondo intero.

    Erano passati vent’anni da quando l’aveva vista morire e ancora non riusciva a farsene una ragione.

    Non parlava mai di Sofia, pronunciare il suo nome ad alta voce sarebbe stato sacrilego.

    E sapeva che lei aveva fatto la scelta giusta: se non si fosse sacrificata, l’intero universo sarebbe precipitato nel caos, eppure non poteva fare a meno di avercela un po’ con lei.

    Con una spugna ruvida si insaponò il torace, dove un tatuaggio maori era disegnato dal pettorale sinistro fino alla spalla per coprire lo yemma, la voglia a forma di sole che indicava la sua discendenza da un Dio.

    Da Ares, per la precisione. Era il figlio immortale del Dio della guerra, bagnato nel fiume Stige e perciò invincibile.

    Il suo unico punto vulnerabile era il tallone sinistro, per questo era ricoperto da un impianto di metallo che lo inguainava come un calzino argenteo.

    Strofinò con vigore il ventre, passando la spugna sul tatuaggio a forma di sole che aveva tra l’ombelico e l’anca, e lo sguardo gli cadde inevitabilmente sull’altro tatuaggio, quello più importante.

    Il nome di Sofia era inciso all’interno del suo avambraccio sinistro, così grande da arrivare fino all’incavo del gomito.

    Lei aveva un tatuaggio identico col nome di Damian, nello stesso punto.

    Non avevano celebrato la cerimonia che ufficializzava l’unione di due myssi: si erano ripromessi di farlo non appena lei fosse stata al sicuro, ma non ne avevano avuto il tempo.

    Perché, sostanzialmente, lei non era mai stata al sicuro.

    Damian aveva fallito nel compito più semplice che gli fosse mai stato assegnato dagli Dei e non si sarebbe mai perdonato per questo.

    «Non è andata esattamente così» disse una voce. La sua voce.

    Damian non sussultò: era così abituato a vederla e sentirla d’improvviso, che non si sorprendeva più.

    Sofia era lì, nell’angolo della doccia, appoggiata con le mani dietro la schiena alla parete fredda.

    I capelli neri, scompigliati e adorabilmente sexy, incorniciavano il viso rotondo dai grandi occhi nocciola.

    Le labbra carnose erano tese in quel sorriso che solo al mondo aveva saputo scaldargli il cuore.

    Era nuda: soda e formosa, non era mai stata una modella la sua myssi.

    Ma era quanto di più bello avesse mai visto al mondo.

    Nel suo incarnato olivastro, tra l’ombelico e l’anca, spiccava la voglia bianca a forma di sole.

    Sapeva che era solo un frutto crudele della sua immaginazione: la sua mente gli giocava quei tiri mancini da vent’anni.

    Lui aveva soltanto imparato ad amarli.

    Damian si raddrizzò, continuando a stringere la spugna e sentendo sollevarsi quel pesante masso di dolore che gli comprimeva il petto in ogni istante della sua vita.

    Non poteva controllare quelle visioni, ma ogni volta che ne aveva una, gli sembrava di ricominciare a respirare.

    «E com’è andata allora?» le chiese.

    Sofia inclinò lievemente la testa di lato ed i capelli spettinati ondeggiarono un po’.

    «Non hai fallito», gli disse con dolcezza, «Sono stata io ad andare da Ade.»

    Damian abbassò lo sguardo sulla spugna, stringendola con entrambe le mani.

    «Per colpa mia. Se non mi fossi distratto, non mi avrebbero ferito e ora saresti ancora qui.»

    Sofia sbuffò.

    «Non prenderti sempre la colpa di tutto, Dam.»

    Lui alzò di nuovo gli occhi diversi a guardarla.

    «E tu non cercare sempre di salvarmi.»

    Sofia si piantò le mani sui fianchi ed aggrottò le sopracciglia, facendo la voce grossa per imitare la sua.

    «Certo. Perché io sono il Principe: sono il più forte di tutti ed essere triste e cupo è la mia missione.»

    Damian piegò le labbra in un sorriso storto e strinse gli occhi.

    «Non essere irriverente, ragazzina» minacciò.

    Lei rise.

    Aveva una risata cristallina, adorabile. Che gli stringeva il cuore.

    Damian lasciò cadere la spugna e posò le mani contro il muro, ai lati della sua testa.

    Dei dell’Olimpo, che voglia aveva di baciarla.

    Di sentirla di nuovo, di respirare il suo profumo.

    «Mi manca l’aria da quando non ci sei» mormorò.

    Lo sguardo di Sofia s’addolcì e gli posò una mano sul viso. Damian non sentì assolutamente niente, perché per quanto la sua mente si sforzasse, per quanto lei sembrasse reale, la verità era che lei non esisteva più.

    «Tu sei un uomo meraviglioso» gli disse. Quelle parole d’addio risuonavano ogni secondo nella sua mente, «Lasciati amare, Damian, ti prego. Meriti tutto l’amore che una donna sappia dare.»

    «Cazzo, ti prego smettila» ringhiò.

    Sofia si sollevò sulle punte e posò le labbra sulle sue. Damian chiuse gli occhi e trattenne il respiro.

    «Ti amo, Damian.»

    Non voleva riaprirli, non voleva vedere che lei era sparita, non voleva che il dolore gli precipitasse addosso di nuovo.

    Imprecò una, due volte. Poi batté i pugni contro la parete, così forte che l’intera casa sembrò tremare.

    Credeva che col tempo il dolore si sarebbe affievolito, credeva che sarebbe riuscito a superarlo, ma era stato un illuso.

    Sofia era la sua metà ed era morta.

    Niente al mondo avrebbe mai potuto sistemare le cose.

    Capitolo 5

    Il Drinkup era l’unico locale decente a San Lorenzo.

    Si trovava di fronte al parco comunale, proprio accanto al palazzo della Drep Service.

    Non che mancassero pub in quella città, ma il Drinkup era l’unico in cui le ragazze volessero andare: il resto dei locali erano poco più che squallidi bar per ubriaconi.

    Era un palazzetto di due piani, costruito in cemento bianco e praticamente privo di finestre. Un buttafuori vestito di nero e dalle spalle poderose era di fronte all’ingresso.

    Ric ed Hektor gli passarono di fronte senza preoccuparsi di rallentare e al tipo non balenò in mente l’idea di fermarli.

    Non fosse stato per la cicatrice, Ric sarebbe sembrato un ragazzo normalissimo, con una camicia rossa che metteva in risalto il fisico curato e un’espressione cordiale.

    Ma Hektor era la personificazione del pericolo: jeans scuri infilati negli anfibi militari di pelle nera, una t-shirt grigia che aderiva al torso possente, e un giubbotto di pelle borchiato. I capelli biondi rasati di fresco e, nel viso d’angelo, occhi grigio piombo che sapevano raggelare chiunque.

    Il buttafuori sapeva quanto fosse pericoloso sfidare quel bellissimo angelo della morte.

    Entrarono nel locale, subito investiti dal forte odore di chiuso.

    Il colore dominante era il bianco: bianco il pavimento in linoleum lucido, bianche le pareti e le colonne, bianco il bancone da dodici metri con otto bariste, bianche le divise, bianchi i divanetti e le poltroncine.

    Tutto era illuminato da luci al neon azzurre, che rendevano l’atmosfera subacquea. L’illusione di trovarsi in fondo al mare era alimentata anche dai numerosi acquari con pesci tropicali incastonati nel bancone e nelle colonne.

    Al piano di sopra, cui si accedeva tramite una scala in ferro laccata di bianco, c’erano i privé: dal bancone del bar era possibile capire dove fossero perché ruotavano attorno al perimetro dell’edificio ed ogni stanza aveva una grande vetrata che affacciava sul piano inferiore.

    Hektor frequentava quel pub così spesso da avere una saletta tutta per sé; per fortuna il vetro era satinato, così che nessuno potesse vedere a quali piaceri perversi il Maximo amasse lasciarsi andare.

    Si avvicinarono al bancone e una delle bariste, poco più che diciottenne e con un seno sufficientemente generoso da meritare le laute mance di Hektor, si avvicinò immediatamente e rivolse loro un sorriso radioso.

    «Che vi do, ragazzi?»

    Hektor si appoggiò al bancone con un gomito, strizzò l’occhio sinistro e le rivolse un sorriso strafottente.

    «La tua camicetta, tesoro.»

    La ragazzina scoppiò a ridere, portandosi una mano di fronte alla bocca e spostandosi dal viso i capelli neri con un movimento della testa; erano tagliati a caschetto, incorniciando il viso ovale e giovane.

    «Mi dispiace, Hek» gli disse poi. Sorrise e si sforzò di assumere un atteggiamento spavaldo, ma il rossore sulle guance tradì il suo imbarazzo, «L’altra sera per poco non mi hanno licenziato, quindi resta al tuo posto per favore.»

    Hektor inarcò un sopracciglio, senza perdere quel piglio divertito.

    «Devo fare due chiacchiere con Flavio. Non è ammissibile che le sue cameriere non possano lavorare senza camicetta.»

    Ric afferrò Hektor per una spalla e lo tirò indietro bruscamente. Il Maximo indietreggiò di un paio di passi per mantenere l’equilibrio.

    «Lascialo stare» disse poi il demone alla ragazza, «Sai come è fatto. È solo un cazzone.»

    Hektor dietro di lui rise.

    «Quello lo sa bene, non preoccuparti.»

    Il viso della barista arrossì violentemente e Ric dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere.

    «Dammi una vodka» le disse allora, per salvarla dall’imbarazzo, «E un rum per l’idiota.»

    La ragazza si voltò verso la scaffalatura sulla parete, dove erano allineate decine e decine di bottiglie, ed Hektor si avvicinò di nuovo al bancone.

    «Allora?» chiese al demone, «Come è andata ad Antalya?»

    Ric continuò a sorridere, come se gli avesse chiesto soltanto che ora fosse.

    «Siamo andati, li abbiamo uccisi, siamo tornati» rispose, «Fine dei giochi. È andato tutto bene.»

    La colonia di ninfe si trova nei pressi delle cascate di Antalya.

    Per la precisione, le Ondine vivono in una pacifica laguna dall’acqua verde-azzurra, circondata da una fitta e rigogliosa vegetazione.

    Damian ha deciso di portare con sé soltanto Ric e gli ekaty, i tiratori scelti: tre gemelli dai riccioli rossi e grandi occhi verdi.

    Figli di Eros, il Dio dell’amore e il migliore tra gli arcieri, quei tre

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