Il bene della morte
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Anteprima del libro
Il bene della morte - Sant’Ambrogio di Milano
- BIBLIOTECA DELL’ANIMA -
Collana diretta da Bruno Cerchio
11
Sant’Ambrogio di Milano
Il bene della morte
(De bono mortis)
a cura di
Ernesto Mainoldi
In copertina:
William Blake, La porta della morte
, 1793
ISBN: 978-88-96720-02-8
© Copyright 1999
Edizioni Il leone verde
Via della Consolata 7, Torino
Tel/fax 011 52.11.790
e-mail: leoneverde@mailbox.icom.it
http://eccentrica.org/leoneverde
Introduzione
La Sapienza: «Beato l’uomo che mi ascolta,
che è costantemente vigile presso le mie porte
ed è attento presso gli stipiti del mio ingresso.
Chi mi avrà trovato troverà la vita
e dal Signore attingerà la salute.
Chi invece si sarà privato di me
porterà rovina alla sua anima:
quelli che mi odiano
prediligono la morte.»
(Proverbi 8, 34-36)
I libri, se considerati come conoscenza allo stato minerale
, si possono suddividere in due categorie: quelli che non è di necessità leggere e quelli che è di necessità non leggere. Tra i primi vanno annoverati tutti quei testi che recano traccia della Verità per la mano di chi ne ha avuto esperienza diretta, oppure ne ha tràdito indirettamente la testimonianza: questi sono in definitiva gli unici testi ‘utili’, e lo sono unicamente per il lettore che ha già mosso un passo dalle spire della necessità. I secondi sono invece i testi che nelle mani dell’uomo coatto nella necessità rivelano in tutta la sua nocività il fascino terroso
della lettera.
Giacché la Verità è l’Essere conosciuto come ciò che non può non essere, mentre la Necessità è l’Essere non conosciuto come tale, bensì conosciuto come Divenire, ovvero quel che può essere e non essere, l’uomo che conosce nella Verità, oltrepassa il suo essere nella necessità, e realizza in sé l’Essere, mentre l’uomo che conosce nella necessità che prende a essere nel Divenire, resta prigioniero dell’ignoranza ontologica (la mâyâ avidyâ del pensiero indù) e del Non-essere.
Solo l’uomo ‘che conosce’ è in grado di rendere spirituale la lettera, rendendola utile e vitale, mentre l’uomo che già non conosce la renderà nociva e mortale. Costui crederà di apprendere a partire da una lettura, un insegnamento, un sermone, ma non confonderà che l’ombra con la sua causa, ossia si costruirà una superstizione
, e di questa si pascerà soddisfatto, tralasciando di risalire alla vera causa da cui si produce questa ombra, cioè la Luce.
Si vedrà poi come gli scritti in cui si adombra la Luce primordiale, siano esenti dalla necessità di essere letti, restando una mera occasione per la Sua presa – o meglio ripresa – di coscienza¹.
All’inverso i libri che si crederanno necessari saranno proprio quelli a cui il lettore resterà attaccato come al corpo della Verità: ‘corpo’ e non ‘spirito’. Se i libri letti in spirito
, e dunque oltrepassati in quanto lettera, si verificano solo occasionalmente esistenti – specchi della vis tradens dell’autore-lettore (poiché unica è la Conoscenza e Uno chi conosce), i libri che si leggono e non si saprebbero scrivere
– beninteso, non nella lettera ma nello spirito – solo ‘tradiscono’, ed esistono nella necessità che si fa storia. Qualsiasi testo di tradizione del Sacro, si presta di necessità a rientrare nell’una piuttosto che nell’altra categoria, a seconda di come lo si raccoglie
: se nel primo caso la necessità che determina la sua esistenza si scioglierà nel riconoscere la Luce celata dalla sua ombra, nel secondo essa verrà confermata, e il lettore, sarà trascinato passivamente dal libro, come un naufrago sopra un vascello senza vele, in un mare necessariamente sempre più nebbioso.
I Testi sacri, o di tradizione del Sacro, sono essenzialmente super-storici e contingentemente storici: ma lo sono solo in relazione a chi sceglie l’una o l’altra delle due possibili letture². Ma non solo ciò sarà vero a proposito di libri, bensì – anche e soprattutto – per tutto ciò che viene accepito passivamente (ossia trascurando quel germe igneo che è acceso in ogni uomo), insegnamento profano, pratica religiosa o inclinazione personale che sia.
Il testo che qui offriamo al lettore andrà affrontato non senza attenzione a quanto premesso. Esso viene presentato dal suo autore come spunto occasionale, nato in seguito alla composizione di un precedente sermone, sebbene poi il suo argomento si riveli essere direttamente rivolto al nodo centrale dell’esistenza umana, intorno al quale si avviluppa la sua necessità, ossia la morte³.
La morte è figlia della Necessità (perché di necessità si muore)⁴, e le è madre poiché le necessità dell’esistenza (nutrirsi, operare, riprodursi ecc.) sono conseguenza della morte, inflitta come castigo all’Antenato, mercé la sua trasgressione.
Analogamente a ogni tradizione sapienziale (e di riflesso insegnamento religioso), la dottrina cristiana sulla morte, e dunque il punto di partenza di questa riflessione di S. Ambrogio, rievoca la causa primordiale per la quale la morte si introdusse nel mondo, che nel linguaggio mitologico proprio all’ambito dottrinale in cui ci troviamo, è il racconto biblico della caduta di Adamo. In questa narrazione sacra viene richiamata la progressiva perdita di identità tra la creatura e il suo Creatore, progressiva scissione da cui traggono origine la morte e le sue conseguenze: Adamo, in quanto creatura è già morto
, ossia è già parte
⁵, separata per attributi dal Tutto indifferenziato da cui ha origine. Questo Adamo primordiale e androgino è in seguito destinato a essere diviso ulteriormente in maschio e femmina, e infine, a subire l’ulteriore scissione in anima e corpo, ossia «morire ulteriormente», a causa del suo scadere nel conoscere dualistico («mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male» di Genesi 2, 17)⁶, dietro l’illusione (l’avidyâ di cui sopra) di poter tornare in questo modo a essere identico al suo Creatore.
La causa della morte è dunque il conoscere dualistico e il suo esito è la dualizzazione dell’uomo in anima