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Studium - Carcere e Cultura
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E-book293 pagine3 ore

Studium - Carcere e Cultura

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Info su questo ebook

Ogni ipotesi legislativa in funzione di una società più giusta deve riflettere, per poter intervenire efficacemente in un’opera di riforma, sulle istituzioni detentive e sul sistema penitenziario nel suo complesso. Con una attenzione costante agli uomini e alle donne che vi operano, dalle persone detenute agli agenti della polizia penitenziaria, al direttivo, agli educatori e ai volontari. Questa sezione monografica vuole porre all’attenzione l’esperienza di studio e di attività culturale di alcuni docenti e tutor dell’Università di Roma Tor Vergata che tende a rendere protagonista della propria rieducazione il condannato, che deve riappropriarsi in maniera consapevole dei valori di legalità attraverso una progressiva responsabilizzazione. Un’ipotesi che si scontra con diffidenze, inciampi burocratici, sovraffollamento da una parte, mancanza di personale specializzato dall’altra che grippano i meccanismi di un girone che quotidianamente rischia di trasformarsi, o rimanere, quell’inferno dove il crimine (e la recidiva, ovvero la reiterazione dei crimini dopo un periodo di detenzione) prospera e si alimenta.
 
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2017
ISBN9788838245312
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    Anteprima del libro

    Studium - Carcere e Cultura - Daniele Bardelli

    A cura di Pierangeli Fabio con contributi di Daniele Bardelli, Nicolò Lipari, Claudia Villa, Gero Grassi, Antonio Scornajenghi

    Carcere e cultura

    ISBN: 9788838245312

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Ragione e preghiera

    IL PUNTO

    Solidarietà

    Carcere e cultura

    «Queste voci dalla prigione mi hanno aiutato a conoscere un po’ meglio le cose»

    Lo studio come strumento di libertà

    Il sistema penitenziario dopo gli interventi della Corte Europea dei diritti dell’uomo

    Insegnare ai carcerati, non in carcere

    La storia della fotografia a Rebibbia

    Se «l’arte è trasformazione etica del mondo attraverso la bellezza» - La cultura come dono

    C’è sempre un’altra possibilità? - Il difficile percorso di riconciliazione tra le vittime e le persone colpevoli di reato

    STORIA

    Montini e la nascita del Centro Accademico sportivo - Rino Fenaroli: fede e opere nella società moderna

    DIRITTO

    Riflessioni di un giurista sul capitolo ottavo - dell’Amoris Laetitia

    LECTURAE DANTIS - VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE

    Le maschere di Francesca e il fantasma di Didone (2)

    OSSERVATORIO POLITICO - A cura di Paolo Carusi

    Aldo Moro: «La verità è sempre illuminante e ci aiuta ad essere coraggiosi»

    RASSEGNA BIBLIOGRAFICA- STORIA CONTEMPORANEA

    LA NOSTRA BIBLIOTECA

    Ragione e preghiera

    di Vincenzo Cappelletti

    Spesso torniamo sui nostri passi – nelle tante occasioni in cui la nostra presenza si suppone inattesa e finanche segreta – e impariamo un colloquio con noi stessi: dove è incerto chi s’interroghi e chi risponda, e a quest’ambivalenza si deve l’ingannevole impressione di un’attività liberatrice, che accomuna domande e repliche, con un ritmo alterno d’interpellanze e disvelamenti. Spesso, o forse con altri e sempre, vorremmo parlare coinvolgendo la vita, in modo tale che le nostre domande avessero il valore d’implicite confessioni e, viceversa, i quesiti si rivestissero di sfumature assiomatiche. Pur non volendolo implicitamente, si dà origine in tal modo a un colloquio con sé stessi: il soggetto che pensa si sottopone a una prova severa di sfida, sfida alla verità nascosta in lui, e di ricorso all’ultima, non evitabile manifestazione di schiettezza.

    Con la stessa legittimità, analogamente, ci avviciniamo o ci abbeveriamo alla o dalla manifestazione dell’autentico, che è poi il vero. Un momento essenziale: non ce n’è altro che gli sia pari per realizzare un’esperienza, che insieme all’amore è tra i massimi doni elargiti dalla vita. In tal modo siamo, non costretti, certo privati d’ogni ragionevole alternativa, rispetto all’unica, plausibile scelta costituita dalla verità. E imbocchiamo una strada dell’esistere, che ha nell’autentico, nell’identico a sé stesso sempre, e nell’intuibile che travalica il limitatamente dimostrabile, i suoi punti d’appoggio e il suo conforto. L’esistenza si ravviva e si popola di argomentazioni, di analogie, d’illazioni. Sentiamo di essere vivi. Avvertiamo di non costringere alcun argomento a trasformarsi in evidenza. Attraversiamo il pensiero, ed ecco la vita apparirà in tutta la sua inesplorata, limpida, abbagliante iridescenza. L’etica si trasforma in presa d’atto, in appercezione dell’anima. E la vita attinge la gioia del comunque e sempre cercato, dell’ovunque auspicato e desiderato.

    Un’immensa ricchezza si cela nella solitudine della razionalità che ricordi a sé stesso, dopo ogni passo, il trascendimento del pensante da parte del pensare, del pensare da parte dell’intuire, dell’intuire da parte dello scorgere. Sono quei momenti rari, da meritare uno ad uno, nei quali avvertiamo in noi un privilegio altissimo, unito, proprio così, alla levità, al ripudio di ogni concomitanza. Quello che a Husserl piacerebbe forse chiamare il mondo della vita, da lontano che era, si avvicina, e diventa nostro mondo. E tutto lo segue. Ed è la gioia. Ci vorrebbe qualcosa per salutarne l’avvento. Ma intanto alcunché di prodigioso si è verificato: il passaggio alla preghiera. La vita pensante si troverà tanto spesso a prendere atto del privilegio che le è stato concesso, con l’obbligo di conservarne una tradizione della consuetudine orante.

    Vincenzo Cappelletti

    IL PUNTO

    Solidarietà

    di Giuseppe Dalla Torre

    È passata la prova referendaria, con tutto il suo strascico di polemiche e di conseguenze politiche, e non solo.

    Certo mai, come nell’ultimo mezzo anno, la Costituzione è stata all’attenzione del dibattito pubblico, dei media, delle conversazioni private. Per opposti motivi si è riscoperto, nella vita di tutti i giorni, il senso della centralità del testo costituzionale nella funzione sua propria ed insostituibile di definire le mura della casa comune: mura che si danno per condivise e che vanno condivise, perché al loro interno possa pacificamente e democraticamente dipanarsi la dialettica che è peculiare di una società pluralista.

    Insomma: comunque si voglia commentare il risultato della consultazione referendaria sulla cosiddetta legge Boschi di modifica della Costituzione, un dato positivo almeno è possibile coglierlo: e precisamente la rinascita della consapevolezza che c’è una Costituzione, che è un bene prezioso, che dunque va salvaguardata. Forse un po’ poco, penserà qualcuno; comunque un poco dal quale è possibile ripartire per recuperare quanto la Carta del 1948 esprimeva e che parrebbe andato perso nel tempo: l’essere, la nostra, una comunità coesa nonostante le diversità. Perché una Costituzione votata esprime una realtà sociale animata da spirito aggregativo; ma essa è al tempo stesso fattore di promozione dell’affiatamento e dell’unità di una compagine sociale.

    E qui si pone uno dei problemi nodali dell’Italia di oggi, dato dall’individualismo e dalla frammentazione, in cui il particulare finisce spesso per fare aggio sul generale, i localismi sull’interesse nazionale, il bene dei singoli sul bene comune. Una cartina di tornasole di codesto fenomeno si può cogliere proprio su uno dei terreni maggiormente innovativi della Costituzione; in uno degli architravi posti a reggere l’intera struttura sociale: le formazioni sociali di cui all’art. 2 della Carta. I costituenti cattolici andavano giustamente fieri della acquisizione, a livello normativo, di quell’idea delle società intermedie tra l’individuo e lo Stato: una acquisizione che se dal punto di vista fattuale recuperava un dato reale, dal punto di vista ideale reagiva agli estremi delle ideologie otto-novecentesche che guardavano di volta in volta l’individuo solo di fronte allo Stato o schiacciato dalla collettività.

    La cartina di tornasole indica, infatti, che per molti aspetti quel disposto dell’art. 2 pare una vox clamantis in deserto: i partiti politici sono venuti meno, i sindacati sono oggi pallide espressioni del passato, anche nel mondo cattolico l’associazionismo – che è stato in passato esperienza forte e significativa – è in crisi. Certo vi sono le eccezioni; ma sempre più spesso è il fenomeno movimentista a caratterizzare la scena, con la forza ma anche la precarietà legata al collegamento con un capo carismatico. Mancano sempre più i luoghi in cui ci si confronta, si dibatte, si progetta, si sollecita e si propone.

    Ai sociologi la diagnosi delle cause del fenomeno, che certamente costituisce fattore di indebolimento della compagine sociale e della vitalità democratica.

    La rilevazione del fenomeno, tuttavia, evoca alla mente un altro luogo costituzionale, rintracciabile sempre nella medesima disposizione della Carta, l’art. 2, vale a dire quello dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Si tratta di un riferimento fondamentale, perché l’uscita dal guscio del proprio interesse particolare e l’aggregarsi in formazioni sociali attente a interessi più generali sono mossi da sentimenti solidaristici, molto più che da istanze meramente intellettuali.

    Singolare caso, questo del principio di solidarietà accolto dalla Costituzione; come si vedrà, quasi un ossimoro politico-giuridico.

    In altre occasioni si è avuto modo di alludere alle origini del principio solidarista, che affondano nel terreno propriamente della religione e dell’etica religiosa. In particolare nel terreno di quella singolarissima esperienza che, tra tardo antico ed età di mezzo, portò alla cristianizzazione del continente europeo. Allora fu forgiato l’ homo europaeus: la sua cultura, il suo sentire, i paradigmi di riferimento, in breve la sua identità.

    Il nerbo del messaggio cristiano, che è l’amore, la carità, penetrò nella carne e nel sangue degli europei, al di là dei livelli di credenza e di pratica religiosa individuali; diventò fattore identificante, al punto che, secondo la notissima annotazione di Benedetto Croce, «non possiamo non dirci cristiani». Le inclinazioni di una cultura, che diviene esperienza concreta, poco a poco indussero l’attitudine a guardare oltre le mura di casa propria, ad avvertire la presenza degli altri, a piegarsi verso le necessità altrui, fino all’estremo del com-patire, del patire insieme, facendosi carico della sofferenza del prossimo. Il superamento – che non è negazione – dell’istanza etica del civis, propria della civiltà classica, con l’ideale dell’amore fraterno, nel divenire della storia porta tra l’altro a ricoprire il continente europeo di una fitta rete di istituzioni assistenziali. Qui si coglie, in qualche modo, il retroterra culturale e valoriale delle moderne espressioni di quel welfare che non a caso, rispetto ad altre realtà, connota l’Europa nelle odierne configurazioni dello stato sociale.

    I processi di secolarizzazione e di laicizzazione avviatisi nell’età dell’illuminismo, e portati forzatamente avanti sulle baionette delle armate rivoluzionarie francesi, misero in crisi valori, modelli, esperienze, istituzioni. La cupiditas rerum novarum nel ricostituire, funditus, una società ed uno Stato altrimenti fondati rispetto al passato travolse, con la sostanza, anche il lessico. Il riferimento alla carità, la virtù cristiana per eccellenza, scomparve dal vocabolario e dalle denominazioni di organismi pubblici e privati, proprio perché elemento religioso che, in quanto tale, non aveva (né doveva più avere) cittadinanza nella pubblica agorà; ogni riferimento alla religione poteva residualmente persistere solo nel privato, nelle mura domestiche, entro i recinti ecclesiastici, nel chiuso della coscienza personale. Le opere pie, per fare memoria di una vicenda illustre, divennero istituzioni pubbliche di assistenza: al calore della pietas espressione della carità, si sostituisce la freddezza della distanza burocratica.

    Ma poiché una società civile ed una comunità politica si tengono insieme in ragione dei vincoli (anche) altruistici esistenti nel corpo sociale, la riforma del lessico secondo quanto allora politicamente corretto portò a sostituire carità con fraternità. Gli enfants de la Patrie, in una realtà che aveva messo da parte la religione, erano uniti (e dovevano essere uniti) da sentimenti di fraternità, da vincoli non soprannaturali ma naturali, come sono appunto quelli di sangue.

    La fraternité divenne vessillo della nuova società secolare; vessillo emotivamente appassionante, ma ambiguo, quantomeno nella misura in cui evocava inevitabilmente una comune discendenza, una condivisa paternità, cosa che evidentemente solo in una visione religiosa può configurarsi. Non a caso la preghiera cristiana per eccellenza è rivolta al Padre nostro.

    Rispetto alla liberté ed alla égalité, di cui alla nota divisa della Rivoluzione francese, la fraternité si manifestò ben presto lettera morta: lo dimostrò eloquentemente l’affacciarsi duro e doloroso di quella questione operaia che segnò la scena di un Ottocento, pur dominato dai dogmi liberali.

    Lo sviluppo della vicenda approda infine nella solidarietà: termine che ha una chiara derivazione dal linguaggio giuridico, laddove indica rapporti di obbligazione che accomunano il destino di un individuo a quello di altri. Si tratta di un termine che si presenta nobile, accattivante, e soprattutto con il grande vantaggio di essere neutro dal punto di vista ideologico e religioso; dunque un termine confacente ad una società pluralista e secolarizzata. E tuttavia un termine che, al cristiano, continua a parlare di amore e di carità.

    Ma torniamo alla Costituzione.

    S’è accennato al fatto che il riferimento alla solidarietà, contenuto nell’art. 2, costituisce quasi un ossimoro. In effetti la disposizione in esame sembra dire e contraddire allo stesso tempo.

    Da un punto di vista formale quella disposizione pone un obbligo giuridico generale, quindi per tutti, di osservare un determinato comportamento, vale a dire quello solidaristico nella vita politica, così come in quella economica e sociale. Ed a tale obbligo, normativamente sanzionato, corrisponderebbe un diritto soggettivo altrui, vale a dire una pretesa giuridicamente azionabile; non a caso l’articolo in questione dice che «La Repubblica [...] richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Si è dunque nell’ambito del paradigma proprio del diritto, il quale si articola nelle due posizioni fondamentali e relazionate della pretesa e della doverosità.

    Ma da un punto di vista sostanziale, se solidarietà è nient’altro che il termine secolarizzato – dunque neutrale, accettabile da tutti – di carità, appare immediatamente evidente che essa non può essere ricondotta negli schemi propri della giuridicità. La carità, infatti, non prescinde dalla giustizia ma va oltre; supera ciò che è doveroso giuridicamente; è caratterizzata da spontaneità, da altruismo, dal fatto che non è dovuta.

    Insomma: se è un dovere, non può essere espressione di solidarietà; se è manifestazione di solidarietà, allora non è dovuta né può essere giuridicamente pretesa.

    La singolarità del richiamo costituzionale può, forse, dare ragione della schizofrenica interpretazione che la dottrina costituzionalistica ha, nella più parte dei casi, dato dell’articolo in questione, di cui spezza irragionevolmente il dettato. Secondo questa posizione di pensiero, infatti, il riferimento contenuto nella prima parte dell’art. 2 ai «diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» conterrebbe una norma aperta, vale a dire allusiva non solo ai diritti inviolabili esplicitamente contenuti nel testo costituzionale, ma idonea anche a recepire progressivamente tra detti diritti quelli che l’evoluzione dell’esperienza giuridica porti a ritenere come inviolabili: è la vicenda dei cosiddetti nuovi diritti. Viceversa per quanto attiene alla seconda parte della stessa disposizione, laddove si fa riferimento ai doveri inderogabili, giacché in questo caso si tratterebbe di una norma chiusa, nel senso che a questa categoria di doveri apparterrebbero solo e soltanto quelli previsti esplicitamente dal testo costituzionale: come di contribuire al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, Cost.), di votare (art. 48, secondo comma, Cost.), di difendere la Patria (art. 52, primo comma, Cost.), di fedeltà alla Repubblica (art. 54, primo comma, Cost.).

    Non è certo il caso di entrare in questa sede in una disanima di alta tecnicalità giuridica, che tra le varie opinioni ha peraltro conosciuto anche quelle che superano lo schema del rapporto giuridico, per attingere il più elevato livello dei valori. Del resto la stessa Corte costituzionale in una famosa sentenza, trattando di una delle espressioni più evidenti della solidarietà, il volontariato, ebbe modo di affermare che in ragione di essa «la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa» (sent. n. 75 del 1992).

    Quel che preme qui considerare è che, contenuto di un dovere costituzionale o ragione di un dovere costituzionale che sia, la solidarietà costituisce uno dei valori portanti della casa comune edificata nel 1948, dopo la tragedia della dittatura e della guerra. Dunque un valore da coltivare ed al quale formare.

    Al riguardo giova un richiamo all’insegnamento sociale della Chiesa, che molto si è diffuso in argomento. Particolarmente incisivo appare in proposito il pensiero di Giovanni Paolo II, che nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis, del 1987, teneva a sottolineare che la solidarietà «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento»; che essa, al contrario, «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (n. 38).

    Alla luce di queste parole si comprende bene come la solidarietà sia collante che tiene insieme una società e la fa crescere. A ben vedere, si tratta di un collante che appare essere tanto più necessario, quanto più una società evolve verso forme di pluralismo, se non si vuole che questo da potenziale ricchezza possa degenerare nella negatività della frammentazione, che è causa di divisioni, contrasti, contrapposizioni, lotte.

    Si deve osservare in proposito che un tempo le società politiche erano tenute insieme da fattori, quali l’appartenenza alla medesima etnia, la lingua comune, la professione della stessa fede religiosa, la condivisione di una ideologia, che sono venuti via via meno, sicché oggi si pone il problema di trovare collanti nuovi per tenere insieme le nostre fragili società pluraliste. E il senso di solidarietà, se diffuso nel corpo sociale, può essere efficace sostituto dei collanti antichi; anzi, un sostituto nobile e più efficace, perché mai escludente ma sempre includente.

    Recentemente un quotidiano, con provocatoria allusione alla drammatica vicenda delle immigrazioni, intitolava: Morire di solidarietà. Ma è da domandarsi se l’assunto non vada capovolto; se, piuttosto, non si corra il rischio di morire per mancanza di solidarietà.

    Giuseppe Dalla Torre

    Carcere e cultura

    «Queste voci dalla prigione mi hanno aiutato a conoscere un po’ meglio le cose»

    di Fabio Pierangeli

    Ogni ipotesi legislativa in funzione di una società più giusta deve riflettere, per poter intervenire efficacemente in un’opera di riforma, sulle istituzioni detentive e sul sistema penitenziario nel suo complesso. Con una attenzione costante agli uomini e alle donne che vi operano, dalle persone detenute agli agenti della polizia penitenziaria, al direttivo, agli educatori e ai volontari.

    La sezione monografica che qui presentiamo, vuole porre all’attenzione l’esperienza di studio e di attività culturale di alcuni docenti e tutor dell’Università di Roma Tor Vergata che, come scrive nel suo intervento Antonella Rasola, vice direttrice della Casa Circondariale di Rebibbia a Roma, in linea con la prassi amministrativa di alcuni Istituti Penitenziari tende a rendere protagonista della propria rieducazione il condannato «che deve riappropriarsi in maniera consapevole dei valori di legalità attraverso una progressiva responsabilizzazione».

    Un’ipotesi che si scontra con diffidenze, inciampi burocratici, sovraffollamento da una parte, mancanza di personale specializzato dall’altra che grippano i meccanismi di un girone che quotidianamente rischia di trasformarsi, o rimanere, quell’inferno dove il crimine (e la recidiva, ovvero la reiterazione dei crimini dopo un periodo di detenzione) prospera e si alimenta.

    Contraddizioni espresse nell’appassionato e documentato saggio dell’antropologo Pietro Vereni. A cui si uniscono le testimonianze umanamente toccanti di Alberto Manodori Sagredo, docente di Storia della Fotografia, e del dottore di ricerca e insegnante Irene Baccarini, tutor universitaria a Rebibbia, nel progetto ideato da Marina Formica che, nel suo intervento, in breve, spiega le «ragioni» dell’inizio. In qualità di tutor responsabile per la Macroarea di Lettere e Filosofia del progetto di studio universitario nella Casa Circondariale di Rebibbia, in convenzione con l’Università di Roma Tor Vergata, ho potuto verificare personalmente la complessità del rapporto tra l’arte, la letteratura, lo studio, a tutti i livelli di istruzione nella realtà detentiva.

    Certamente un notevole aiuto ad un percorso di ripresa della dignità umana (molto spesso intrapreso per dare l’esempio ai propri figli e nipoti di una vita diversa da quella criminale) capace di portare con sé una maggiore coscienza della propria condizione, sia nella disgrazia di aver scelto la via criminale, sia per l’assurdità, magari dopo venti o trent’anni di carcere, di essere giudicato ancora soltanto per i reati commessi.

    Da questa esperienza nasce la collana, Il vagabondo delle stelle, da me diretta per Universitalia editore che richiama all’attualità di questi interrogativi.

    Il titolo del primo volume riprende la suggestiva espressione del poeta brasiliano Marco Lucchesi: Afferrare le redini di una vita nuova. Lucchesi allude alla sua esperienza nelle carceri brasiliane e in particolare al rapporto epistolare, estremamente formativo per entrambi, con un detenuto [1].

    «Ho imparato molte cose durante la corrispondenza bisestile che ho avuto con più di un prigioniero, di cui non ho mai conosciuto il viso e la pena. Un piccolo gruppo di lettere riunito per mera affinità letteraria sulla passione di leggere e una specie di etica del lettore a volte un po’ ingenua, ma quasi sempre affascinante. Molto di quello che si è perso nella Facoltà di Lettere, prospera in alcune delle nostre prigioni. Una consegna totale e quasi disperata al libro. Una scommessa di sogno e libertà. Un’altra vita

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