Sempre daccapo: Globalizzazione, socialismo, cristianesimo
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Anteprima del libro
Sempre daccapo - Fausto Bertinotti
ultime
Prefazione
del Card. Gianfranco Ravasi
Forse il lettore di queste pagine si sorprenderà incontrando la firma di un Cardinale di Santa Romana Chiesa sulle soglie di un testo che vede come protagonista una figura dalla esplicita e riconosciuta appartenenza politica e culturale com’è l’on. Fausto Bertinotti. In realtà la sorpresa si affievolirà quanto più si procederà nella lettura di questa intervista: essa, infatti, si trasforma progressivamente in una straordinaria testimonianza di analisi e di ricerca, rivelandosi come un vero e proprio itinerario personale, intellettuale e persino spirituale nel quale si riflettono anche le mille iridescenze dei decenni che abbiamo vissuto e del tempo in cui siamo immersi e nel quale faticosamente navighiamo.
A giustificare la mia presenza c’è un ulteriore elemento legato a un antefatto che tocca la mia stessa persona. Non posso certamente vantare un’assuefazione dialogica con Bertinotti: la mia è, come per molti lettori, una conoscenza legata alla sua esperienza pubblica, politica, sociale e culturale, che l’ha reso spesso un protagonista della vita del nostro paese e della stessa Europa, conducendolo a rivestire importanti cariche istituzionali. Tuttavia devo confessare che, sia seguendo alcuni suoi scritti o interventi, sia incrociandolo in brevi incontri casuali (soprattutto negli aeroporti), avevo potuto subito intrecciare con lui un implicito e intenso confronto, capace di invadere campi ardui, anche teologici, ove il mio interlocutore rivelava un’inattesa capacità di scavo. Credo, infatti, sia riconosciuto da tutti che a Fausto Bertinotti non possa essere applicata quella classificazione della politica elaborata da Robert Stevenson – sì, il creatore del dottor Jeckyll e di Mister Hyde – secondo il quale «la politica è forse l’unica professione per la quale non si considera necessaria alcuna preparazione specifica».
Definizione che, purtroppo, è invece di facile applicazione in molti casi. Il libro che ora si apre davanti a noi è proprio una vigorosa smentita di questo sconfortante asserto. Per continuare questa mia testimonianza personale – ogni prefazione, peraltro, suppone una dimensione soggettiva o di affinità elettiva, sia pure dialettica – devo anche ricordare che un paio di editori italiani tra i maggiori avevano in passato insistito perché si attuasse proprio ciò che si compie in questo volume. Si voleva appunto che Bertinotti e io ci trovassimo insieme ponendo sul tavolo della discussione le nostre differenze e consonanze, in una sorta di ristretto Cortile dei Gentili
, lo spazio del dialogo tra credenti e non credenti, modellato simbolicamente sull’atrio riservato all’accesso dei pagani nel tempio erodiano di Gerusalemme.
Quell’incontro, non realizzato puramente per ragioni estrinseche, si compie ora in forma diversa: la mia è la posizione dell’ascoltatore-lettore che assiste a un contrappunto fatto di domande molto incisive e acute (Oscar Wilde era convinto che le risposte fossero facili, mentre per fare le vere domande bisogna essere geniali), e che è coinvolto in un discorso denso e suggestivo. Esso è veramente un lógos, cioè l’elaborazione fondata e articolata di una concezione dell’essere e dell’esistere. Un lógos così ricco e completo da assumere la qualità quasi di un testamento
morale e intellettuale (Bertinotti, al quale auguro ancora lunghi giorni, mi perdonerà il ricorso a questo particolare genere letterario).
Infatti si intuisce nelle sue parole una sorta di spremuta
di una storia densa di eventi e di vicende non di rado tormentate, il cui esito si trasforma in lezione, decespugliata però da ogni retorica, apologia, celebrazione. A questa ampia rivisitazione storico-tematica di un’epoca pubblica e di un’esperienza personale mi sembra s’adatti quanto scriveva Proust nel secondo tomo di quella sterminata saga che è la Ricerca del tempo perduto: «La saggezza non la si riceve: bisogna scoprirla da sé in un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci, perché è un modo di vedere la realtà» (così nell’opera All’ombra delle fanciulle in fiore).
* * *
Come è risaputo, una prefazione non è però solo un accostamento soggettivo, fatto di vicinanze, sintonie, intese o eventuali divergenze, dissonanze, controcanti; è anche un proposta oggettiva
di interpretazione del testo. La moderna critica letteraria, d’altronde, ci ha ripetutamente allertato sul rilievo del Lettore accanto alla figura dell’Autore. E l’autore Bertinotti propone alla reazione dei suoi lettori, nella tetralogia di questa intervista, una vera e propria mappa ideale i cui quattro punti cardinali procedono dall’universale al particolare, dalle grandi sfide planetarie alle domande intime che artigliano la sua coscienza. La metafora generale potrebbe essere proprio quella dell’itinerarium mentis che, attraverso un processo di esegesi
storica, approda a una serie di domande estreme e radicali che rimangono apparentemente aperte e sospese perché ad esse Bertinotti confessa di non poter e sapere rispondere pienamente: Chi sono? Che valore hanno la vita e la storia umana? Da dove vengo e dove vado?
Applicando una distinzione categoriale adottata dal teologo martire sotto il nazismo Dietrich Bonhoeffer, sia pure con altre finalità, ci si interroga innanzitutto sulle questioni penultime
storiche, la cui decifrazione è più agevole anche se non mai esaustiva e univoca. Ci si inerpica poi sull’erta scoscesa e irta di intoppi delle interrogazioni ultime
escatologiche, e lassù l’orizzonte si rivela talora accecante, ma non del tutto impermeabile allo sguardo.
In questo itinerario Bertinotti avanza con un’attrezzatura molto qualificata che certamente rimanda alla sua matrice ideale che attinge a Marx, Engels, Feuerbach, Gramsci, Luxemburg, Bloch e così via, riletti con acutezza e con una libertà spoglia da dogmatismi. Tuttavia egli prosegue il suo cammino anche con altre guide, dall’amato Benjamin a Buber e Bauman, da Croce a Heidegger, per accompagnarsi poi in modo inatteso a Giovanni Paolo II, a Benedetto XVI e a papa Francesco o al cardinale Michele Pellegrino, ascendendo fino al prediletto apostolo Paolo la cui concezione politica
viene perlustrata alla luce dell’originalissimo vaglio proposto da Jacob Taubes. Una strumentazione ermeneutica che rivela, quindi, un approccio raffinato, penetrante, persino acuminato, ben lontano da certi stereotipi o banalità che purtroppo dominano non solo nella classe politica ma anche nella temperie generale attuale.
Il punto di partenza è quasi obbligato, è l’affacciarsi sulle sfide del nostro tempo con la consapevolezza dei successi ma anche delle sconfitte e dei fallimenti che l’umanità ha registrato nel Novecento. Il panorama postmoderno si rivela frastagliato e problematico: la globalizzazione ha aperto le porte a un capitalismo sfrenato, a un internet sovrano, a un’omologazione tra interessi e fini, persino a un rischioso post-umanesimo che con la scienza cerca di reinventare il fenotipo antropologico, a una politica non più sociale ma arroccata nell’autoreferenzialità. La lista potrebbe allungarsi ma non deve cedere alla mera querimonia. L’autore, infatti, balza in scena col desiderio di proporre «il tempo della semina» o, se si vuole, l’impegno della traduzione
che l’Europa, con la sua imponente eredità culturale e storica, dovrebbe assumere per un confronto fervido di civiltà e di società differenti.
* * *
Come è evidente, questa stagione auspicata deve inalberare il vessillo del dialogo sia interno tra i sistemi che hanno alimentato la modernità europea, sia esterno con le nuove e inedite tipologie che s’affacciano all’orizzonte. E qui Bertinotti, memore della sua storia personale, riesamina la ben nota tesi della terza via
al socialismo. Questo secondo punto cardinale – che tiene conto delle crisi dei vari modelli e dell’insorgere di un panorama dalla complessa decifrazione, i cui epicentri si stanno spostando da New York a Pechino o New Delhi – è oggetto di un’appassionata analisi dalle molteplici sfumature.
Il lettore sarà condotto lungo svariati e variegati sentieri che aprono squarci su settori tradizionali e su ambiti ancora oscuri. Le questioni si annodano a grappolo, le soluzioni proposte alternano chiarore e incertezze, il coinvolgimento della religione è necessario ma delicato nei suoi equilibri. Mi sembrava, leggendo le pagine dedicate a questa via
, scandita tra l’altro da rimandi scoppiettanti alla profezia ebraica e alla figura di Cristo, di sentire la considerazione che Ernst Troeltsch svolgeva proprio agli esordi della secolarizzazione: «I seguaci del cristianesimo devono imparare a considerare il mondo moderno come uscito e allevato proprio da esso; e i suoi nemici devono rendersi conto che, se è possibile sradicare il cristianesimo da singoli momenti, non è mai possibile sradicarlo da una inesistente totalità del mondo moderno».
Si è, così, condotti al terzo asse della mappa che regge il viaggio proposto da Bertinotti, il confronto tra socialismo e cristianesimo. Il capitolo è aperto dall’ingresso in scena di papa Francesco ma anche da un rimando forte a s. Giovanni Paolo II. Molte sono le implicazioni derivanti: esse vedono in Bertinotti un appassionato lettore delle Scritture cristiane ma anche dei testi del magistero ecclesiale. Certo, la sua è un’angolatura specifica, così come lo sono l’approccio e la finalità. È in tale luce che questa sezione del libro può trasformarsi in una base per un ideale Cortile dei Gentili
su fede e politica, nella consapevolezza affermata della fecondità
di un’«immissione nella politica di un’interrogazione […] che proviene da un’altra dimensione».
Il ventaglio tematico che si apre è vasto e ammette un raffronto serrato. Il nodo che lo regge è radicale perché attinge alla duplice natura di Cristo che Bertinotti fa emergere nella