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La dama eloquente - Vita e destino di Federico II: Regnum
La dama eloquente - Vita e destino di Federico II: Regnum
La dama eloquente - Vita e destino di Federico II: Regnum
E-book448 pagine6 ore

La dama eloquente - Vita e destino di Federico II: Regnum

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Info su questo ebook

Nell’aprile del 1249 un uomo si trova prigioniero nella torre del castello di San Miniato, presso Pisa. Non si tratta di un condannato qualunque, ma di Pier della Vigna, l’uomo più vicino a Federico II. L’illustre arresto ha generato lo sgomento di molti, ma nessuno è in grado di dire perché l’Imperatore si sia scagliato contro colui che era ritenuto il suo suddito più fedele. I sostenitori del potere papale, nemici di Federico, intendono strumentalizzare l’episodio per tacciare l’Imperatore di spietatezza. Ed è proprio uno di questi, un giovane francescano, ad incontrare Pier della Vigna per raccogliere le sue confessioni.
Inizia così un racconto lungo venticinque anni... un quarto di secolo in cui la scena europea è dominata da un unico protagonista: Federico II, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero... un sovrano colto e dinamico, protettore delle arti, fautore di riforme e amico di ebrei e musulmani. Un uomo che però ha un sogno: dominare l’intera cristianità avvalendosi di ogni mezzo. Un sogno uguale e contrario affascina tuttavia anche il papa, ed è chiaro che Federico non avrà vita semplice. 
Il Regnum, a cento anni dalla sua creazione, si trova così ad un bivio: da un lato vi è la possibilità che i suoi princìpi di tolleranza e di governo si diffondano in tutta Europa sotto l’egida dell’illuminato Imperatore... dall’altro rischia di scomparire, risucchiato nella vorticosa guerra tra guelfi e ghibellini... tra Federico, i comuni della Lega lombarda e il papa. 
La narrazione di Pier della Vigna va avanti e il mistero della sua condanna si infittisce sempre di più. Emerge allora la figura di una donna, una poetessa ascesa alla corte di Federico e desiderosa di far parte di quel circolo di rimatori che sarà conosciuto come La Scuola Siciliana. Il suo viso è angelico, ma il suo cuore è ambizioso! Selvaggia dovrà guadagnarsi il posto che le spetta convincendo i poeti di Federico che una donna è perfettamente in grado di scrivere rime d’amore. Tuttavia, di fronte al pregiudizio di quegli uomini, la sua emancipazione sarà un compito arduo!
Anche Pier della Vigna è un poeta e presto Selvaggia cattura il suo cuore, mentre al contempo dona a Federico notti d’amore, intendendo garantirsi la sua permanenza a corte. Questo dovrebbe bastarle, ma dal suo scandaloso passato vengono fuori delitti e sogni... immensi e incontenibili, proprio come quelli del suo Imperatore!

Il romanzo segue l’intera vicenda di Federico II di Svevia, dalla sua ascesa alla sua morte, non tralasciando di soffermarsi sulle sue passioni: la caccia, la poesia, le donne... metafore della sua stessa natura. Eppure è una narrazione fatta di “se” e di “ma”, a sottolineare come quel periodo particolare della storia d’Italia costituì davvero un bivio: da un lato l’Impero, dall’altro il papato. Un’epoca fatta di battaglie, di intrighi, di scontri ideologici, di sporca propaganda e soprattutto di scelte... ovvero di ciò che più di tutto plasma il destino di un uomo, così come di un re e della sua gente.  
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2021
ISBN9791220257770
La dama eloquente - Vita e destino di Federico II: Regnum

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    Anteprima del libro

    La dama eloquente - Vita e destino di Federico II - Giovanni Mongiovì

    Giovanni Mongiovì

    La dama eloquente - Vita e destino di Federico II

    Regnum

    In copertina: Ylenia (per gentile concessione)

    giovannimongiovi.com

    Copyright © 2020 - Giovanni Mongiovì

    UUID: 8a9ba9a7-3d3e-47c0-b7ab-0a53fc732981

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    Se di speranza dovessimo vivere

    attenderemo il risorgere del mai avuto,

    lo faremo insieme, sapendo che

    nel compiere l’incompiuto riusciremo.

    A Valentina e Tommaso... anime della mia poesia...

    Indice dei contenuti

    Ringraziamenti

    Premessa

    Prologo

    Parte I

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Parte II

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Parte III

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Parte IV

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Parte V

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Parte VI

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Parte VII

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Parte VIII

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Epilogo

    Conclusione

    Cronologia dei sovrani di Sicilia

    Albero genealogico Rossavilla

    Regnum - Morgane

    Regnum - Il sale della terra (Atto I)

    Opere dell’autore

    Biografia

    Note

    Premessa

    Nei più remoti spazi dell’animo umano esistono paure inconsapevoli, ataviche, che restano sopite per generazioni senza mai manifestarsi. Succede però che alla sollecitazione dei sensi esse vengono fuori, provocando il panico più puro e l’angoscia più nera.

    Esisteva una paura nei popoli di retaggio latino, qualcosa che per secoli aveva riposato in un’indefinita zona sotto lo stomaco: si trattava del terrore dovuto al Furor Teutonicus. Con tale locuzione gli scrittori latini descrivevano la barbarie, la furia e la spietatezza dei popoli germanici in battaglia... un qualcosa di animalesco, antitetico all’alto livello di civilizzazione raggiunto dalla società romana.

    Allo scorcio del XII secolo, le terre al di sopra delle Alpi non erano più quelle delle tribù dei barbari, ma quelle degli imperatori direttamente nominati da Dio e legittimati a governare con lo scettro e con la spada l’intera cristianità. Imperatori di etnia germanica, ma che si definivano romani, ritenendosi successori delle più illustri vestigia dell’Urbe Eterna.

    Quando nel 1194 Enrico VI, già Imperatore, scese in Sicilia per assumere il controllo del Regnum, a Palermo regnavano ancora gli ultimi normanni. Re Tancredi era dipartito all’inizio dello stesso anno, morto di crepacuore a causa della scomparsa del suo primogenito, e sul trono del grande Ruggero sedeva ora un bambino di soli nove anni. Il piccolo Guglielmo non poteva saperlo, ma il suo regno, così come la reggenza di sua madre, sarebbero durati appena dieci mesi. Enrico costrinse madre e figlio alla resa, promettendo loro salva la vita e l’amministrazione delle contee già appartenute a Tancredi. Tuttavia Enrico non aveva nessuna intenzione di lasciare a piede libero un rivale tanto pericoloso, e così, dopo aver ottenuto la sottomissione del baronato ed esser stato incoronato Re di Sicilia dall’Arcivescovo Bartolomeo, ponendosi in capo il sacro diadema profanato dalla tomba del suo predecessore, pensò bene di chiudere definitivamente i giochi a chi gli era ostile. Appena quattro giorni dopo la sua incoronazione, accusò Guglielmo e la Regina Sibilla di star cospirando contro il suo trono. Ed ecco il ridestarsi della paura più pura, quella causata dal Furor Teutonicus, sopita nell’animo di ciascun abitante del Mediterraneo latino. Enrico fece accecare ed evirare il piccolo Guglielmo, dopodiché prese lui, sua madre e le sue sorelle e li fece deportare tutti in Germania. Qui il giovane Re morì poco tempo dopo, tra torture e patimenti... forse ucciso. Fece anche cavare gli occhi all’Ammiraglio Margarito, a Riccardo di Salerno e a molti altri, ritenendo l’accecamento un trattamento più nobile dell’uccisione, in quanto meno meritevole delle fiamme dell’inferno. Infine fece incarcerare e deportare tutti oltre le Alpi, senza avere rispetto per età, sesso e abito. Fece addirittura imprigionare, senza possibilità di liberazione, l’Arcivescovo di Salerno Niccolò, figlio del Protonotario Matteo.

    Involontaria responsabile di tutto questo era l’Imperatrice Costanza; Enrico infatti rivendicava il Regnum in nome della moglie, essendo essa la figlia di Re Ruggero ed erede designata di Guglielmo II, ultimo sovrano di Sicilia ad essere ritenuto legittimo. Tuttavia, in quei giorni, la nuova Regina non avrebbe mai potuto assistere alla barbarie imperante del giovane marito. Mentre infatti nel giorno di Natale del 1194 Enrico si cingeva il capo con la corona di Sicilia, ella, che intendeva raggiungerlo, era costretta a fermarsi lungo il cammino, impossibilitata a proseguire a causa delle doglie. Costanza aveva già quarant’anni, e molte voci avevano messo in dubbio la sua gravidanza. Fugò quindi ogni sospetto partorendo nella pubblica piazza della città marchigiana di Jesi, in un padiglione in cui ogni donna fu invitata ad entrare per testimoniare l’effettivo parto. Il 26 dicembre diede alla luce il suo unico figlio. Il nascituro sarebbe stato chiamato Federico, come il Barbarossa, suo nonno paterno, Ruggero, come il primo Re di Sicilia, padre di sua madre, e in segno d’augurio Costantino.

    Dopo qualche tempo Enrico tornò in Germania, recando con sé un immane tesoro: centocinquanta muli carichi d’oro, seta, gemme e altre preziosità, tra cui gli abiti sacri dei re siciliani. Con tale gesto dimostrava di voler sacrificare il regno portato in dote da sua moglie in favore dell’Impero. Chi aveva da sempre diffidato di tale unione ci aveva visto lungo: Enrico stava davvero depredando il Regnum!

    Bisogna ora ammettere che, in un popolo così eterogeneo come quello dei siciliani, non mancavano mai coloro che sostenevano l’ordine costituito e coloro che appoggiavano il nuovo conquistatore. Era stato il caso di Messina, la quale non aveva fatto nulla per bloccare l’avanzata di Enrico, ed era stato il caso di Catania, che addirittura l’aveva appoggiato, subendo poi le ire della Regina Sibilla ed essendo in gran parte distrutta. Non poteva d’altronde essere diversamente per città che ambivano ad avere più autonomia e che avevano da sempre mal sopportato il centralismo degli Altavilla. E ad onor del vero, la volubile folla, sempre convinta che la nuova alternativa sia migliore della vecchia, aveva osannato il nuovo sovrano pure a Palermo. Succedeva però anche, e questa sarebbe stata quasi una costante, che, tastato il giogo del nuovo dominatore, ci si ribellasse in massa per liberarsene. E d’altro canto il giogo di Enrico fu quanto di più terribile ci si sarebbe mai aspettati.

    Venti di ribellione infiammavano il Regno. Prima esplose la Terraferma, poi la Sicilia. Enrico allora discese nuovamente e, come una furia, trapassò cuori, fracassò teste, bruciò corpi vivi, scorticò membra e inflisse i più terribili supplizi che l’essere umano possa concepire. Nel 1197 tale Guglielmo Monaco, signore di Castrogiovanni, reggeva alta la bandiera degli insorti; Enrico combatté i suoi nemici, sconfisse in battaglia i ribelli e prese vivo il loro comandante.

    Uno, due, tre colpi di martello... poi il primo chiodo penetrò nel cervello e Guglielmo Monaco smise di gridare. Fu così, inchiodandogli una corona arroventata in testa, che Enrico volle punire il capo degli insorti, reo, a suo dire, di voler per sé il trono e pure la Regina.

    Pena non meno scioccante, poiché una vita di paura è spesso peggiore dell’istante stesso della morte, dovette subire proprio l’Imperatrice Costanza, costretta ad osservare ogni singolo istante di quella tortura. Pendeva infatti su di lei l’accusa di aver cospirato contro il marito e di essere stata in combutta col signore di Castrogiovanni allo scopo di liberare la sua amata terra natia dalle insopportabili violenze perpetrate dai cavalieri tedeschi.

    Costanza, donna casta e limpida, che pure nella sua prima vita aveva dedicato la sua anima a Dio, piangeva e si struggeva dentro. Quando vide Guglielmo Monaco ridotto al silenzio dal dolore straziante, ma ancora vivo per definizione, lasciò sconvolta la cella, il Re e i torturatori.

    Una fila di prigionieri se ne stava incatenata al muro, ed ella non poté fare a meno di provare compassione per quei poveri uomini che si erano spesi per la libertà. Poi ne vide uno che gli parve di conoscere. Dunque si avvicinò, gli accarezzò le guance tinte dal sangue degli occhi cavati e, con voce tremante, chiamò insicura:

    «Giordano...»

    E quello, afferrandole la mano che lo sfiorava, rispose:

    «È caduto, mia Regina... Giordano è caduto!»

    «Ringrazio Iddio che nella Sua pietà gli abbia riservato la spada! Ma voi... voi gli somigliate molto...»

    «Mi chiamo Rodolfo... Giordano era mio fratello.»

    Si avvicinò perciò uno dei soldati e lei fu costretta a separarsi.

    Costanza stimava solo l’amore di Dio e non aveva mai ricambiato Giordano, tuttavia provava affetto per quel suddito così devoto al suo bene più intimo... a quel bene che riguardava soltanto il suo essere donna, senza corona e senza dominio. Provava così tanto rispetto per quella vita immolata in suo nome, e provava così tanta repulsione per la razza di suo marito, che all’istante ragionò la soluzione ad ogni sopruso e violenza. I tre anni orribili del regno di Enrico dovevano finire! Pensò a Giaele [1] e Giuditta, serve del Signore e salvatrici del popolo eletto, donne di fede annoverate tra i giusti a motivo dell’assassinio del tiranno che offendeva Dio.

    L’assedio di Castrogiovanni perdurava ancora quando Enrico cominciò ad avvertire dolori addominali. Trasportato a Messina morì nella notte tra il 28 e il 29 settembre. Tra le tante ipotesi si sospettò un avvelenamento.

    Da quel momento Costanza regnò in nome del figlio e con l’amore del suo popolo. Cacciò i tedeschi, e prima di morire, poiché la morte la colse appena un anno dopo, affidò il piccolo Federico alla tutela del papa, sperando che questi facesse di lui un buon cristiano e che lo allontanasse dall’esempio di suo padre.

    Così la paura tornava a riassopirsi nei meandri dell’animo umano e il Furor Teutonicus diventava un terribile ricordo del recente passato. Si prospettava comunque un periodo di incertezze, anni di assenza del potere in cui i più forti avrebbero prevalso; una vera manna per la nobiltà terriera, profittatrice di ogni momento di vuoto allo scopo di arricchirsi in potere e denari.

    Ma cosa sono i fatti storici se non scelte? E cosa sono le scelte se non espressioni dell’animo umano? Costanza, da buona regina, aveva scelto per amore della sua gente, e, da buona madre, per amore del suo unico figlio. Si era spinta oltre la sua stessa indole, perché tanto aveva pure amato.

    Se dunque ad un animo più grande corrispondono scelte più audaci, che limiti ha l’animo umano? e fin dove possono spingersi le scelte da esso generate? Esso non ha limiti se l’uomo che lo possiede opera scelte al massimo della sua potenzialità, oltre ogni concetto costituito e oltre ogni confine di tempo e di spazio. Esso non ha limiti quando il potere che lo alimenta diviene universale.

    Nondimeno l’uomo operatore di tale scelte e possessore di un così infinito animo dovrebbe rendersi conto della natura della sua volontà. Egli è dominato solo da un sogno, da un agognato traguardo che stenta a realizzarsi a causa di carne e sangue... a causa dell’uomo che egli semplicemente è.

    Parleremo perciò di uomini e donne che seppero sognare oltre l’umanamente concesso. Di uomini e donne disposti a consumare sé stessi sull’altare delle proprie aspirazioni. Parleremo perciò di Federico Imperatore, che con l’intelletto e con le armi desiderò raggiungere la massima possanza... e di Selvaggia, peccatrice e dannata, costretta dal suo sogno ad amar compiacendo e ad amar veramente.

    Prologo

    Fine aprile 1249, castello di San Miniato

    Tra i borghi del contado della Pisa imperiale, maestosa città di quei grandiosi monumenti costruiti in principio col saccheggio della Palermo saracena nel 1063, vi era un’alta torre protesa verso il cielo, ma che al suo interno custodiva anime prave e dannate.

    Il buio era pesto, ancor più pesto di quanto il prigioniero avrebbe potuto immaginare. Entrava infatti poca luce in quella cella, come se fosse stata concepita per ospitare solo prigionieri opportunamente orbati.

    Si avvicinò un uomo il cui passo era nuovo, sconosciuto, e questi si chinò sul detenuto.

    «Messer Pietro... Maestro... vi ho portato da mangiare.»

    Il prigioniero, seduto in un angolo della cella, spingendo le braccia in avanti, esordì:

    «Voi non siete il soldato della guardia!»

    «No, Messere... sono un prigioniero anch’io... come voi.»

    «Vi permettono di entrare e uscire da questa cella per portare da mangiare ad uno come me? I vostri legami non sono come i miei!»

    «Siamo tutti costretti da legami indissolubili. Converrete con me, Maestro, che quello che è più difficile da sciogliere è la colpa per ciò che si è commesso. Semmai foste ancora libero, sareste comunque prigioniero!»

    «E dunque, qual è la vostra colpa?»

    Il visitatore si schiarì la voce e rispose:

    «Ero un mercante... un mercante di seta che si era arricchito commerciando con l’Africa. Un giorno fui catturato dai pirati e venni tenuto prigioniero in una delle città che sorgono alle soglie del deserto. A motivo del mio fisico robusto chiesero per me un grosso riscatto. Temetti allora che qualcuno mettesse mano al mio patrimonio per riscattarmi. Preoccupato, diedi loro un’altra identità, quella di un povero mozzo naufragato e rimasto da quelle parti in attesa di una nave in partenza per i nostri porti. Fu allora che quelli cominciarono a torturarmi nel corpo e nella mente, cercando di farmi abbracciare la via di lor profeta. Un giorno poi si presentò un frate, un monaco che diceva d’essere inquadrato nell’Ordine di Santa Maria della Mercede. Per certo voi, Maestro, ne avrete sentito parlare! Questi monaci raccolgono denaro per riscattare i poveri cristiani fatti prigionieri dai saraceni e, qualora il prezzo superi le loro possibilità, si fanno ostaggi in luogo del catturato, aspettando che l’intera cifra venga corrisposta ai carcerieri. Sono davvero dei santi uomini! E qui subentra la colpa che oggi mi tiene prigioniero più di allora. Ritornato a casa avrei potuto facilmente saldare il riscatto e liberare quel buon frate, eppure non me ne preoccupai. Ci vollero mesi affinché l’Ordine dei mercedari raccogliesse la cifra per riscattare il loro confratello, ma quello intanto era morto a causa delle durezze del clima e della prigionia. Per avidità non seppi ricambiare il bene... Comprendete, Maestro?»

    «E come cercate di espiarvi adesso?»

    «Alleviando le sofferenze di quanti vivono in doppia costrizione, quella del corpo e quella dell’anima.»

    «Cosa siete, una sorta di monaco anche voi?»

    «Ho preso i voti, Maestro.»

    Il prigioniero rise e poi spiegò:

    «Con inchiostro e penna vi ho combattuto con successo a voi chierici!»

    «So bene, Maestro, quale sorta di ostilità nutriate per quanti portino una tonaca, ma sappiate che io ho sempre sostenuto l’Imperatore. Riconosco inoltre che benché le vostre parole siano state aspre nei confronti del pontefice e della Chiesa tutta, in realtà siete stato un interlocutore più ragionevole di quanto non sia stato Federico stesso. E poi, non è Berardo di Castagna, Arcivescovo di Palermo, uno dei familiares regis [2] di Federico?»

    Il prigioniero urlò e disse:

    «Venite a ricordarmi la mia disgrazia?»

    «No, Maestro, so bene che voi foste uno dei tre familiares di Federico, ma non era mia intenzione ricordarvi la fiducia che vi è stata tolta.»

    Allora il prigioniero accecato, colto da improvviso sconforto, prese a piangere.

    «Maestro, possa la pace di Dio illuminare i vostri giorni futuri!» esclamò l’ospite per rincuorarlo.

    «Dio... quale Dio illuminerà i miei giorni futuri? E quale futuro si prospetta ancora per me? Nacqui in disgrazia e in disgrazia me ne andrò!»

    «Siete stato giudice della Magna Curia [3], maestro dei dictatores [4] della cancelleria imperiale, ambasciatore del Regno vostro e dell’Impero, logoteta [5], protonotario [6] e portavoce stesso dell’Imperatore. Inoltre siete stato fautore e sostenitore dell’Università di Napoli, così come parte del circolo che redasse il Liber Augustalis. Che devono dire allora coloro che in disgrazia nacquero, crebbero e morirono?»

    «Mi rammentate i miei successi, buonuomo... ma un giorno si ricorderà solo la mia fine!»

    «No, Maestro... sappiate che sono in tanti a credere nella vostra innocenza.»

    «Chiaramente il papa e i suoi sostenitori sfrutteranno la mia situazione per gettare discredito sull’Imperatore... Diranno: Che uomo è uno che è disposto a distruggere il suo amico più intimo?»

    «E voi lo dite?»

    Il prigioniero tacque, non volendo far trasparire né rabbia né odio.

    «Voi lo pensate, Maestro?» ripetè l’ospite.

    «Che uomo sarei se oggi gettassi discredito sull’uomo che ho servito e difeso per tutta la vita? Darei torto a me stesso e ragione ai miei nemici.»

    «Eppure quell’uomo vi ha fatto accecare e vi ha rinchiuso qui dentro.»

    A questo punto il prigioniero si mise in piedi e, cercando il collo del suo interlocutore, tentò di aggredirlo.

    «Chi vi ha mandato? Se credete che diffamerò l’Imperatore vi sbagliate di grosso!»

    L’ospite, intanto, per sfuggire alla furia del prigioniero, si era spostato nell’angolo opposto.

    «Mi chiamo Norberto, e sono qui per aiutarvi, Messer Pietro.»

    «La storia che avete raccontato poco fa... ammettetelo, era falsa! La vostra voce è troppo giovane per essere un mercante che abbia avuto il tempo di arricchirsi.»

    «Ebbene sì, lo ammetto, ho inventato tutto perché desideravo mettervi a vostro agio, narrandovi di un peccato simile al vostro. Vi ho detto che per avidità non seppi ricambiare il bene... si dice lo stesso dei motivi del vostro tradimento. Ma sono davvero un monaco, ordinato presbitero... In questo non vi ho mentito, e per l’appunto sono un francescano.»

    «Che cosa volete da me... frate?»

    «Conoscere i fatti che hanno portato l’uomo più vicino all’Imperatore ad essere accusato di tradimento proprio dal suo sovrano. E in questo vi rendo un favore, Messere, perché se, come penso, voi siete innocente, i posteri potranno giudicarvi in bene.»

    «Come immaginavo siete alla ricerca di fatti che servano a diffamare l’Imperatore. Che dovrei aspettarmi da un francescano? Non avete riempito il mondo con la vostra predicazione apocalittica contro Federico, chiamandolo tiranno, anticristo e Satana?»

    «Non tutti i francescani seguono le predizioni di Gioacchino da Fiore e sono ostili all’Imperatore. Non è Elia di Cortona, già amico di Francesco d’Assisi, consigliere di Federico? Non ha rimediato egli una scomunica proprio per seguire la via dell’Imperatore?»

    «Perché voi?» chiese a questo punto il prigioniero.

    E fra Norberto, non comprendendo bene, rispose:

    «Perché ho a cuore la vostra sorte, Maestro.»

    «La sapete lunga... e il vostro modo di esprimervi è costruito per un obiettivo specifico. Chi vi manda?»

    «Siete stato giudicato reo di tradimento... qualunque siano i motivi, dire la verità potrà solo esservi d’aiuto.»

    «Perorerete la mia causa davanti al gran giustiziere della corte imperiale? In tal caso vi dico che perdereste solo tempo. La mia vita è già finita, frate... non mostratevi falso con quest’uomo al termine dei suoi giorni! Ditemi chi vi manda?»

    «Nessuno... davvero...»

    «Allora riporterete le mie parole solo a nessuno

    «Maestro, io sono un uomo di lettere, proprio come voi, e sapete quanto sia impossibile trattenere la penna innanzi alla verità.»

    «Ho scritto artifici per tutta la vita... altro che verità! Ma in fondo, che cos’è la verità?»

    «È una condizione del proprio cuore e della propria mente... la predisposizione a convincersi che sia vero ciò che si dice.»

    «Come potete pretendere di voler conoscere la verità se poi non credete neppure che essa esista?»

    «Esiste la vostra verità, però!»

    «Se siete qui per aiutarmi, ne uscirete deluso. La verità potrebbe non essere quella che pensate. Forse, buonuomo, io sono davvero colpevole!»

    «L’avidità vi ha forse fatto considerare il valore del denaro più alto di quello dell’onore?»

    «Avidità... denaro... Credete che un uomo che sia arrivato a possedere tutto consideri ancora l’oro e l’argento come fanno i poveri cristi?»

    «Qual è allora il vostro vero reato?»

    Il prigioniero si lisciò la lunga barba cadente dal viso rotondo e, sospirando, rispose:

    «Un sogno, frate... un sogno vero davanti ai miei occhi. Un inganno perseguito tutta la vita... ciò che non si compra con l’oro, ma con il cuore. Tuttavia è un prezzo troppo grande da pagare!»

    «Non comprendo.» disse fra Norberto.

    «E non potreste mai d’altronde; ognuno sogna a modo proprio. Ma se l’aveste vista, buonuomo... se aveste potuto penetrare il suo sguardo... Ma no, non era il suo aspetto a colpire, bensì la sua anima! Un’anima libera... folle oserei dire... incurante delle imposizioni di questo mondo. Era proprio questo Selvaggia!»

    «Una donna, Maestro?»

    «Una dama audace, dall’innegabile talento e dallo spirito libero. Ella era tutto questo ancor prima che io, Pier della Vigna, sapessi della sua esistenza. Come spesso accade, infatti, i più grandi spiriti vengono fuori dagli anonimi ranghi della moltitudine, nobili o villani che siano. Io, frate, mi ritengo fortunato ad averla incontrata, benché questo mi sia costato la vita.»

    «Dunque non provate rimorso per la vostra colpa?»

    «Si possono dare colpe ad un sogno?»

    Ora il religioso, sentendo di potersi fidare, si avvicinò. Il prigioniero avvertì la sua presenza sentendo sfiorate le mani.

    «Sono qui per questo, Maestro, per sentir parlare di questo sogno.»

    Pier della Vigna, accecato e incatenato, puntò lo sguardo avanti a sé, si strinse il petto fra le mani, e iniziò a raccontare:

    «Poiché Iddio ha messo anime immense dentro corpi finiti, ogni essere umano è allettato da un sogno. Ma la saggezza, per chi sa coglierla, sta nel saperlo ignorare. Triste è la sorte di chi insegue la sua anima... divina e perciò tendente all’umanamente impossibile. Ad alimentarla si finisce per non saperla più contenere. E quando essa, costretta nel mortale corpo, decide di liberarsi, allora si giunge alla fine di questa vita. Vi racconto perciò una storia, frate... una storia che parte dal sogno di altra gente e finisce col sogno di ognuno... una storia di molti anni fa che giunge fino ad oggi... Adesso, frate, giudicate voi tra la Verità e la mia verità, tra la realtà e l’immaginazione che scaturisce dal sogno, e che è capace di colmare anche ciò che non ho mai saputo!»

    Parte I

    L’ultimo canto del muezzin

    Capitolo 1

    Primavera 1225, rocca di Entella

    Per Nadira il canto dei muezzin aveva perso il bel tono dei tempi passati. Le sembrava quasi un lamento, un’angosciosa richiesta d’aiuto al Cielo, e in luogo dell’invito alla preghiera le pareva di sentire echeggiare la seguente frase: Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

    Queste parole facevano parte di una delle poesie di ibn Ḥamdīs, il più illustre dei poeti saraceni di Sicilia. Costui era vissuto un secolo prima e nella sua giovinezza aveva conosciuto la guerra e l’esilio; da qui scaturivano parole così ricche di tristezza.

    Seppur abitasse ancora nella sua terra, Nadira provava gli stessi sentimenti di quel nostalgico poeta. Li avvertiva in petto perché sapeva che la sua fine, la fine di tutti i saraceni di Sicilia, era prossima. Per certo Allah, Dio loro, doveva avere disegni diversi per questi figlioli suoi, disegni imperscrutabili... o forse stavano per pagare la colpa del loro peccato, quell’essere stati sempre troppo poco osservanti dell’ortodossia coranica.

    Nadira aveva passato da qualche tempo i trenta, ma conservava lo stesso sguardo fiero e sprezzante della vita tipico della gioventù più bella. Era vedova da poco meno di due anni e suo figlio era ancora troppo giovane per prendere le redini della famiglia. Nadira osservava il tramonto sporgendosi dalla rocca di Entella, pensando alla resa... meditando la sua vendetta.

    Forse avrebbe dovuto sottomettersi e giurare fedeltà a Federico... in fondo lui era il Re di Sicilia e l’Imperatore dei cristiani, nominato direttamente da Dio al più alto incarico riservato ad un uomo. Ma c’era un problema, Nadira non era cristiana e il Dio che aveva nominato Federico non era il suo. Per di più nei suoi occhi neri era possibile vedere bruciare il fuoco della vendetta, un indomabile rancore che cuoceva la sua anima da due anni.

    Nadira era la figlia di Mohammed ibn ‘Abbād, chiamato da tutti Morabit [7], e detto Benavert da chi desiderava sottolineare la sua provenienza. Egli era proprio il discendente di quel Benavert, signore di Siracusa e ultimo degli emiri di Sicilia, che a suo tempo aveva saputo tener testa al primo Ruggero. I suoi antenati si erano rifugiati in Africa dopo la caduta di Noto nel 1091, ma erano ritornati sull’Isola dopo qualche decennio. Uno di questi, un certo Kamal, si era stabilito a Giato [8], e qui i suoi figli, e i figli dei suoi figli, avevano vissuto in pace per molti anni, godendo della tolleranza e della protezione dei re normanni. Quando però il Regno era rimasto sprovvisto di governo a causa della fanciullezza di Federico, Morabit aveva compreso che il momento fosse propizio per riprendersi quello che più di centotrent’anni prima era stato tolto ai suoi avi. La sua ribellione non era tuttavia solo frutto dell’ambizione che spinge gli uomini a voler svettare sugli altri... Morabit vedeva il suo mondo scomparire e la posizione della sua gente diventare sempre più precaria. Le terre dei saraceni, numerosissime nella Sicilia occidentale, venivano da anni concesse alle grandi abbazie. E così i villani mori che lavoravano tali feudi finivano per essere asserviti dai nuovi padroni. Per i re di Sicilia quei feudi erano parte del demanio, destinati ad uso loro e di chi altri volessero concederlo, mentre i saraceni che vi abitavano erano semplicemente una risorsa. Gli abati, d’altro canto, facevano di tutto per accelerare la conversione dei loro villani, colpendoli direttamente nella fede, in ciò che era l’emblema della loro identità in quanto popolo distinto. In un clima del genere neppure i finti cristiani avevano più vita facile: chi tornava all’Islam poteva essere giudicato eretico, andando incontro alla scomunica e alla confisca. L’ipocrisia dei saraceni nascosti non pagava più come ai tempi dei re normanni.

    Morabit tutto questo lo aveva vissuto in prima persona, lì in quelle terre che appartenevano all’immensa abbazia benedettina di Monreale. Aveva visto anche il succedersi dei vari tutori del giovane Re, prelati inviati dal papa, cavalieri tedeschi e baroni nostrani, tutti alla ricerca di gloria in nome del sovrano bambino. In particolare aveva vissuto l’epopea di Marcovaldo di Annweiler, uno di quei tedeschi che l’Imperatrice Costanza aveva pensato bene di far espellere. Questi, volendo conquistare Palermo e prendere in ostaggio Federico, aveva chiesto aiuto proprio ai saraceni. In tale maniera villani e briganti si erano riscoperti un popolo unito, un’armata capace di tener testa a chiunque, un esercito al quale però mancava una testa della loro stirpe che sapesse convogliarli verso obiettivi a loro convenienti... un esercito che aveva bisogno proprio di Morabit. Molti si erano radunati allora attorno al nuovo emiro e, chi non l’aveva ancora fatto, aveva sciolto i legami che l’assoggettavano al proprio signore cristiano, andando ad ingrossare le fila dei ribelli. Gli uomini armati dei saraceni avevano superato presto le trentamila unità. Così si erano spinti fino a Palermo, saccheggiando l’ospedale di San Giovanni dei Lebbrosi, e si erano spinti fino a Girgenti [9], dove avevano catturato il vescovo. Per quattordici mesi tale città non aveva avuto un porporato, fino a quando il vescovo non era stato liberato mediante riscatto. Divenuto famoso, Morabit aveva allora cominciato a battere moneta. Aveva perfino ricevuto lettere da papa Innocenzo III, il quale lo incoraggiava a non farsi abbindolare dell’amicizia dei baroni tedeschi, costola di Enrico VI e decisamente avversi al potere pontificio. Il vasto territorio di Morabit era stato presto conosciuto come la Marca Saracena. L’emirato era perciò stato ristabilito!

    Intanto cresceva Federico... Vista la necessità di un re con facoltà decisionali e le sue straordinarie capacità, a quattordici anni il giovane sovrano era stato emancipato all’età adulta ed aveva potuto liberarsi del peso dei tutori. Tuttavia, insieme all’età, erano aumentati anche gli impegni. Nel 1212 aveva dovuto lasciare il Regno per andare a prendersi la corona di re di Germania, o come si usa definirla, la corona di re dei Romani, propedeutica all’incoronazione ad Imperatore. Nel giro di qualche anno Federico aveva vinto i nemici ed aveva ottenuto tutto quello che poteva ottenere. Nel 1220 ritornava perciò a casa da Imperatore dei Romani, ovvero del Sacro Romano Impero, controllando un territorio che si estendeva dalla Toscana al Baltico e dalla Borgogna all’Austria, dominio che andava a sommarsi a quello del Regno di Sicilia.

    Ricordo bene quegli anni trionfali in cui Federico marciò sul Regno con in testa la nuova corona di Imperatore... allora muovevo i primi passi nella curia imperiale; erano gli anni dei miei entusiasmi come notaio.

    Forte dei suoi successi e possessore di un potere senza eguali, adesso Federico non aveva alcuna intenzione di tollerare quanti si erano approfittati della sua minore età e della sua assenza per allargare i propri feudi a danno della corona, fossero essi membri del baronato o i saraceni dell’autoproclamato emirato di Morabit.

    Nondimeno Federico sapeva bene quanto la stirpe degli islamici avesse fatto ricca e prospera la Sicilia dei tempi passati. Credeva inoltre di aver bisogno della loro sapienza nell’artigianato e nell’agricoltura per far grande ancora quella terra, e che la Sicilia dei suoi immensi disegni non potesse fare a meno dei saraceni. Oltre ad intrattenere intensi carteggi con i sultani d’oltremare, aveva concesso le armi per difendersi a quelli nostrani, stabilendo che nei suoi domini pure un islamico o un giudeo avesse il diritto di portare in tribunale un cristiano. Un’emancipazione senza precedenti che però non aveva dato i risultati sperati. Quelli, i saraceni, continuavano a ribellarsi e a fuggir via dai loro padroni per unirsi a Morabit... e alla fine l’Imperatore dovette far loro la guerra.

    Riscosse i denari necessari, chiamò alle armi le forze dei baroni e intraprese una lotta senza tregua contro i saraceni ribelli. Bruciò i loro raccolti e ne costrinse molti alla resa per fame. Nell’estate del 1223 cinse d’assedio Giato, prese quindi Morabit, due figli suoi, suo genero e pochi altri ancora e li fece impiccare nella pubblica piazza di Palermo. Poi deportò gran parte dei saraceni arresi in terra di Puglia, in quella città di Lucera rimasta priva di vescovo a causa di un terremoto che aveva raso al suolo la cattedrale.

    Ben presto Lucera divenne un centro saraceno nel bel mezzo d’Italia, e i suoi abitanti divennero i principali sostenitori di Federico. L’Imperatore, sempre affascinato dal loro mondo, li aveva perdonati, aveva dato loro una casa e delle terre, e ne aveva inquadrato gli uomini nella sua guardia personale.

    Chi non poteva gioire era Nadira, unica figlia di Morabit, così fiera e desiderosa di vendetta da considerare un’offesa quel trattamento di favore. Per di più sosteneva la tesi che suo padre fosse stato preso con l’inganno, in quanto imprigionato ed impiccato dopo la promessa di un salvacondotto per l’Africa. Nadira, che portava lo stesso nome di una sua ava, la favorita di quel Benavert Signore di Siracusa che aveva combattuto per la sopravvivenza dell’emirato, da due anni capeggiava la resistenza reggendo la rocca di Entella.

    Nadira era una madre ed era stata una moglie. Al suo compagno e proprietario aveva sempre mostrato la sottomissione richiesta alle donne devote, e ancora adesso si copriva il capo e il volto in presenza di altri uomini. Nadira tuttavia si faceva forte del proprio sangue, lo stesso di Morabit, e non avrebbe permesso mai a nessuno di usurpare il suo ruolo; un’eccezione ai

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