Le inquietudini della fede
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Anteprima del libro
Le inquietudini della fede - Lucetta Scaraffia
Postfazione
Introduzione
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
(Dante Alighieri, Inferno XXXIV, 139)
Lo spirito è sempre in movimento. Da sempre in movimento. Come il vento. Che con l’anima condivide l’etimo (il greco ánemos significa vento
, appunto) e all’anima restituisce l’idea di soffio
. Vitale. Perché animare questo è: rendere vita. Soffiare sull’inerzia dell’essere. Muoverlo.
C’è un’urgenza che spinge l’uomo ad andare. «Andare dove?», chiederanno al viaggiatore della beat generation, Jack Kerouac. E lui, On the road, non potrà che rispondere: «Non lo so, ma dobbiamo andare». Come titolava una indimenticabile commedia di Aki Kaurimsaki, siamo nuvole in viaggio. Sospinte dal vento. Che soffia dove vuole, ma nessuno sa da dove viene né dove va (Gv 3,8). La via della vita segue percorsi misteriosi. Sempre a chiederci, come il pastore errante leopardiano, «Ove tende questo vagar mio breve?». È un percorso senza mappa. Non per questo senza destinazione. Scriverà Ungaretti: «Qui la meta è partire » (Lucca). Il viaggio è un atto di fiducia. Sentiamo che ci porterà da qualche parte, ma non sappiamo dove.
Destinazione è destino. In viaggio scriviamo l’itinerario della nostra esistenza. Passo dopo passo. Incontro dopo incontro. Partire significa lasciare la casa che abbiamo sempre abitato, abbandonare il guscio che ci ha custodito tenendoci al di qua del mondo. Come l’Ulisse di Omero partiamo per varcare una soglia. Ci spingiamo oltre, fuori da noi, verso. Andare incontro al mondo, nel mondo. Questo viaggio assume esplicite valenze esistenziali. Faulkner e Kerouac l’hanno eletto non a caso a tema capitale della letteratura. È il viaggio del viandante. Figura intermedia tra il pellegrino – che sa sempre dove vuole arrivare – e il vagabondo – che non vuole arrivare da nessuna parte. Il viandante sa che giungerà da qualche parte, ma di preciso non sa dove né come. Di fronte a uno spazio che lo attende, potenzialmente illimitato. Perciò il suo viaggio ha bisogno ogni volta di un supporto, di un mezzo capace di portarlo oltre i suoi piedi. O dove i suoi piedi, da soli, non potrebbero.
La cultura americana è piena di autostoppisti, Easy-Rider, Taxy Driver, persino di vecchietti alla guida di improbabili tosaerba (nella paradigmatica, paradossale, Storia vera lynchiana). La dimensione-viaggio dell’esistenza fa dell’uomo americano un corpo-motore, fusione riuscita di psyché e téchne. Non sorprende l’orrore di fronte alla sua possibile separazione, l’abominio del duale in lotta: così è in Duel (Spielberg, 1972), orrore di un camion senza guidatore, della macchina orfana dell’uomo.
Altri percorsi. Sono teoricamente inesauribili, pure se imperniati su una costante mitologia dello spazio americano – figura del dominio e della liberazione, mondo-sirena che chiama a sé, fino a perderci (Into the Wild) o ritrovarci (Balla coi lupi) – che gioca un ruolo fondamentale in una cultura in cui la scoperta del soggetto e l’esplorazione del territorio intrattengono rapporti osmotici. Non a caso il cinema hollywoodiano classico si è strutturato attorno a tre generi archetipici che sull’immaginario spaziale hanno costruito le loro fortune: l’on the road, il western e la fantascienza. Quest’ultima è la più duttile nel declinare in senso metafisico il tema del viaggio, proponendo spesso una forte specularità tra l’ignoto spazio profondo e l’enigma dell’essere in avaria nel mistero del cosmo. Tra buio e nascondimento, esplorazione e rivelazione. Basterebbe citare per tutti il pamphlet visivo-filosofico di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio. Ma gli esempi – da Alien ad Apollo 13, da Contact a Sunshine – si sprecano.
In tutti questi casi la problematica del dasein viene proiettata sulla carta e sul territorio di uno spazio da assimilare più che da scoprire. Ora immanente, ora fenomenologico, il cinema americano sembra più agire
lo spazio che agire nello
, con l’esterno ricondotto all’interno e interiorizzato, movimento di una cultura fagocitante e centripeta.
Altra storia nel Vecchio Continente. Qui prevale l’eredità dell’idealismo, la tradizione del pensiero cristiano, i sentieri dello spirito. Qui il viaggio trascende il mondo fisico. Si compie nella psiche, nella coscienza, nell’anima. È crescita culturale, maturazione morale, conversione spirituale. La sua traiettoria introflessa. Verticale possibilmente, quasi mai orizzontale. È ascesa e caduta, salto e ritorno.
Il viaggio diventa, sulla scorta di Plotino, itinerarium mentis in Deum. Percorso trascendentale. E Agostino rilegge l’intero itinerario dell’esistenza come un lungo ritorno verso la casa del Padre. Conversio. Tommaso d’Aquino riprende la metafora del movimento per descrivere la parabola di elevazione spirituale, perché In via Dei stare retrocedere est
. Il fuori vale come metafora del dentro. I piedi attraversano continenti interiori, frontiere dello spirito. Tappe dell’anima. Generalizzazioni, certo. Valgono se si salvano gli scarti, le vie di mezzo, le ibridazioni.
Eppure, restando solo nell’ambito sci-fi del cinema, potremmo indicare nel Solaris di Tarkovski il modello di una concezione europea dello Spazio e del suo attraversamento agli antipodi rispetto a quello americano. Nel film del maestro russo Solaris non è un pianeta reale, un mondo delimitabile, un ambiente fisico, ma la concrezione di un territorio astratto, trascendente, metafisico. Un altrove popolato da fantasmi, sogni, entità spirituali. Solaris è la figurativizzazione di un dominio tra inconscio e aldilà. È un versamento dell’interiorità nell’immaginario, un nucleo immateriale spazializzato. L’interno si proietta fuori, allungandosi come un cono di luce sul piano meta-psichico delle ombre.
Il discorso prescinde il solo ambito fantascientifico. Prendiamo Il posto delle fragole di Ingmar Bergman: il viaggio in macchina del vecchio professore insieme a una comitiva di giovani propone certamente una dinamica d’incontro, apparentemente simile a quella vissuta dal protagonista di Una storia vera nel suo attraversamento dell’America rurale in sella a un tosaerba. Inoltre in entrambi i casi abbiamo a che fare con interazioni non dialogiche, in quanto esiste un polo principale che monopolizza lo scambio, quello del vecchio. A differenziare le due operazioni di scrittura e di sguardo è tuttavia il taglio col quale questa dinamica relazionale viene elaborata e risolta: nel caso di Lynch l’altro – inteso come soggetto e spazio fuori di me – viene plasmato dalla soggettività del protagonista, sussunto nel suo mondo. Il vecchio delimita il territorio, gli conferisce una direzione e uno scopo, lo riporta alla propria mappa conoscitiva. La sua visione è già formata, onnicomprensiva, più grande. Alvin Straight – questo il nome del protagonista – è insieme personaggio e designatore archetipico di un’America originaria, figura di una cultura originaria e delle sue tradizioni. È suo il punto di vista che illumina e conferisce senso a tutto ciò che attraversa. Non c’è vera dialettica nella serie d’incontri messi in scena dal film. Semmai assorbimento, movimento performante, il microcosmo di Alvin che diventa un modello di mondo. Più che la narrazione di un viaggio, Una storia vera è il viaggio nella grande narrazione americana, l’estensione dell’Ethos fondativo lungo il suo territorio di conquista.
Parimenti, la dinamica d’incontro de Il posto delle fragole è non dialogica. Ma stavolta a prevalere è un’azione monologica introflessa, in cui lo spazio interiore del vecchio – la crisi, la riflessione, il ripensamento di sé – non si riversa fuori colonializzando l’altro da sé, ma si rivela essere il vero luogo attraversato dal film. Gli incontri (con i giovani personaggi, con la figlia, con le figure del passato) riverberano delle tensioni interne al protagonista, si verificano, si sviluppano e si definiscono sulla base delle domande di senso agite dal professore. Valgono in quanto tappe simboliche di un itinerario esistenziale tutto dentro il protagonista. Il posto delle fragole è – fin dall’incipit onirico – la proiezione di un mondo puramente interiore, un dramma tra le quinte dell’anima, nella recita a soggetto della coscienza e dei propri fantasmi. Il luogo è l’anima.
Persino in un autore come Rossellini – riconosciuto campione del realismo – l’ambiente viene rimodellato sulla base degli stati affettivi dei personaggi: è il caso delle rovine di Pompei in Viaggio in Italia, dove l’estetica della decadenza è speculare alla situazione vissuta dalla coppia di protagonisti.
Di fronte a questa duplice metafora del viaggio – limitata alla cultura occidentale – Salvatore Nocita segna una linea di confine: La strada di Paolo insegue un’inedita via mediana, in cui la ricerca del trascendente sposi la fenomenologia dello spazio, la fisica dei luoghi s’innervi nell’immateriale orizzonte della coscienza. Potrebbe essere