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L'Ira di Ade (L'Esercito degli Dei #4): #Eithè
L'Ira di Ade (L'Esercito degli Dei #4): #Eithè
L'Ira di Ade (L'Esercito degli Dei #4): #Eithè
E-book733 pagine11 ore

L'Ira di Ade (L'Esercito degli Dei #4): #Eithè

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Info su questo ebook

I Maximi non possono provare emozioni. Creati per essere implacabili macchine assassine, non hanno spazio per debolezze come il dolore o il rimpianto.
Hektor non ha mai avuto dubbi sulla propria vita, né sul suo obiettivo: servire l’Esercito degli Dèi ed essere leale ai suoi compagni.
Cosa succede, però, quando un Maximo si innamora?
Hektor non è pronto ad affrontare gli sconvolgimenti che una myssi, un’anima gemella, può apportare alla vita di un guerriero.
E il Fato non sembra essere dalla sua parte.
Quando gli Dèi si riveleranno contrari alla loro unione, Hektor potrà chiedere aiuto soltanto al Principe dei guerrieri.
Ma Damian ha ricevuto degli ordini chiari e non può ignorarli, neanche per il migliore tra i suoi guerrieri.
In balìa degli eventi, a Hektor non rimarrà che prendere la più difficile delle decisioni: seguirà la ragione, restando al sicuro e tenendo fede al giuramento che lo vincola al khrathos, o si lascerà guidare dal cuore, rinnegando i suoi compagni e sfidando il suo Principe, per salvare l’amore della sua vita?
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2016
ISBN9788822838322
L'Ira di Ade (L'Esercito degli Dei #4): #Eithè

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    Anteprima del libro

    L'Ira di Ade (L'Esercito degli Dei #4) - Thalia Mars

    migliore.

    Prologo

    From father to son

    Hear the word that I say

    I fought with you

    Fought on your side

    Long before you were born

    Joyful the sound

    The word goes around

    From father to son to son

    Queen – Father to son

    Da padre a figlio

    Ascolta quello che dico

    Ho combattuto con te

    Ho combattuto dalla tua parte

    Molto prima che tu nascessi

    Gioioso il suono

    La parola va

    Di padre in figlio in figlio

    Queen – Father to son

    Febbraio 2001

    La mano di suo padre era grande: aveva le dita affusolate di un pianista e, nonostante fosse un uomo esile, erano mani energiche, forti.

    Hektor si sentiva sempre al sicuro quando suo padre gli stringeva la mano. Per qualche oscura ragione, però, in quel momento non stava funzionando.

    Camminavano uno accanto all’altro, ai piedi del Monte Olimpo. Suo padre lo aveva portato lì per una gita; era un professore di musica al conservatorio di Trikala, aveva accompagnato a Tempes uno dei suoi brillanti studenti di pianoforte per un concerto e aveva pensato di portare con sé suo figlio, così da passare qualche ora insieme.

    Hektor alzò gli occhi per guardarlo; le spalle strette sotto la maglia di lana grigia, le gambe magre nei pantaloni felpati. Aveva lunghi capelli biondi, legati in una coda bassa, e profondi occhi grigi nel viso scavato e spigoloso.

    Era un uomo affascinante, anche se Hektor era troppo piccolo per vederlo.

    «Sai», suo padre aveva una voce da tenore, «Tua madre, prima di andarsene, mi chiese di portarti qui.»

    Hektor perse interesse dopo quelle parole. Orthros parlava in continuazione del grande amore della sua vita, del modo in cui l’aveva abbandonato e del bellissimo periodo che avevano trascorso insieme.

    Sua madre era scomparsa subito dopo la sua nascita, nessuno aveva idea di dove fosse, e suo padre non si era mai ripreso: nonostante fossero trascorsi dodici anni, continuava a pensare a quella splendida donna dai capelli corvini e la volontà di una guerriera.

    Gli aveva detto di chiamarsi Atena e la battuta preferita di Orthros in proposito era che doveva essere vero, che quella donna doveva essere una Dea, perché era perfetta in ogni cosa.

    «Non ho mai capito perché volesse una cosa del genere» continuò Orthros; a ogni passo, la terra arida scricchiolava sotto i loro scarponcini, «Diceva che a otto anni avrei dovuto farti suonare una campana.»

    Hektor aggrottò le sopracciglia bionde, perplesso.

    «In che senso una campana?» gli chiese, «Ci sono chiese sul Monte Olimpo?»

    Orthros sorrise e alzò le spalle.

    «Non che io sappia» rispose, poi sospirò, «Tua madre era così particolare. Uno spirito libero. Aveva sempre bisogno di fare qualcosa, di agire, di pensare» sorrise ancora, stavolta con malinconia, «Era una meraviglia.»

    «Però, papà», Hektor si grattò la tempia, confuso, «Adesso ho dodici anni. Perché hai aspettato così tanto?»

    Orthros scosse la testa e smise di camminare.

    «Qualche notte fa, mi è apparsa in sogno, bella com’era l’ultima volta che l’ho vista, e mi ha ricordato di portarti qui.» Sedette sulla roccia bianca del monte, per riposare un po’, «Ho pensato che fosse giusto che tu lo sapessi. Che esaudissi il suo desiderio.»

    Hektor si trattenne dall’esprimere i propri pensieri: se sua madre se ne era andata senza nemmeno un biglietto, di certo non meritava che suo padre si desse da fare per esaudire i suoi desideri.

    Ma Orthros era un animo romantico, un compositore che si lasciava guidare dalle parole del cuore e mai da quelle assennate della ragione.

    Camminarono ancora un po’, seguendo il sentiero sterrato che si inerpicava in alto, verso la cima.

    Beh, erano molto lontani dalla cima ed Hektor si domandò se suo padre volesse raggiungerla.

    In quel caso, non era sicuro che ce l’avrebbero fatta prima del tramonto.

    D’un tratto, suo padre si fermò di fronte a un olivo. Era grande, doveva essere molto vecchio: sul tronco, pieno di venature, spiccava un’incisione.

    «Guarda qui» disse Orthros ed Hektor si avvicinò.

    Un sole, identico a quella strana voglia bianca che il bambino aveva sulla pancia, era scolpito nel legno.

    «È come la voglia che aveva tua madre» mormorò l’uomo, sognante, «Quella che aveva alla base della schiena.»

    Hektor allungò una mano per sfiorare quell’incisione. Era profonda, molto più chiara del resto della corteccia.

    Passò le dita nelle scanalature del legno e, d’un tratto, una consapevolezza lo pervase.

    «Dobbiamo andare di qua» disse, indicando una via lontana dal sentiero.

    Non sapeva da dove venisse quell’intuizione, né perché l’avesse, ma sapeva di doverla seguire.

    Orthros non si oppose alla proposta del figlio: era così raro che facessero qualcosa insieme e, quando accadeva, soleva accontentarlo in ogni iniziativa.

    Tuttavia, consapevole delle poche ore che mancavano al tramonto, aprì il suo piccolo zaino e ne estrasse un filo rosso.

    «Se abbandoniamo il sentiero» spiegò al figlio, «Sarà bene segnare la strada, così non ci perderemo.»

    Hektor osservò il padre legare un’estremità dello spago all’albero e si rese conto di fremere.

    Qualcosa nella sua testa gli intimava di sbrigarsi. Doveva andare, doveva camminare all’interno del bosco.

    Quando si mossero, Hektor era così preso che accelerò il passo.

    Camminarono per qualche centinaio di metri, addentrandosi in quel luogo selvatico e sempre più buio.

    Poi la vegetazione si diradò e si ritrovarono in un minuscolo spiazzo, circondati da alberi.

    In alto potevano vedere uno scorcio di cielo e, di fronte a loro, si innalzava un palo di legno con su appesa una vecchia campanella in ottone.

    «Ma guarda!» esclamò Orthros, divertito, «Allora c’è davvero una campana!»

    Hektor, però, non lo stava ascoltando.

    Quella campana lo chiamava. La cordicella appesa al batacchio era irresistibile.

    Si avvicinò e la tirò con forza. Una, due, tre volte.

    Il suono acuto gli penetrò nelle orecchie, dandogli fastidio, ma il bambino non si fermò. Si sentiva in trance: doveva suonare, doveva fare in modo che lo sentissero.

    Era un richiamo: non sapeva per chi, ma doveva continuare, lo sentiva.

    Fu Orthros a tirarlo indietro, riscuotendolo da quell’ipnosi.

    «Non fare troppo rumore» ridacchiò suo padre, «Disturberai tutti gli animali.»

    Hektor stava per rispondere che non gli importava, che doveva suonare ancora, quando un fruscìo leggero li fece voltare.

    Due uomini enormi si avvicinarono.

    Indossavano soltanto dei pantaloni verde militare e degli anfibi neri. Sui toraci possenti si intrecciavano cinghie di cuoio, cui erano appese fondine piene di armi.

    Uno aveva lunghi capelli neri e il viso dai lineamenti affilati. Un’ombra di barba copriva la mascella grande e gli occhi, del colore della notte più buia, si posarono subito sul ragazzino.

    L’altro sembrava più giovane: boccoli castani gli incorniciavano il viso, ma non lo facevano sembrare certo meno pericoloso.

    Erano entrambi bellissimi e spaventosi nello stesso momento.

    L’uomo dai capelli neri lo scrutò per qualche istante, prima di dire:

    «Benvenuto, figlio degli Dèi.»

    Orthros afferrò la spalla del figlio, tirandolo bruscamente accanto a sé.

    «Salve» salutò, «Vi abbiamo forse disturbato con la campana?» chiese.

    Nel viso spigoloso dell’uomo, le labbra sottili si incurvarono in un sorriso storto.

    «La campana è un richiamo» gli disse, «Solo i prescelti sanno trovarla.»

    Orthros aggrottò le sopracciglia bionde e fece un altro passo indietro.

    «I prescelti?» chiese.

    «Socrates, Il bambino è grande» disse l’uomo dai capelli castani, «Rientra appena nell’addestramento.»

    «Di che state parlando?» chiese ancora Orthros, preoccupato.

    Socrates, però, lo ignorò e si rivolse al piccolo.

    «Hai la voglia, giusto?» gli chiese.

    Hektor capì immediatamente. Lo sapeva. Dentro di sé, aveva sempre saputo che quella voglia non poteva essere normale.

    Sollevò la maglia e mostrò la pancia: il sole bianco spiccava sulla sua pelle dorata.

    Socrates non attese oltre. Afferrò il bambino per il braccio e lo strappò dalle mani del padre.

    Orthros si gettò su di lui, cercando di difendere il figlio, ma l’altro uomo lo colpì, mandandolo a terra.

    Il guerriero si caricò Hektor sulla spalla, come se non pesasse più di qualche chilo, e il bambino allungò le braccia, gridando:

    «Papà!»

    Orthros si rialzò di nuovo, ma l’uomo castano lo trattenne.

    «Che state facendo?» strillò, «Che volete da mio figlio?»

    Ma, mentre Socrates si inoltrava nel bosco, l’altro lo colpì ancora, mandandolo di nuovo a terra.

    E, mentre perdeva i sensi, l’ultima cosa che Orthros sentì fu la voce di suo figlio che lo chiamava, disperato.

    Cadere

    Seventeen years by her side

    Broke the same bread

    Wore the same clothes and we said

    We're sisters with nothing between

    If one of us fall

    The other will soon be following.

    The Fray – Run for your life

    Diciassette anni al suo fianco

    Spezzavamo lo stesso pane

    Indossavamo gli stessi abiti e dicevamo

    Siamo sorelle con niente tra noi

    Se una di noi cade

    L’altra la seguirà presto.

    The Fray – Run for your life

    Capitolo 1 - Luglio 2033

    Doveva fare pipì.

    Dio del cielo, non riusciva a pensare a nient’altro.

    Se ne stava seduta su quella comoda poltroncina in velluto rosso, in quello studio immenso, e batteva nervosamente i tacchi delle sue décolleté sul pavimento di marmo.

    La luce che entrava dalle grandi vetrate era abbagliante, ma poteva vedere tutto il parco comunale da lassù.

    Una grande scrivania in ciliegio, spoglia, era corredata soltanto di un porta penne e un block notes intonso.

    La sedia in pelle sembrava davvero comoda, così come le poltroncine di fronte alla scrivania.

    Lei sedeva accanto alla porta.

    Una ragazza giovanissima l’aveva accolta quando era uscita dall’ascensore e l’aveva invitata ad accomodarsi lì.

    La prima cosa che aveva notato era quanto quella segretaria fosse prosperosa.

    La seconda era quanto fosse bionda.

    La terza era che non le aveva dato modo di chiederle dove fosse il bagno.

    Perciò, doveva fare pipì.

    Maledizione, le succedeva sempre nei momenti meno opportuni.

    Era andata persino da un medico e le aveva spiegato che si trattava di una reazione psicosomatica.

    Quando aumentava lo stress, il suo corpo reagiva in quel modo.

    Sbuffò, lisciandosi la giacchetta dell’economico tailleur color panna che aveva acquistato per l’occasione e poi sollevò una mano per controllare che lo chignon tenesse bene.

    Aveva capelli lisci, di un bel biondo ambrato. Di solito li portava sciolti sulle spalle, ma voleva fare buona impressione. Aveva bisogno di quel lavoro.

    Si era persino impegnata con il trucco: aveva investito buona parte delle sue esigue finanze per un fondotinta adatto alla sua carnagione chiarissima, un bel rossetto rosso che evidenziasse le sue labbra piene e aveva acquistato anche un ombretto rosa antico, perché la commessa le aveva detto che avrebbe evidenziato i suoi occhi neri, ma alla fine aveva preferito non usarlo, per non sembrare eccessiva.

    Insomma, si era preparata a dovere.

    Ma quella bella confezione non le sarebbe servita a niente se avesse passato tutto il tempo a battere i tacchi sul pavimento per colpa della sua vescica psicosomatica.

    Stava per cedere e alzarsi, quando la porta si aprì ed entrò una donna.

    Indossava degli stivali bassi e dei leggings neri. La avvolgeva una comoda maglia oversize, di un bel rosso rubino.

    Aveva un viso pulito, rotondo e davvero simpatico: labbra carnose, naso a patata e grandi occhi nocciola. Doveva avere la sua stessa età: ventidue, forse ventitré anni.

    I suoi capelli erano davvero strani: disordinati, mossi e blu. Una sfumatura molto bella, intensa, ma comunque blu.

    Le rivolse un sorriso gentile e chiese:

    «Claudia, giusto?»

    Claudia si accorse del foglio che la ragazza teneva in mano: era il suo curriculum vitae.

    «Sì» le rispose, alzandosi in piedi e tendendo la mano, coperta da un guanto nero. 

    «Piacere, Sofia» disse l’altra, stringendola. Osservò solo per un istante quel guanto e Claudia si aspettò che le chiedesse qualcosa in merito, invece disse:

    «Prego, accomodati», indicando una delle poltroncine di fronte alla scrivania.

    Claudia obbedì e Sofia aggirò la scrivania, fermandosi accanto a un interruttore sulla parete. Premette un pulsante e i vetri si oscurarono un po’, quel tanto che bastava per consentire loro di tenere gli occhi aperti.

    «Così va meglio» commentò soddisfatta, prima di sedersi.

    Posò il curriculum di fronte a sé, sul piano del tavolo, e poi le rivolse un altro sorriso. 

    «Dunque, Claudia» le disse, lanciando un’occhiata distratta al curriculum, «Vedo che ti sei trasferita qui da poco.»

    «Sì» convenne l’altra, «Prima vivevo in campagna con i miei genitori. Ho deciso di venire in città e provare a cavarmela da sola.»

    Sofia annuì, continuando a scrutarla con quei grandi occhi nocciola. Claudia sapeva di doversi sentire intimorita, ma c’era qualcosa nella voce di quella donna che, invece, la rilassava, facendole credere che andasse tutto bene. Ma non era così: Sofia era lì per valutarla e lei non doveva rilassarsi.

    «Ti sei diplomata in tempo, ma non hai esperienze lavorative rilevanti. Cosa hai fatto per tutti questi anni?»

    Ho vissuto l’inferno.

    Chissà che faccia avrebbe fatto sentendosi dare una risposta del genere.

    «Ho frequentato l’università. Mi ero iscritta a Lettere antiche, ma poi ho deciso di lasciare.»

    «Come mai?»

    Perché inalavo qualunque cosa fosse in polvere e bevevo come se non avessi un futuro.

    «Problemi in famiglia.»

    «Mi spiace.»

    Dalla piega delle sue labbra, Sofia sembrava davvero dispiaciuta. Ma probabilmente era abituata: chissà quanta gente, anche disperata, aveva già valutato per quel posto di lavoro.

    «Quindi ora vivi da sola?» le chiese ancora, «Oppure sei sposata?»

    Claudia inarcò le sopracciglia: fu un riflesso incondizionato, del tutto fuori dal suo controllo.

    «Per carità» rispose, «Gli uomini non mi interessano, nel modo più assoluto.»

    Cuori spezzati, segnali contrastanti, essere tradita e ferita? No, grazie.

    Di colpo, il viso di Sofia sembrò illuminarsi.

    «Ottimo» le disse, «Davvero ottimo.» E, prima che potesse chiedere spiegazioni, la donna proseguì:

    «E che interessi hai al di fuori del lavoro?»

    Lei alzò le spalle.

    «Non saprei. Amo leggere.»

    Sofia inclinò la testa, guardandola d’un tratto come se fosse qualcosa di prezioso.

    «Sei una persona molto solitaria, quindi» disse.

    Claudia aggrottò la fronte, pensierosa. Dove diavolo voleva arrivare?

    «Direi di sì» confermò, titubante.

    Perché non le stava chiedendo niente di ciò che sapeva fare? Aveva un buon curriculum; poche esperienze lavorative, certo, ma aveva delle capacità.

    Sofia appoggiò i gomiti sulla scrivania e il mento sulle mani, in una posa rilassata.

    «Cosa ti ha detto l’agenzia di questo lavoro?»

    «Soltanto che cercate una segretaria e al più presto. Non ho capito nemmeno di cosa vi occupate.»

    Lei si raddrizzò sulla sedia e le sfuggì una risatina nervosa.

    «Hai ragione. Perdonami» si scusò, poi spiegò: «La Drep service si occupa di ricerche, per lo più. Gran parte dei nostri affari sono coperti da accordi di riservatezza con i nostri clienti.  La figura che cerchiamo è una semplice segretaria: qualcuno che si interfacci con i clienti, che tenga l’agenda di Damian e…»

    Chi? Quella non ci stava tutta con la testa.

    «Damian?» chiese.

    Sofia si interruppe.

    «Oh, già» sorrise, «Il signor Drepanon. L’Amministratore Unico.» Sollevò le mani, appoggiandosi allo schienale, «Il lavoro non è difficile, ma avresti grosse responsabilità e dovresti garantirci la massima disponibilità. Dovresti firmare un accordo di segretezza con valenza penale e, di conseguenza, non potresti parlare con nessuno del nostro lavoro. Ma la paga vale la pena: duemilatrecento euro netti al mese. Ferie e malattie comprese.»

    Claudia temette di dover raccogliere la propria mascella dal pavimento.

    La paga valeva la pena. La paga valeva la pena anche senza ferie e con un babilonese a frustarla in orario d’ufficio.

    «Immagino che tu sappia usare un computer, giusto?»

    Lei annuì.

    Ma da che epoca arrivava quella donna? Chi non sapeva usare un computer nel 2033?

    «Perfetto.»

    Sofia abbassò lo sguardo sul curriculum.

    «I recapiti che ho qui sono corretti?»

    Annuì di nuovo.

    Duemilatrecento euro al mese. Ora sì che doveva fare pipì.

    «Benissimo» Sofia le sorrise ancora, «Allora entro lunedì ti faremo sapere. D’accordo?»

    Claudia si limitò a un cenno e strinse la mano che la donna le porse.

    Uscì dall’ufficio, rivolse una smorfia amichevole alla bionda dietro l’alto bancone in mogano, attraversò l’atrio in marmo chiaro ed entrò nell’ascensore d’acciaio premendo il tasto zero.

    Quando le porte si chiusero, non poté fare a meno di piegarsi su se stessa e fare dei respiri profondi.

    Detestava quelle situazioni, detestava agitarsi in quel modo. Le sembrava di non riuscire a respirare.

    Sarebbe stato meraviglioso ottenere un lavoro del genere, ma quante possibilità aveva?

    Non era riuscita a spiccicare una parola di senso compiuto. Da quel colloquio era uscita come una zitella asociale con un disperato bisogno di soldi.

    A ben pensarci, era esattamente così.

    Oh, beh, ormai era fatta. Rimuginarci sopra non avrebbe aiutato.

    Quello che avrebbe aiutato davvero, sarebbe stato trovare un bagno.

    Capitolo 2

    Claudia camminava sul marciapiede, accompagnata dal ticchettio delle sue décolleté sull’asfalto.

    Accanto a lei, che chiacchierava senza sosta, c’era il suo vicino di casa.

    Roberto era un bel ragazzo; magro, dal viso rotondo e allegro. Aveva corti capelli castani e grandi occhi celesti che gli conferivano un’aria innocente.

    Vivevano sullo stesso pianerottolo, in monolocali gemelli. Come un perfetto gentiluomo, lui l’aveva aiutata con il trasloco e, da allora, trovava sempre una scusa per passare del tempo con lei.

    Lui non poteva sapere che quel dolce, che le portava puntualmente dopo cena, era, fin troppo spesso, l’unico pasto che Claudia potesse concedersi: le sue finanze, purtroppo, erano davvero esigue. Ecco perché aveva un disperato bisogno di trovare un lavoro.

    Era stato sempre Roberto, che lavorava in un’agenzia per il lavoro, a candidarla per quell’offerta e permetterle di avere quel colloquio.

    Claudia aveva capito fin da subito che Roberto voleva più di un’amicizia e, probabilmente, se avesse potuto avvicinarsi agli uomini, sarebbe stato un candidato perfetto per il ruolo di fidanzato.

    Ma le regole della riabilitazione erano ferree e lei non aveva alcuna intenzione di lasciarsi andare di nuovo, perciò, per il momento, Roberto era il suo unico amico in quella città, ancora sconosciuta.

    «Sono così contento che tu abbia deciso di uscire!» le disse, rivolgendole quel suo sorriso da bambinone.

    Le aveva chiesto di uscire ogni sera, da quando si erano conosciuti, e Claudia aveva sempre declinato l’invito. Un po’ per le scarse finanze e un po’ perché era ancora terrorizzata all’idea di entrare in un bar.

    Tuttavia, quella sera aveva davvero bisogno di prendere un po’ d’aria.

    Erano andati a mangiare una pizza in un ristorantino adorabile, decorato con candele e luci soffuse. Per fortuna non era uno di quei posti in cui mettersi in tiro, altrimenti Claudia si sarebbe sentita davvero fuori posto.

    Aveva indossato dei blue jeans aderenti e la camicetta color panna che aveva acquistato per il colloquio. Aveva lasciato i capelli sciolti; una cascata di seta color miele le cadeva sulla schiena, profumata solo dal suo economico shampoo alla camomilla.

    Un tempo, il suo abbigliamento era stato molto diverso. Alla moda, costoso.

    Ma le cose erano cambiate: aveva venduto tutti i suoi abiti griffati e quello era il massimo che potesse permettersi.

    Dopo cena, Roberto le aveva proposto un discopub in cui divertirsi e, visto che erano con la sua macchina, Claudia non aveva potuto dirgli di no.

    Così, ora, stavano camminando accanto a un palazzo di uffici in direzione del locale: Claudia riusciva già a sentire la musica pompare da quelle che dovevano essere delle enormi casse.

    Raggiunsero una piazza e Claudia si rese conto di essere proprio di fronte al palazzo della Drep service. Una costruzione alta, fatta interamente di vetri specchiati, moderna e imponente.

    «Qui è dove ho fatto il colloquio stamattina» disse.

    Roberto le sorrise.

    «Sì. Se dovessero assumerti, saresti praticamente dentro il pub più bello di San Lorenzo.»

    Proprio accanto alla Drep, infatti, c’era un piccolo pub di due piani, in un edificio di cemento bianco.

    Un buttafuori grosso come un gorilla bloccava la porta e, alla sua sinistra, iniziava la fila per l’ingresso.

    Si accodarono alla decina di persone che attendeva di entrare e Roberto, che non aveva mai smesso di chiacchierare, le disse:

    «Questo posto è favoloso.»

    «Ne sono sicura» sorrise lei, cercando di camuffare l’ansia. Erano sei mesi che non metteva piede in un pub.

    Osservò le altre ragazze in fila: erano tutte ben vestite. Abitini corti, tacchi vertiginosi, tutte truccate e profumate.

    Non poté fare a meno di sentirsi fuori posto.

    «Sei sicuro che mi faranno entrare con i jeans?» gli chiese.

    Roberto ridacchiò.

    «Sei una donna» le disse, «Ti farebbero entrare anche se fossi in mutande.»

    Claudia gli rivolse un sorriso riconoscente e poi vide tutte le ragazze voltarsi verso la strada.

    Tre uomini stavano camminando verso il locale. Capì subito perché tutte li stessero guardando: erano bellissimi.

    Alti oltre il metro e ottanta, erano enormi. Uno era vestito di pelle: anfibi borchiati, pantaloni aderenti e una maglia a mezze maniche che scopriva le braccia, tatuate fino alla punta delle dita. Boccoli castani erano raccolti in una coda bassa e aveva una folta barba, in un viso dall’aria feroce.

    L’altro era più elegante. La sua pelle era nera come l’ebano e i capelli corti erano rasati in modo da disegnare uno squalo maori. Indossava dei pantaloni eleganti di un blu navy, una camicia scura e delle Clarks azzurrine.

    Ma quello al centro attirava l’attenzione più di tutti.  Indossava dei jeans strappati, infilati disordinatamente negli anfibi di pelle nera. Una t-shirt grigia aderiva al torace possente, rimanendo più morbida sul ventre e scoprendo le braccia. Le linee dei suoi muscoli creavano solchi d’ombra con la poca luce dei lampioni. I capelli, rasati cortissimi, erano di un biondo molto chiaro. Aveva lineamenti marcati, labbra carnose e, nonostante il suo viso fosse bellissimo, incuteva timore.

    Era come uno splendido, inquietante, angelo della morte.

    «Ah» sbuffò Roberto, infastidito, «Sono arrivate le star.»

    I tre uomini si avvicinarono al buttafuori che, senza emettere un fiato, si scansò per farli passare.

    «Chi sono?» chiese Claudia.

    «Non ricordo i loro nomi» rispose Roberto, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni neri, «Ma puoi chiederli a tutte le donne che trovi dentro. Frequentano questo posto così spesso da avere un privé tutto per loro.»

    Claudia inarcò le sopracciglia, comprendendo di chi stesse parlando.

    Conosceva bene quella tipologia di soggetti: erano i VIP di ogni locale e si comportavano sempre come se tutto fosse loro dovuto. Era stata una di loro per molto tempo.

    «Insomma» esordì Roberto, catturando di nuovo la sua attenzione, «Non mi hai più detto niente del colloquio.»

    Claudia alzò le spalle.

    «Non c’è molto da dire» rispose, «Non mi ha nemmeno chiesto cosa sapessi fare. Credo di non esserle piaciuta per niente.»

    Roberto le rivolse un sorriso adorante.

    «Questo è impossibile» le disse, «Non puoi non esserle piaciuta.»

    Le circondò le spalle con un braccio e Claudia si lasciò stringere, appoggiando la testa alla sua spalla.

    Si voltò verso la fila e si impose di non abbassare lo sguardo sulle proprie mani, infilate nei guanti in nanofibre sintetiche.

    Erano passati sei mesi, non aveva senso pensarci ancora.

    Roberto, senza accorgersi di nulla, la lasciò e riprese a chiacchierare dei disastri compiuti da Leone, il suo gatto tigrato. Claudia finse di ascoltarlo.

    Andava tutto bene. Doveva convincersi del fatto che andasse tutto bene o non sarebbe mai riuscita ad andare avanti.

    La fila avanzò e lei incontrò il proprio riflesso nella vetrina del locale. Il suo viso aveva lineamenti delicati, armonici. Labbra a forma di cuore, naso all’insù, occhi scuri e profondi: sapeva di essere molto carina.

    E proprio per quella sua vanità, per colpa del suo esibizionismo e del suo egoismo, era accaduto quello che, sei mesi prima, aveva sconvolto la sua vita.

    Se non fosse stata così presa da se stessa, se non avesse voluto sballarsi a tutti i costi, ora non avrebbe avuto bisogno di guardare un riflesso per vedere se stessa. Avrebbe guardato Camilla.

    «Avanti» tuonò il buttafuori, riscuotendola dai propri pensieri.

    Con Roberto al fianco, attraversò la porta d’ingresso ed entrò nel locale.

    L’interno era molto suggestivo. Era tutto bianco: i pavimenti, le pareti, il lunghissimo bancone. Persino i divani e le poltrone erano bianchi, così come le divise delle bariste.

    L’ambiente era illuminato da luci al neon azzurre, che davano la sensazione di trovarsi sott’acqua. In più, incastonati nel bancone e nelle colonne, c’erano dei bellissimi acquari tropicali.

    Passò di fronte a una scala in ferro che conduceva a un piano superiore, dove i privè a balconata ruotavano tutt’intorno al perimetro, chiusi da grandi vetrate.

    La musica era altissima, ma le casse erano localizzate nell’angolo più in fondo, così che accanto al bancone si riuscisse a parlare.

    «Cosa prendi?» le chiese Roberto.

    Si era appoggiato con un gomito al bancone e le sorrideva, convinto che quella fosse la sua serata giusta.

    Claudia stava per rispondere che non voleva niente, quando vide una delle bariste prendere un bicchiere di vetro. Ci buttò dentro un po’ di ghiaccio e poi stappò una bottiglia di rum.

    Guardare quel liquido ambrato, le fece aumentare la salivazione. Fissò la ragazza riempire il bicchiere, mentre quella sensazione di bisogno, che ormai conosceva bene, le stringeva la bocca dello stomaco.

    Voleva bere.

    Oh Dio, quanto voleva bere.

    «Ehi», Roberto sembrava preoccupato; la sua espressione doveva essere inquietante, «Tutto okay?»

    No!, avrebbe voluto gridare, non è tutto okay! Dammi quella maledetta bottiglia!

    Invece, dominando la bestia dentro di lei, rispose:

    «Sì, ho solo bisogno di trovare un bagno.»

    Roberto la scrutò, cercando di capire cosa avesse, e indicò un corridoio.

    «Dopo il bancone a destra» le disse.

    Claudia si sforzò di sorridere.

    «Torno subito» promise.

    Poi, a passo svelto, attraversò la sala.

    Tenne gli occhi incollati al pavimento, non voleva guardare nessuno. Doveva restare concentrata per rimuovere dalla mente il pensiero dell’alcol che le scendeva lungo la gola, del suo tepore nello stomaco, di quella sensazione leggera e liberatoria che sapeva pervaderla quando arrivava alla testa.

    Aprì la prima porta che incontrò e si fiondò all’interno.

    Si avvicinò alla fila di lavandini, dando le spalle alle quattro porte dei bagni.

    Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua fin quando non divenne gelata, evitando di guardare il proprio riflesso nello specchio.

    Infilò le mani sotto il getto senza togliere i guanti; le nanofibre sintetiche si comportavano come la pelle umana, asciugandosi subito. Raccolse un po’ d’acqua nei palmi, prima di portarsela al viso.

    Si sciacquò la faccia una, due, tre volte, fino a rimanere senza respiro.

    Poi posò le mani sul lavandino e lasciò che le piccole gocce le scivolassero sulla pelle.

    Prese un profondo respiro, poi un altro ancora, fissando l’acqua che ancora scorreva dal rubinetto.

    Poteva farcela.

    Lei era più forte della bestia: poteva combatterla e vincere.

    Non importava che non riuscisse a dormire bene da sei mesi, non importava quanto fosse stanca, non poteva permettersi di cedere.

    Poi sollevò lo sguardo verso il proprio riflesso.

    E quello che vide le stritolò lo stomaco in una morsa di dolore.

    La ragazza che la guardava dallo specchio non era solo ferita: era distrutta. Era rotta all’interno e l’involucro di carne che la rivestiva ne stava risentendo.

    La sua pelle non era più solo chiara, era pallida. Segni scuri sotto gli occhi svelavano la sua mancanza di riposo e, nei suoi occhi profondi, vedeva tutti i suoi demoni.

    Erano lì. Aspettavano soltanto che lei cedesse.

    Sarebbe bastato così poco.

    D’un tratto la porta si aprì, lasciando entrare un uomo.

    Era uno dei VIP che aveva visto passare, quell’angelo spaventoso.

    Con la luce al neon del bagno, attraverso il riflesso, Claudia poté vedere i suoi occhi. E, se prima le incuteva timore, ora una sensazione di pericolo le fece vibrare tutta la spina dorsale.

    Erano grigi, come il piombo. Erano maliziosi, attenti. Per un momento si incontrarono con i suoi nello specchio e Claudia ebbe l’esatta sensazione di averlo già visto.

    Come se lei conoscesse quell’uomo, come se lui le avesse già guardato dentro, in quel profondo della sua anima, dove a nessuno era consentito entrare.

    Si allontanò subito dal lavandino e andò verso gli asciugamani usa e getta, accanto alla porta d’ingresso.

    «È il bagno delle donne» sibilò, «Sei pregato di uscire.»

    Il biondo inarcò un sopracciglio e allungò le labbra in un sorriso storto, cosi sexy da rimescolarle gli ormoni.

    «Veramente, è quello dei maschi» le disse, lasciando che la porta si chiudesse alle sue spalle.

    Avanzò nello stretto spazio; a ogni passo le sue spalle forti ruotavano, trasmettendo tutta la forza e la pericolosità di quel corpo magnifico.

    Claudia tirò via un asciugamano e si voltò verso di lui, che la stava squadrando dall’alto in basso.

    Lui inclinò la testa di lato, in segno d’apprezzamento, e disse:

    «Però, se vuoi restare, per me va bene.»

    Claudia si asciugò il viso in fretta, gettando poi l’asciugamano nel cestino.

    «Grazie» ribatté, «Ma ho di meglio da fare.»

    Lui sorrise, mostrando i denti bianchissimi.

    Dio del cielo, era sexy da svenire.

    «Tipo piangere nel bagno degli uomini?», con un gesto indicò il lavandino, «Accomodati. Non voglio disturbarti.»

    Claudia strinse le labbra, indispettita.

    «Non stavo piangendo» ringhiò.

    Lui sollevò le mani, in segno di resa, e ridacchiò.

    «Okay, non prendertela con me. Sono disarmato.»

    Claudia gli diede le spalle e afferrò il pomello della porta. La spalancò e l’uomo le disse:

    «Sai, se fossi stata più gentile ti avrei offerto da bere.»

    Lei si voltò, rivolgendogli un’occhiata furiosa.

    «Sono già qui con qualcuno» ribatté.

    «Perfetto» sorrise lui, «Potrà pagarci il conto.»

    Claudia sentì un moto di rabbia crescerle nel petto. Ma chi si credeva di essere?

    «Non so con chi pensi di avere a che fare, ma non mi lascio incantare da una faccia d’angelo e un po’ di muscoli.»

    Lui non perse quel sorriso irriverente.

    «Ah, quindi sei gay?»

    «No» ribatté, «Solo intelligente.» Gli rivolse un sorriso acido, «Va’ a cercare qualche oca superficiale. Almeno potrai sostenere una conversazione al tuo livello.»

    Senza aspettare una sua risposta, uscì dalla porta e attraversò di nuovo il locale.

    Roberto era ancora fermo accanto al bancone e sorseggiava una birra fresca, seduto su uno degli sgabelli alti. Quando le sorrise, Claudia si rese conto di quanto fosse carino. Ma non aveva niente a che vedere con quel pericoloso concentrato di sensualità che aveva appena insultato.

    «Eccoti» la accolse lui, «Credevo ti fossi sentita male.»

    Lei colse la palla al balzo. Strinse gli occhi e si posò una mano sullo stomaco.

    «In effetti, non mi sento molto bene» mentì, «Ti spiace se torniamo a casa?»

    Roberto posò la birra sul bacone e si affrettò ad alzarsi in piedi.

    «Ma certo» acconsentì, premuroso, «Andiamo.»

    E mentre il suo vicino di casa pagava la birra che aveva consumato, Claudia si voltò verso il centro della sala.

    Sopra dei divanetti, attorno a un tavolino basso, c’erano i tre uomini, compreso quel bastardo che aveva incontrato nel bagno. Era seduto, chinato in avanti, con i gomiti sulle ginocchia. Teneva in mano un bicchiere con del liquido ambrato. Ed era una meraviglia.

    Sentendosi osservato, puntò gli occhi grigi proprio verso di lei.

    Poi sorrise e sollevò il bicchiere, come per salutarla.

    In risposta, Claudia gli mostrò il dito medio. Poi si voltò verso Roberto e, insieme, uscirono dal locale.

    Capitolo 3

    Claudia sedette sul piccolo divano letto in tessuto rosso, appoggiato con la spalliera contro la parete bianca. Era un letto a due piazze, ma lei non lo apriva mai. Che senso aveva richiuderlo ogni mattina se doveva dormire da sola? Era meglio dormire sul divano.

    Tenne tra le mani la tazza di thè freddo solubile e piegò le gambe, rannicchiandosi nell’angolo del divano.

    Sul tavolino basso, con la copertina premurosamente rivestita da una pellicola trasparente, giaceva abbandonato un libro di filosofia.

    Una stampa della statua di Socrate la fissava, con i suoi gelidi occhi di pietra.

    Claudia volse lo sguardo alla finestra. Osservò il cielo nero e la pioggia cadere, spietata e violenta, sui tetti dei palazzi di fronte al suo. Aveva aperto la finestra, così che il forte vento le portasse l’odore del temporale.

    Un lampo illuminò la stanza, per un attimo sembrò giorno. Seguì un tuono, così forte da far vibrare i vetri.

    Claudia abbassò gli occhi sul libro: Socrate la stava ancora guardando.

    Conosci te stesso, lo sentiva sussurrare con le sue labbra di pietra. Conosci te stesso, il motto inciso sul tempio di Delfi. Conosci te stesso, sì, come se fosse stato semplice.

    Un tempo, avrebbe dato qualunque cosa per conoscere se stessa, per capire le motivazioni che spingevano le sue azioni, i suoi pensieri, le sue emozioni incoerenti, dettate da un animo inevitabilmente adolescente.

    Avrebbe voluto capire perché sentisse il bisogno di trovarsi al centro dell’attenzione, perché avesse tutta quella necessità di emergere rispetto ai suoi compagni.

    Ora, col senno di poi, sapeva quanto tutto fosse dovuto ai suoi genitori, al modo in cui l’avevano tenuta al sicuro per tutta la vita, senza permetterle mai di sporcarsi, né di cadere.

    Ora sapeva quali errori aveva commesso e, se fosse stata in grado di tornare indietro, sapeva quando sarebbe dovuta intervenire per fermare tutto.

    Claudia è sulla sedia in ferro battuto, fuori dal bar dell’università.

    Sta sorseggiando con calma un thè caldo, nascondendo il mento nella morbida sciarpa di lana che ha al collo, per proteggersi dal freddo di novembre.

    «Che palle. Dentro è tutto pieno e io mi sto gelando» dice, seccata.

    La ragazza che le siede di fronte annuisce. I capelli biondi sono legati in una coda alta e ha grandi occhi neri, profondi, identici ai suoi. Se indossassero gli stessi abiti, sarebbe impossibile distinguerle.

    «Già» le dice, «Ma a quest’ora è sempre così.»

    Claudia si stringe meglio nel cappotto rosa, prima di prendere di nuovo la tazza tra le mani.

    «Come fai a essere sempre così calma, Cami?» le chiede.

    Camilla alza le spalle e ridacchia.

    «Che motivo c’è di innervosirsi? Non farà di certo svuotare il bar.»

    Claudia rotea gli occhi. A volte, avrebbe voglia di scuoterla per farle avere qualche reazione accesa.

    Non che non ne abbia: anche Camilla si arrabbia ogni tanto, ma il più delle volte si limita ad alzare gli occhi verso il cielo e mantenere un gelido autocontrollo.

    Un motorino accosta lungo la strada. Il guidatore tira giù il cavalletto e scende, togliendosi il casco a scodella, che gli ha appiattito i capelli biondi.

    Indossa dei jeans aderenti, come vanno di moda, delle scarpe da ginnastica griffate e un maglioncino di lana blu, sotto il bomber azzurro, dello stesso colore dei suoi occhi. Le labbra sottili si aprono in un sorriso quando vede Claudia e le va incontro.

    «Ehi, ancora qui?» le chiede.

    Claudia sorride.

    «C’è lezione di greco tra mezz’ora. Tu non vieni?»

    Lui afferra una sedia libera e la tira indietro, accomodandosi.

    «Non se ci vai tu» risponde, «Prenderai appunti anche per me?»

    Claudia sbuffa, ma sta ridendo.

    «Sei un paraculo, Da’» gli dice, «Non è giusto che faccia sempre le cose al tuo posto.»

    Davide le rivolge un sorriso: è il più carino della facoltà, sa bene quale potere ha sulle ragazze.

    «E dai» la supplica, «Tu pensi agli appunti e io ti faccio entrare alla festa di stasera. Che ne dici?»

    Claudia lancia un’occhiata a Camilla che, silenziosa, annuisce con vigore.

    Sono all’università da appena un mese e nessuno le aveva mai degnate di uno sguardo, ancora. A Claudia non interessa, ma Camilla vuole a tutti i costi farsi degli amici. E, quella, era la loro occasione.

    Allora si rivolge di nuovo a Davide.

    «Può venire anche mia sorella?»

    Il sorriso di Davide si apre di più.

    «Puoi portare chi vuoi.»

    In quel momento, la porta del bar si apre e si affaccia un ragazzo. Un moretto dall’aria sveglia.

    «Davide!» lo chiama.

    Lui si alza in piedi.

    «Arrivo!» risponde, poi si rivolge alla ragazza: «Ti mando un messaggio con l’indirizzo della festa. Tu però prendi appunti, okay?»

    Claudia annuisce e, quando lui si allontana, si volta verso Camilla.

    «Oh Dio!» esclama, «La nostra prima festa!»

    «Ci divertiremo come matte!» dice l’altra, allungandosi per prendere le sue mani, «Non vedo l’ora!»

    Quello era il momento.

    Se fosse potuta tornare indietro nel tempo, sarebbe di certo tornata a quell’istante, avrebbe convinto la vecchia se stessa a restare a casa, a concentrarsi sullo studio, a non andare a quella stupida festa.

    Perché le aveva rovinato la vita.

    Un altro lampo squarciò il cielo notturno e il tuono che seguì la distrasse da quei pensieri.

    Guardò di nuovo il libro di filosofia, quello che, da settimane, si ripeteva di dover studiare. Non era troppo tardi per iscriversi all’università: quando avesse trovato un lavoro, l’avrebbe fatto, di sicuro.

    Avrebbe ripreso gli studi, avrebbe risistemato la sua vita.

    Conosci te stesso.

    Oh, se solo si fosse conosciuta prima! Se solo avesse saputo distinguere quello che voleva, da quello che credeva di volere.

    Camilla era diversa. Lei conosceva se stessa: era sempre stata più matura, meno incoerente.

    Questo, tuttavia, non l’aveva resa saggia. Né responsabile.

    Ma erano ragazzine, avevano diciotto anni appena, come sarebbe potuto essere diversamente?

    Il suono del campanello la fece sussultare.

    Posò la tazza sul tavolo e si incamminò verso la porta.

    Quando la aprì, trovò Roberto, fermo sulla soglia e con un grande cartone di pizza tra le mani.

    «Buonasera, vicina» la salutò.

    Claudia sorrise.

    «Buonasera, vicino» ricambiò.

    «Ho comprato un po’ di pizza» le disse, sollevando il cartone, «Ma temo di aver esagerato. Ti va di mangiare con me?»

    Claudia esitò, in imbarazzo. Ma l’odore della pizza le aveva aperto lo stomaco.

    «Grazie» disse quindi, spalancando la porta per lasciarlo passare.

    Roberto mosse un paio di passi, guardandosi intorno.

    «Come mai hai la luce spenta?»

    Me le paghi tu le bollette?

    «Stavo riposando» mentì, premendo l’interruttore accanto alla porta d’ingresso. L’unica lampadina della stanza si accese, ma era a basso consumo e aveva bisogno di tempo per scaldarsi, così l’ambiente risultò comunque scuro.

    Roberto posò il cartone di pizza sul tavolo quadrato, di fronte alla cucina lineare, e si voltò per sorriderle.

    «Giornata pesante?» le chiese, sfilandosi la piccola tracolla e appendendola alla sedia.

    Claudia alzò le spalle.

    «Mi sento sempre stanca. Non capisco come mai.»

    Roberto si accomodò su una delle sedie in legno e paglia. Scoperchiò il cartone e il profumo di pizza si sparse per la stanza.

    «Prova con un po’ di valeriana» le suggerì.

    Claudia scosse la testa, sedendosi accanto a lui.

    «Riesco a dormire. È solo che non mi riposo.»

    Lui sollevò un quadrato di pizza margherita.

    «Brutti sogni?» le chiese.

    Claudia inarcò le sopracciglia, resistendo alla tentazione di affondare la faccia nel cartone e sbranare la pizza. Si limitò a prenderne un pezzo, come una persona civile.

    «Preoccupazioni, più che altro» rispose, addentandolo.

    Roberto le prese una mano.

    «Ehi, non ti devi preoccupare» le disse. Aveva un sorriso rassicurante. E lo era davvero: lui era premuroso, calmo, non perdeva mai la pazienza e aveva una soluzione per tutto.

    «Sembra facile» mormorò lei, ma lui insisté:

    «Per qualunque cosa, io sono qui, lo sai.» Sollevò il pezzo di pizza che teneva in mano, «Fosse anche solo per la cena.»

    Quelle parole, le scaldarono il cuore.

    Roberto si preoccupava per lei, più di quanto avesse mai fatto chiunque altro. Nell’ultimo mese, si era sempre presentato con della spesa misteriosamente in eccesso, cene e buoni gratuiti per i più disparati negozi.

    E, più di ogni altra cosa, Claudia gli era riconoscente per non averla mai costretta a chiedere aiuto. Roberto lo faceva e basta.

    Era il suo angelo custode.

    Gli sorrise e allungò una mano per accarezzargli il viso.

    «Sei un tesoro» gli disse.

    «Ah!» esclamò lui, infilando una mano nella tracolla. Ne estrasse un dvd, con un grosso drago sulla copertina, «Ho pensato anche al film!»

    Claudia mandò giù il boccone e scoppiò a ridere.

    «Stai scherzando?» sbottò, «Non guarderò un fantasy!»

    Roberto inarcò le sopracciglia e si finse scioccato.

    «Ecco» disse, «Dopo questa frase, la nostra amicizia finisce qui.»

    Claudia rise ancora e lui fece per alzarsi, ma lei lo trattenne per il braccio.

    «Andiamo!» insisté, «Non possiamo vedere una cazzata del genere!»

    «Signorina, mi lasci andare!» protestò lui, ma stava ridendo, «Io non la conosco e non voglio avere niente a che fare con lei!»

    E, mentre continuavano a bisticciare sul film, Claudia si rese conto di quanto quel ragazzo, nel giro di pochi giorni, fosse diventato importante per lei.

    Anche se Roberto non poteva cancellare quel passato terribile che tormentava i suoi pensieri, poteva offrirle qualcosa che non aveva mai avuto: un’amicizia sincera.

    Capitolo 4

    Non poteva cederci.

    Non credeva che fosse vero mentre apriva il portone a specchio del palazzo ed entrava nell’atrio; non credeva che fosse vero mentre si infilava nell’ascensore d’acciaio e non credeva che fosse vero quando le porte si aprirono sul grande ingresso con il bancone in mogano.

    «Mi hanno assunta!» strilla Claudia e la sua voce rimbomba per le scale del palazzo.

    Roberto, in piedi sulla porta del suo appartamento, le rivolge un sorriso entusiasta. È ancora nel suo elegante pigiama azzurro a righe rosse, che lo fa sembrare un uomo d’altri tempi.

    «Te l’avevo detto!» le dice, «Non potevi non esserle piaciuta!»

    Claudia, con indosso solo un vecchio paio di shorts e una canotta, saltella, stringendo nella mano guantata il cellulare su cui ha appena ricevuto la chiamata.

    «Ti rendi conto?» strilla, fuori di sé dalla gioia, «Ho un lavoro!»

    E prima che possa rendersene conto, gli ha gettato le braccia al collo e ha stampato le labbra sulle sue, in un bacio fugace.

    Subito si ritrae, incredula di quel che ha appena fatto. Spalanca gli occhi neri e lo fissa, allibita.

    Roberto, però, la capisce. Allora ridacchia e sdrammatizza:

    «Tra qualche mese non sarai così entusiasta di avere un lavoro, perciò goditela.»

    No, non le sembrava vero.

    La pessimista che era in lei continuava a ripeterle che, una volta arrivata, la ragazza dagli stravaganti capelli blu le avrebbe detto di aver sbagliato, che, in realtà, voleva assumere la tettona laureata in marketing entrata dopo di lei.

    Avanzò nel grande ingresso e rivolse un sorriso tirato alla segretaria dietro il bancone. I capelli biondissimi erano legati; il suo seno era così prosperoso da forzare i bottoni della giacca elegante che indossava, mentre i pantaloni le cadevano morbidi sui fianchi stretti.

    Claudia evitò di abbassare lo sguardo sul proprio tailleur da due soldi. Al primo stipendio, avrebbe riempito il suo armadio di abiti adatti. Non vedeva l’ora.

    La bionda se ne stava a testa china e con le unghie laccate picchiettava qualcosa su uno schermo da trenta pollici.

    «Buongiorno» la salutò Claudia.

    Lei alzò gli occhi azzurri dallo schermo e le rivolse un sorriso cordiale.

    «Buongiorno» salutò di rimando, «Posso aiutarla?»

    «Sono Claudia Parisi. Mi hanno detto di presentarmi qui alle undici e…»

    «Oh, la ragazza nuova!» esclamò, con tono sollevato.

    Uscì fuori dal bancone e bussò alla porta di vetro con la serigrafia Amministratore Unico.

    Una voce maschile tuonò:

    «Avanti!»

    La bionda socchiuse la porta, facendo capolino all’interno dell’ufficio.

    «Signor Drepanon, c’è la signorina Parisi.»

    «Falla entrare, Alessia» disse l’uomo.

    La segretaria chiuse la porta e si voltò verso Claudia, con una smorfia di fastidio sul viso.

    «Lavoro qui da un mese» mormorò, «E non ha ancora capito che mi chiamo Isabella.»

    Spiazzata da quella protesta, Claudia non seppe cosa rispondere e Isabella sospirò:

    «Per fortuna è quasi finita» disse. Poi le indicò la porta di vetro, «Puoi entrare.»

    Claudia le rivolse un sorriso forzato e si fece coraggio. Aprì la porta, entrando nello studio in cui aveva sostenuto il colloquio la mattina precedente.

    Stavolta, però, dietro la scrivania c’era un uomo.

    Era immenso: doveva essere alto più di un metro e novanta. Una camicia nera aderiva al torace possente e alle spalle larghe, facendolo sembrare ancora più grande; era più morbida sul ventre, ma sagomava il fisico deliziosamente tonico che nascondeva.

    Aveva i capelli neri, tagliati alla marines, e un viso dai lineamenti marcati: naso dritto, labbra carnose. Ma i suoi occhi erano eccezionali: uno era verde chiaro e l’altro era di un blu intenso. Incredibili.

    Era bellissimo e, allo stesso tempo, inquietante.

    «Salve», Claudia accennò un sorriso.

    L’uomo non si scomodò a mostrarsi socievole e indicò la poltroncina di fronte alla scrivania.

    «Siediti» ordinò.

    Claudia obbedì, mentre la pessimista che era in lei si metteva a gridare.

    Hai visto? Era troppo bello per essere vero! Ora questo tizio ti farà delle domande vere e ti spedirà a casa.

    «Ricordami come ti chiami, per favore» le chiese.

    Cominciamo bene.

    «Claudia, signor Drepanon.»

    Lui si appoggiò allo schienale in pelle e la sedia scricchiolò sotto il suo peso.

    «Sofia è rimasta molto colpita da te» le disse, appoggiando un gomito alla scrivania.

    «Grazie» balbettò Claudia.

    Il signor Drepanon aggrottò le sopracciglia.

    «Devi ringraziare lei, non me.»

    Claudia esitò. Perché era così scontroso?

    «Lo farò senz’altro» rispose.

    Quella risposta sembrò piacergli, perché la sua fronte si distese.

    «Sofia ti avrà detto che dovrai firmare un accordo di riservatezza.»

    «Sì, signore.»

    «Niente di quello che vedrai qui dentro dovrà uscire da queste mura» spiegò, «È una condizione essenziale.» Puntò gli occhi nei suoi, con un’espressione così gelida che Claudia sentì davvero un brivido di freddo lungo la schiena. «Se dovessi infrangere l’accordo» disse lentamente, «Io lo scoprirò. E ci saranno delle conseguenze.»

    Lei si ritrovò a deglutire il timore.

    Ma in quale casino stava per infilarsi?

    Quell’uomo sembrava un serial killer, era spaventoso. E poi, che cosa combinavano in quegli uffici? Perché doveva essere nascosto in quel modo?

    «Hai capito?» le chiese.

    Claudia inarcò le sopracciglia e infilò le mani tremanti tra le ginocchia.

    «Sì, signore.»

    In quel momento, la porta si spalancò ed entrò Sofia. Indossava una gonna di jeans, delle converse nere a stivaletto, molto vintage, e

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