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Manuale di scienze della religione
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E-book482 pagine5 ore

Manuale di scienze della religione

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Oggi la religione è una realtà troppo complessa per poter pensare che soltanto una disciplina, qualunque sia, possa esaurirla o che il metodo scientifico, per sua natura riduzionistico, sia di per sé sufficiente a darne conto. Il post-modernismo e l’apporto di nuove discipline hanno messo in crisi la distinzione/opposizione tra spiegazione e interpretazione della religione e i dibattiti sul metodo scientifico hanno contribuito a mettere in luce gli elementi di soggettività presenti inevitabilmente nello studio critico della religione. Ma, prima ancora, è radicalmente mutato, nell’ultimo trentennio, il panorama religioso, dominato oggi dal pluralismo e dal ritorno sulla scena pubblica delle religioni. Tutto ciò induce a considerare in modo diverso lo studio scientifico delle Scienze della religione, che costituiscono un campo conoscitivo in movimento e in continua costruzione e ridefinizione. Ecco perché questo manuale presenta, accanto alle discipline tradizionali, eredi delle scienze umane di matrice illuministica (la sociologia, l’antropologia, la psicologia), altre prospettive, come la teologia, la filosofia, le neuroscienze, la geografia, il diritto comparato delle religioni e l’educazione.
Contributi di:
Andrea Aguti (Filosofia della religione); Alberto Anelli (Teologia delle religioni); Mario Aletti (Psicologia della religione); Enrico Comba (Antropologia delle religioni); Valeria Fabretti (Sociologia della religione); Silvio Ferrari (Diritto comparato delle religioni); Giovanni Filoramo (Introduzione allo studio scientifico della religione); Maria Chiara Giorda (Geografia delle religioni); Natale Spineto (Storia delle religioni); Alessandro Saggioro (Educazione e religione); Aldo Natale Terrin (Scienze cognitive della religione e neuroscienze).
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2020
ISBN9788837234300
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    Anteprima del libro

    Manuale di scienze della religione - Giovanni Filoramo

    I

    Introduzione allo studio scientifico della religione

    giovanni filoramo

    1. Una svolta copernicana

    Che cosa può significare oggi uno studio scientifico della religione? La domanda non paia peregrina. Le critiche postmoderne al concetto tradizionale di scienza e ai suoi presupposti di neutralità e oggettività hanno messo in crisi, infatti, il modo in cui, nel corso del Novecento, si era costruito un modello di studio critico e scientifico della religione e delle religioni, fondato sulla avalutatività dello studioso (il cosiddetto ateismo o agnosticismo metodologico) e sul rigore del metodo, ispirato a sua volta, da un lato, al rigore critico della tradizione filologica, dall’altro, ai criteri di ripetibilità e falsificabilità propri del metodo sperimentale. Questo modello stava alla base del concetto di Scienze delle religioni così come si è venuto formando nel corso del Novecento¹, sia che esso si ispirasse alle Sciences Religieuses francesi – che si sono costruite in un regime di progressiva laicità come forma di studio scientifico del fatto religioso, appoggiato e finanziato dallo Stato, in alternativa e in concorrenza con le Scienze religiose teologiche delle Facoltà cattoliche, per trovare una loro prima importante forma istituzionale nella V sezione della École Pratique des Hautes Etudes di Parigi (v. Baubérot 1987 e Langlois 2010) – sia come eredi della Religionswissenschaft tedesca in confronto continuo con le sfide della modernità (v. Kippenberg 2002).

    A prescindere, ora, dai differenti criteri che ispiravano queste due tradizioni di Scienze delle religioni, più improntata la prima allo studio positivo dei fatti religiosi, più incline la seconda a porsi questioni relative al significato e al valore dell’esperienza religiosa, entrambe erano accomunate dall’idea che fosse possibile, nei vari ambiti disciplinari che le costituivano, uno studio critico degli elementi religiosi presi in considerazione in modo distaccato, distinto dal modo in cui a questi stessi fatti si poteva accostare il credente della religione presa in esame o il teologo: un punto di vista esterno, da outsider o etico secondo una distinzione introdotta dagli antropologi, distinto da quello interno, emico, dell’insider. Una metafora pregnante per spiegare questo punto potrebbe essere quella della diagnosi medica. Uno studio scientifico e critico della religione presuppone che lo studioso si ponga nello stesso atteggiamento di un medico nei confronti di un oggetto, la religione, che egli deve guardare con distacco, come una malattia. Così come il paziente si affida al medico per la diagnosi della sua situazione, ugualmente il credente dovrebbe affidarsi allo studioso per comprendere scientificamente la sua religione. Il kit dello studioso, infatti, contiene ciò di cui vi è bisogno per la diagnosi, e cioè, fuor di metafora, per la spiegazione del fatto o dell’esperienza religiosa in questione: le teorie, i metodi interpretativi, la capacità distaccata di analisi, e così via.

    Anche se questa posizione tipicamente funzionalistica – si tratta di spiegare la religione, riconducendola e riducendola a fattori esplicativi ad essa esterni, e non di comprenderla dal proprio interno, nel suo significato profondo – ha conosciuto nel corso del Novecento critiche continue, soprattutto da parte dei difensori di un approccio ermeneutico, nel complesso essa è rimasta dominante, a caratterizzare e definire la dimensione scientifica dello studio della religione. Contro coloro che pretendono che la religione vada spiegata religiosamente, non riducendola a qualcosa d’altro, i sostenitori della posizione funzionalista ribattono che la ricerca del sacro o di Dio è il fenomeno che deve essere spiegato, non la stessa spiegazione. Come si è ricordato all’inizio, però, questo predominio è stato messo radicalmente in crisi dal decostruzionismo che, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, dai cultural studies ha progressivamente invaso anche il campo degli Studi religiosi.

    Al centro di questa svolta, che è epistemologica prima che metodologica², sta il cosiddetto reflexive turn, che ha portato a privilegiare le pratiche discorsive nei confronti della possibilità di studio oggettivo (e dunque scientifico) dell’oggetto religione. Questo nuovo paradigma interpretativo invita il ricercatore a spostare il suo sguardo dall’oggetto religioso – che il vecchio paradigma considerava come un fatto o una realtà al di fuori dell’osservatore – al modo in cui esso sarebbe stato, in realtà, costruito dallo stesso studioso. Lo specchio della riflessività va volto dall’esterno – tentativo di cogliere qualche riflesso della realtà esterna allo studioso – all’interno: il ricercatore è parte del proprio tentativo di cogliere l’oggetto esterno. La sua soggettività, di conseguenza, a differenza di quanto aveva luogo nel modello precedente, non può essere messa, se pur temporaneamente, da parte (la cosiddetta epoché o sospensione del giudizio tipica del metodo scientifico tradizionale), perché essa è continuamente implicata nella costruzione dell’oggetto religioso. Il quale, in questa prospettiva, perde di realtà e consistenza: invece di chiedersi che tipo di rappresentazione è resa possibile dall’oggetto religione che dovrebbe trovarsi nel mondo dei realia esterno a noi, lo studioso, presa consapevolezza che la religione che indaga è soltanto l’effetto dei suoi processi mentali e costruttivi, deve prima di tutto imparare a fare i conti con le pratiche discorsive e gli interessi materiali che hanno portato alla formazione (per alcuni, la manifattura) della religione in oggetto. Di qui il ricorso a una panoplia di metodi decostruttivi, dalla genealogia all’archeologia, tutti accomunati dallo sforzo di ricostruire le particolari lenti che hanno portato alla formazione dell’oggetto religione indagato. È evidente che, in tale prospettiva, la tradizionale dimensione scientifica sopra ricordata perde ogni importanza, lasciando il posto alla sovranità illimitata dell’interprete di turno.

    Esamineremo in un prossimo paragrafo le conseguenze, non da poco, di questa svolta. Quel che ora preme sottolineare è il fatto che essa ha inevitabilmente contribuito a mettere in crisi il concetto tradizionale di Scienze delle religioni con la sua concezione di scienza, a favore del fiorire dei Religious Studies.

    2. Fortune e sfortune dei Religious Studies

    Religious Studies è un’espressione entrata nel linguaggio scientifico anglofono a partire dalla fine degli anni ’60. Essa rifletteva una situazione in mutamento, che comprendeva, come elementi del cocktail (le dosi variavano a seconda dei gusti), un po’ di studi storici, una pratica comparativa, almeno un terzo di scienze sociali (antropologia, psicologia, sociologia della religione). Per dar gusto a questi vari elementi e irrobustire il profilo riflessivo, alla fine si poteva aggiungere un tocco di filosofia della religione (all’epoca, in Inghilterra, la dominante filosofia analitica; ma anche la tradizione ermeneutica continentale poteva andare bene).

    Soltanto col tempo questa disciplina si è impiantata dapprima in dipartimenti inglesi, ad esempio a Lancaster, da cui studiosi come Ninian Smart (Smart 1973) l’hanno poi esportata nei dipartimenti nordamericani. Il primo a fornire un testo fondativo serio di riferimento è stato Walter Capps con un lavoro del 1995 dal titolo programmatico Religious Studies: The Making of a Discipline (Capps 1995). Ad avviso di Capps, i Religious Studies, a partire dalla loro matrice illuministica, pur con differenti prospettive metodologiche, hanno perseguito un tema di fondo il cui sviluppo e la cui articolazione possono essere accostati e seguiti come una narrativa continua che dà a questa disciplina la sua unità: ricercare l’intelligibilità del fatto religioso. Di qui la natura di disciplina intellettuale dei Religious Studies, costruita sulle domande di fondo, che le varie prospettive metodologiche che la costituiscono perseguono: che cosa è la religione? Come si è formata? Come deve essere descritta? Quali sono il suo scopo e la sua funzione? Questi interrogativi giustificano il fatto di poter riunire sotto la dizione di Religious Studies, intesi come una vera e propria disciplina, dotata di conseguenza di un proprio metodo ed oggetto, prospettive metodologiche diverse come la sociologia, l’antropologia, la psicologia, che si interessano all’indagine scientifica della religione.

    Nonostante gli sforzi di Capps per fare dei Religious Studies una vera e propria nuova disciplina con un suo metodo e un suo oggetto, priva di legami con la teologia, è bastata una disamina più in profondità della sua impostazione per far emergere una serie di problemi di fondo, che non hanno arrestato il successo di questa denominazione, ma hanno comunque contribuito a una presa di distanza critica che ha sollevato tutta una serie di questioni. I Religious Studies costituiscono una disciplina autonoma oppure un campo di studi che comprende discipline diverse ciascuna con un proprio metodo? Posseggono di conseguenza, come riteneva Capps, un proprio specifico oggetto e metodi altrettanto specifici per indagarlo oppure i Religious Studies sono un’area di studi che riunisce le differenti discipline che si occupano, ognuna dal proprio particolare punto di vista, della religione? Ma in questo secondo caso, che cosa le tiene unite in assenza di un metodo comune? La loro prospettiva è quella dell’insider o, al contrario, quella dell’outsider? E come si pongono nei confronti dell’oggetto di studio, la religione?

    Di fronte a quest’ultimo interrogativo, se si guarda alla dominante letteratura manualistica anglofona di questi ultimi anni, sembra di assistere al ritorno di un antico revenant, un fantasma che sembrava ormai chiuso nei depositi del passato: la disputa medievale sugli universali tra nominalisti e realisti (Schilbrack 2018). Da un lato, troviamo la posizione di chi, portando alle estreme conseguenze il reflexive turn, ritiene che il metodo e l’oggetto dei Religious Studies si debbano adeguare. Non esistendo una religione in re, nella realtà al di fuori del soggetto, ma soltanto la religione esito della sua costruzione mentale e dei suoi condizionamenti culturali e politici, compito dei Religious Studies è ricostruire, dal maggior numero possibile di prospettive (postcoloniali, di genere…), il modo in cui la ragione egemone occidentale ha preteso di cogliere un’Alterità religiosa che, in quanto tale, non esiste perché frutto delle sue proiezioni e dei suoi desideri³. Dall’altro lato, troviamo la posizione di chi, pur accettando di passare attraverso la cruna del reflexive turn, continua a pensare che i fenomeni religiosi studiati, per quanto distorti dalle proprie categorie, continuino ad esistere come istituzioni, pratiche, sistemi di credenze indipendentemente dallo studioso, che dunque si deve sforzare di renderne ragione nel modo più critico e condivisibile⁴. In altri termini, pur riconoscendo l’inevitabile dimensione ideologica dell’oggetto religione, senza spingersi fino agli eccessi e agli esiti solipsistici di chi decide di percorrere fino in fondo il cammino aperto dal reflexive turn, chi si riconosce nella seconda prospettiva ritiene che la religione non sia soltanto una costruzione mentale dello studioso, ma rimandi a una realtà sociale e culturale a lui esterna, con cui egli deve cercare di fare i conti nel modo più adeguato, e cioè critico e scientifico.

    Le diatribe tra nominalisti e realisti di questi ultimi vent’anni non hanno impedito ai Religious Studies di fiorire nelle università soprattutto d’oltreoceano, come dimostra l’ampia manualistica che li riguarda e che è cresciuta in modo esponenziale a partire dal pionieristico lavoro di Capps (v. ad es. Connolly 1999; Alles 2008; Segal 2009; Orsi 2011; Chryssides - Geaves 2012; Ellwood 2016). Si è venuto così creando un campo complesso e articolato, in cui non è facile orientarsi, dal momento che, come si è visto, non esiste un’unità di metodo e, di conseguenza, di oggetto. Che essi siano una disciplina o, piuttosto, un campo o un’area disciplinare, un criterio orientativo di fondo rimane anche oggi quello classico: come si rapportano rispetto al problema della scientificità? Prevale in essi la ricerca critica, scientifica e cognitiva – che ha tradizionalmente per fine il perseguimento, per quanto possibile, di una determinata verità scientifica – o il problema del significato e del valore dell’esperienza religiosa indagata? Nel primo caso avremmo degli Studi religiosi accomunati dallo scopo di indagare col metodo scientifico più adeguato le varie dimensioni della religione, senza altri fini etici o educativi o esperienziali: la ricerca fine a se stessa. Nel secondo caso, l’insieme delle discipline che vanno a formare il campo o area disciplinare dei Religious Studies non si limita a perseguire puri scopi di ricerca, dal momento che la realtà della religione è troppo ricca e vitale per essere trattata in modo anatomico e diagnostico (per rimanere all’immagine medica prima ricordata).

    Per orientarsi in questo mondo in crescita, in cui è facile perdersi, lo storico canadese Donald Wiebe ha proposto un’utile tipologia (Wiebe 2005), caratterizzata dal criterio della progressiva presa di distanza di questi studi dalla loro matrice teologica. Come designazione di un particolare tipo di studio della religione, nei college e nei dipartimenti americani Religious Studies è usato con riferimento a quattro distinti tipi di attività intellettuale.

    Nel primo caso, essi sono una versione, più o meno riuscita o camuffata, degli studi teologici. Ritorneremo, in un prossimo paragrafo, su questo aspetto, decisivo, del rapporto degli Studi religiosi con la teologia o, meglio, con le scienze teologiche. Per ora basterà limitarsi ad osservare che, in questo caso, si parte da un tipico presupposto postmoderno. I vari studiosi che si identificano in questa posizione ritengono che, alla luce delle critiche portate al concetto di scienza e del fatto che non esiste più uno studio neutrale, come presupponeva l’approccio scientifico moderno, la teologia non può essere esclusa dal campo degli Studi religiosi: una concezione postmoderna ammette, infatti, uno spettro di attività intellettuali ben più ampio del vecchio concetto moderno di scienza. Conclusione: se l’espressione non deve rimandare a un semplice assemblaggio di molteplici punti di vista disciplinari e metodologici, ma essere focalizzata sulla questione fondamentale del significato e della verità della religione in quanto esperienza umana fondamentale, allora la dimensione filosofico-teologica non può più essere accantonata. Qualcuno al proposito ha osservato che, in questo modo, alcuni teologi postmoderni hanno trasformato le critiche decostruzioniste alla ragione moderna e al suo concetto di scienza in un possibile biglietto d’ingresso per rientrare nella corporazione degli studiosi della religione da cui erano stati esclusi.

    Il secondo tipo è quello degli Studi religiosi come mezzo per l’educazione religiosa. In questo caso, lo scopo primario degli Studi religiosi non è quello di cercare la spiegazione dei fatti religiosi o una giustificazione metafisica e ontologica per la religione, ma piuttosto quello di mirare a una ‘comprensione esistenziale’ dell’esperienza religiosa. A differenza del primo tipo, che persegue, comunque, lo scopo di una giustificazione ‘scientifica’ della propria posizione di fede, in questo secondo caso si mirerebbe a un fine genericamente umanistico: formare una persona integrale, un tipo di formazione che non può prescindere dallo studio della religione. Si può aggiungere che questa posizione riprende, in fondo, e valorizza la stessa funzione educativa della religione, una funzione importante ma spesso misconosciuta. Questo secondo tipo, ad alto valore educativo, andrebbe più appropriatamente definito Religion Studies, e distinto dai Religious Studies come studio puramente scientifico.

    Il terzo tipo di Religious Studies, in cui si identifica lo stesso Wiebe, è quello che considera gli Studi religiosi come una pura impresa scientifica. Wiebe definisce impresa ogni impegno organizzativo a fini conoscitivi di ampiezza e durata sufficientemente ampi per permettere a chi vi partecipa di derivarne una qualche forma di identità. Per scientifico deve intendersi, invece, un’impresa «caratterizzata soprattutto da un’intenzione cognitiva, che dà per scontato che le scienze naturali e sociali sono gli unici modelli legittimi per lo studio oggettivo della religione» (Wiebe 2005, p. 119). Il focus cognitivo distingue questo tipo dai due precedenti Non che essi rigettino l’approccio scientifico, ma lo subordinano ai loro scopi, confessionali o educativi. Si tratta di imprese di genere misto, che mescolano fini scientifici ed extrascientifici. Gli Studi religiosi come studio naturalistico della religione sono polimetodici e multidisciplinari; per Wiebe, essi non costituiscono una disciplina a parte ma «una rubrica generale per lo studio empirico e scientifico della religione».

    Il quarto tipo, pur sposando il principio scientifico del terzo, ritiene che gli Studi religiosi, in quanto disciplina scientifica, abbiano bisogno di un principio unificante che garantisca la coerenza metodologica e la genuina complementarità tra i vari punti di vista. Questo fattore unificante è dato dalla teoria interpretativa, che può naturalmente variare, ma rimane il collante necessario perché si possa parlare di Religious Studies come disciplina scientifica.

    3. Religious Studies e Scienze della religione

    La tipologia di Wiebe, pur con tutti i suoi limiti – non prende, ad esempio, in debita considerazione il ruolo centrale della storia comparata delle religioni, privilegiando lo studio del presente a scapito del passato religioso dell’umanità – vale, come egli esplicitamente dichiara, in particolare per la situazione nordamericana. Ma i Religious Studies sono diventati ormai un’impresa globale (Alles 2008), complicando ulteriormente il quadro nella misura in cui questo destino globale, dall’Europa all’Asia alle Americhe, finisce inevitabilmente per intrecciarsi con specifiche storie nazionali, ognuna con la sua identità culturale. Un riflesso di questa situazione si ha a livello delle grandi organizzazioni come la International Association for the History of Religions (IAHR), che riuni­sce le associazioni nazionali che si occupano di questi studi. Ogni cinque anni, in occasione dei suoi congressi internazionali (preparati da lunghe discussioni nelle riunioni preliminari del Comitato direttivo), si assiste al tentativo di cambiare il nome dell’associazione, privilegiando, al posto di Storia delle religioni, quello appunto di Religious Studies nelle sue varie e possibili declinazioni⁵. Non è ora il caso di entrare nel labirinto di questi dibattiti. Il punto che ci deve interessare è un altro.

    I sostenitori del passaggio alla denominazione di Religious Studies hanno dalla loro un argomento forte, che in parte dovrebbe essere già emerso da quanto precede. In una prospettiva globale, per un complesso di motivi che ora non possono essere approfonditi e tra cui un posto non secondario hanno motivi pratici di finanziamenti pubblici e privati delle varie istituzioni di ricerca, la prospettiva tradizionale europea di privilegiare la Storia comparata delle religioni come asse intorno a cui far ruotare le altre discipline che si interessano allo studio della religione e delle religioni, ha progressivamente e inevitabilmente perso d’importanza: l’asse orizzontale, legato al contemporaneo, ha di fatto prevalso sull’asse verticale, di tipo documentario e storico-filologico. Il ritorno di interesse, per i più svariati motivi, nei confronti della religione e delle religioni nel mondo contemporaneo ha poi favorito il moltiplicarsi delle attenzioni di un numero crescente di discipline per lo studio della situazione religiosa attuale, a discapito della tradizionale prospettiva storica a lungo dominante in Occidente.

    Si aggiunga a tutto ciò un ulteriore elemento pratico. Oggi la ricerca internazionale più avanzata e fruttuosa, anche in questo campo di studi, un tempo dominio di grandi viaggiatori solitari, è opera collettiva di team di ricerca che lavorano su progetti pluriennali con finanziamenti adeguati e coinvolgendo specialisti, giovani e meno giovani, su di un piano non locale ma internazionale. La globalizzazione ha contribuito, a suo modo, a cambiare profondamente le regole del gioco. L’internazionalizzazione della ricerca costituisce un indubbio guadagno rispetto al passato, non soltanto dal punto di vista dei mezzi messi a disposizione. Ciò comporta inevitabilmente una maggiore apertura a prospettive e metodi di lavoro diversi, che devono imparare a confrontarsi e dialogare nel rispetto reciproco. Ma sotto quale egida?

    Quella di Storia comparata delle religioni è diventata, a parere di chi scrive, una veste troppo stretta per poter abbracciare un campo disciplinare in crescita esponenziale come quello dei Religious Studies. Piaccia o non piaccia, molte (se non la maggior parte delle discipline che oggi si occupano di studiare la religione) vedono nella storia più un impedimento che un aiuto e, comunque, la dimensione storica non è al centro dei loro interessi. Volendo trovare un denominatore comune per quest’area in fermento, occorrerà dunque rivolgersi altrove.

    Come si è visto nel paragrafo precedente, l’etichetta di Religious Studies, pur vincente sul piano pratico, presenta su quello metodologico più problemi di quanti ne risolva. Mi limito a quello che a me appare il principale. Se i Religious Studies sono quell’area di studio dove si possono confrontare i vari approcci interessati ai fatti religiosi, e se nel contempo, a differenza che in un approccio religionistico, la religione è studiata non in sé ma in funzione di altri aspetti della cultura, su che base stabilire delle linee di confine? Non si rischia una babele di linguaggi, oltre che di metodi? Un esempio di questa posizione si può ritrovare in quanto scrive Robert A. Segal, nella introduzione all’importante The Blackwell Companion to the Study of Religion da lui curato:

    «A mio avviso, gli Studi religiosi sono una materia di studio aperta a tutti quegli approcci che sono disposti a studiarla. Per un verso, è verisimile che nessuno di questi approcci sia in grado di esaurire il soggetto; per un altro, non tutti gli approcci in questione sono compatibili tra di loro. Ciò che importa è che l’oggetto di studio – la religione – sia collegata con il resto della vita umana – con la cultura, la società, la mente, l’economia – piuttosto che separata da essa, come fanno con i loro muri difensivi i religionisti. Essi ritengono che la religione sia ciò che rimane in piedi dopo che ogni cosa con cui la religione potrebbe essere collegata è stata eliminata. Per me, invece, la religione viene interpretata al meglio nella misura in cui la si connette per quanto possibile alla vita umana. Contrariamente a quanto ritengono i religionisti, la religione non deve di conseguenza perdere la sua specificità; piuttosto, essa diventa una parte specifica e irriducibile degli altri settori della vita» (Segal 2009, XVII-XVIII).

    L’arbitrarietà, in questo caso, regna sovrana. Se la religione va studiata in funzione dei vari aspetti della realtà umana, come sarà possibile coglierne la specificità? Che cosa distinguerà uno studio storico-critico di un documento religioso da una lettura di critica letteraria? Non si rischia, senza principi ordinativi, una monadologia e, dunque, una incomunicabilità metodologica? Se i Religious Studies non hanno un metodo proprio, che cosa alla fine li unisce?

    Di fronte a questa situazione, la mia proposta, che accogliamo in questo volume, è di ritornare ad utilizzare la categoria tradizionale di Scienze delle religioni, ma con alcune precisazioni che tengano conto – rispetto al lavoro in comune fatto con Carlo Prandi nell’ormai lontano 1987 (Filoramo - Prandi 1987) – dei cambiamenti nel frattempo intervenuti. La prima concerne l’oggetto di indagine, che diventa, dopo il reflexive turn, inevitabilmente la religione, comunque definita⁶. Parlare di Scienze delle religioni presuppone che non esista, o sia comunque marginale, il problema di come si costruisce il concetto di religione che sta poi alla base delle differenti religioni. Una scienza della religione al passo coi tempi non può più dare per scontato questo problema: come abbiamo visto in un precedente paragrafo analizzando la disputa tra nominalisti e realisti, a seconda di come lo si imposta, le conseguenze che ne discendono per uno studio empirico delle differenti tradizioni religiose sono profondamente diverse⁷. Se si accetta, come a me pare, una posizione realista, ne consegue che queste Scienze della religione devono porsi il problema della loro natura: se vera e propria disciplina o, piuttosto, area disciplinare, evitando nel contempo il pericolo di una babele metodologica. Basterà scorrere i contributi raccolti in questo volume, esemplificativi di un ampio spettro di discipline che, con i propri metodi, indagano la religione, per rendersi subito conto che l’idea di Scienze della religione soggiacente a questo manuale non è quella di una vera e propria disciplina, dotata di conseguenza di un metodo specifico, ma piuttosto di una forma di conoscenza, di un campo conoscitivo di tipo cumulativo. Secondo questa prospettiva, le Scienze della religione sono un campo disciplinare, che mira a riunire sotto l’egida di un metodo scientifico riflessivo, le varie discipline che indagano, ciascuna con un proprio metodo particolare, la religione e le religioni. Questa impostazione riflessiva privilegia, nello studio della religione, i problemi teorici e metodologici relativi ai presupposti dello studio della religione per favorire e approfondire l’inevitabile confronto interdisciplinare e impedire che le varie discipline agiscano come monadi, senza comunicare e confrontarsi.

    Ma quali discipline far salire su questo treno e quali escludere? E perché? Una volta riconosciuto in teoria che il campo delle Scienze della religione comprende tutte quelle discipline che se ne occupano secondo un metodo ritenuto scientifico, l’elenco tende ad allungarsi all’infinito. Accanto a quelle tradizionali, che hanno contribuito nel corso del Novecento a costituire questo campo disciplinare, come la storia delle religioni, da un lato, e varie scienze umane (sociologia, psicologia, antropologia), dall’altro, molte sono le discipline che oggi si occupano di religione. Con un distinguo importante, però: la religione può essere un oggetto specifico e centrale di attenzione – e richiedere, di conseguenza, l’adattamento del metodo in questione al particolare oggetto fino a portare (in alcuni casi) sul piano accademico, alla istituzione di discipline specifiche, come la sociologia della religione, la psicologia della religione l’antropologia della religione o il diritto comparato delle religioni – o, invece, può costituire un interesse occasionale ed episodico, come può avvenire in varie discipline, dall’archeologia alla letteratura, dalla storia dell’arte alla statistica, e così via. Nella scelta operata in questo manuale, di conseguenza, accanto a Scienze delle religioni ormai accreditate anche sul piano accademico, come gli studi sociologici, psicologici e antropologici relativi alla religione, si è deciso di inserire altre discipline che in questi ultimi anni hanno dimostrato un interesse centrale per lo studio della religione, contribuendo con le loro peculiari prospettive in modo significativo sia al dibattito teorico sulla natura della religione sia allo studio concreto del suo ruolo in un mondo globalizzato e pluralistico: il diritto comparato delle religioni, le neuroscienze e la geografia delle religioni. Quanto alla filosofia della religione e al capitolo relativo a educazione e religione, il loro inserimento si spiega, da un lato, per il contributo fondamentale che la filosofia della religione contemporanea può dare a una serie di problemi teorici ed epistemologici centrali per l’autocoscienza di una scienza della religione riflessiva, dall’altro, per la centralità che l’impresa educativa ormai riveste nelle varie situazioni nazionali, a cominciare dall’Italia e dalla sua peculiare situazione. E la teologia? Come si giustifica l’inserimento, nel manuale, di una disciplina o di un gruppo di discipline, le scienze teologiche, che tradizionalmente vengono escluse dalle Scienze delle religioni per la loro posizione confessionale? Non è, quello del teologo, un tipico punto di vista interno, dal momento che egli pone, e non può non porre, rispetto alla religione che indaga, domande di verità sia perché appartiene in genere alla tradizione con cui si confronta sia perché le spiegazioni che propone devono comunque fare i conti con una verità accettata per fede e non conseguita razionalmente? Non è la teologia, come osserva Flood (Flood 2009, pp. 19-20), «un tipo di scrittura sulla religione nella quale non vi è separazione tra il discorso e il suo oggetto […]. La teologia è un discorso riflessivo, un discorso su qualcosa di cui essa stessa è parte»? È possibile, ed eventualmente come, uscire da questo circolo vizioso? Il problema è complesso e i lettori non me ne vorranno se gli dedicherò lo spazio che merita.

    4. Teologia e Scienze della religione

    Una premessa è d’obbligo. Quando di seguito ci riferiamo per semplicità alla teologia, implicito è che stiamo parlando di teologia cristiana: la teologia, così come si è venuta costruendo nella storia del pensiero cristiano come riflessione razionale e sistematica sul divino, storicamente è un unicum, che può solo con grande difficoltà essere esteso a religioni, pur affini, come il giudaismo (al cui proposito sarebbe meglio parlare di pensiero religioso) o all’islam (la cui teologia è oggetto di discussioni all’interno ma anche tra gli studiosi), mentre sarebbe da escludere un suo uso per altre religioni come l’induismo o il buddhismo.

    La distinzione tra studio scientifico della religione e studio teologico è l’esito di un processo che, in Occidente, inizia con l’Illuminismo, prosegue durante l’Ottocento e il Novecento con la secolarizzazione e con l’affermazione dei principi di laicità dello studio e di libertà di ricerca dello studioso da ogni vincolo confessionale. La globalizzazione e il conseguente pluralismo hanno eroso più o meno profondamente questa posizione etnocentrica, costruita intorno a una concezione particolare dell’individuo liberale e della sua ragione come metro unico e assoluto di giudizio. Ci si è dovuti così rendere conto che quelli che per la nostra tradizione di studi parevano punti oggettivi e irrinunciabili, considerati dal punto di vista dell’Alterità religiosa apparivano altrettanto storicamente condizionati e relativi. Si pensi al senso profondamente diverso che la stessa espressione Studi religiosi può assumere in diversi Paesi islamici: da un lato, in Egitto, tende a coincidere con gli studi della tradizione islamica, dall’altro, in Turchia, è più influenzata dai modelli secolari europei e incline, almeno in certi casi e fino ad anni recenti, a promuovere anche uno studio tradizionalmente scientifico (in genere delle altre religioni). Diversa, ma non meno complessa, è la situazione di Paesi come l’India, dove – nessuno può negarlo – si pratica da secoli uno studio delle tradizioni religiose indigene. Eppure, a tutt’oggi, una prospettiva tradizionale di storia comparata delle religioni ha avuto molte difficoltà ad attecchire perché considerata una potenziale minaccia ad un tipo di studio che rifiuta o si mostra indifferente di fronte alla pretesa di neutralità e oggettività dello studioso. Il discorso potrebbe estendersi senza difficoltà ad altri Paesi dell’Estremo Oriente e, più in generale, a quelle tradizioni culturali, pur interessate a uno studio della religione, che non hanno conosciuto l’esperienza europea della secolarizzazione e della separazione tra Stato e Chiesa e, di conseguenza, ignorano le battaglie in difesa della laicità (o contro). Esse vedono l’impostazione scientifica a noi familiare come un tipico prodotto coloniale di una cultura atea, portata in questo modo a minacciare l’identità stessa del Paese,

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