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L'altra parola: Riscritture bibliche e questioni radicali
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E-book503 pagine6 ore

L'altra parola: Riscritture bibliche e questioni radicali

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Info su questo ebook

Questo libro rende conto di un percorso di ricerca sulle domande di senso seminate nella letteratura contemporanea. Esse riguardano le situazioni critiche in cui, dentro la storia, sono messi a repentaglio alcuni valori inviolabili, come la verità, la libertà, la pace, la giustizia. E, insieme a queste grandi questioni, altre ancora non meno drammatiche, persino tragiche: la malattia per esempio, quella fisica e quella morale, il dolore e la sofferenza che rispettivamente ne derivano, la morte che viene a compierne inesorabilmente le promesse o a portarne a estrema conseguenza le premesse. E inoltre istanze forti al pari e anzi più della morte: soprattutto l’amore. Le questioni radicali qui evidenziate riecheggiano, in particolare, quelle che già s’incontrano nelle sezioni sapienziali della Bibbia, giacché si trovano disseminate in testi letterari che si configurano come riscritture contemporanee delle antiche Scritture. Queste, notava Sergio Quinzio, non esprimono «sublimi ideali disincarnati». Piuttosto danno adito a una narrativa e a una poesia che, scriveva Alda Merini, sono «fenomeno di vita». È ciò che qui viene riscontrato nelle pagine di scrittori come Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia, Luigi Santucci e Guido Ceronetti, David M. Turoldo e Mario Luzi, Margherita Guidacci e Agostino Venanzio Reali, Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini, Diego Fabbri e Angelo Gatti, Eduardo Rebulla e Vincenzo Rabito. Ma anche di teologi come Divo Barsotti e Gerd Theissen e di tanti pensatori moderni e contemporanei, da Blaise Pascal a Hans Blumenberg, passando attraverso Friedrich Nietzsche. E persino di cantautori come Angelo Branduardi e Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.
Presentazione di José Tolentino de Mendonça
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2022
ISBN9788838252198
L'altra parola: Riscritture bibliche e questioni radicali

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    L'altra parola - Massimo Naro

    MASSIMO NARO

    L’ALTRA PAROLA

    Riscritture bibliche e questioni radicali

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2022 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN Edizione cartacea 978-88-382-5136-8

    ISBN Edizione digitale 978-88-382-5219-8

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838252198

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    UNA BUSSOLA PER IL NOSTRO TEMPO: PER PRESENTARE QUESTO LIBRO

    A MO’ DI PREMESSA: RISCRITTURE BIBLICHE TRA ECHI E INTERROGATIVI

    1. Le domande di senso

    2. Una scrittura ibrida

    3. Tutto è Scrittura

    4. La sinfonia degli idiomi artistici

    I. OGNI LETTERATURA È SACRA

    1. Litanie di scrittori e artisti

    2. Umane parole all’orecchio di Dio

    3. Esegesi spirituale della letteratura

    4. Nella parola umana parla Dio

    II. TRAGICA REVERSIBILITÀ: UNA RISCRITTURA POETICA DELLA BIBBIA

    1. Poesia ermeneutica, interpretazione poietica

    2. Tra riscritture bibliche e riletture classiche

    3. Vocazione profetica

    4. Come un personale Magnificat

    III. IL CALAMO DI UN ABILE SCRIBA: ANTICHI E NUOVI SALMI

    1. Esegesi poetica

    2. Riscrittura meridiana dei salmi

    3. Poetica sapienziale

    4. Le questioni più radicali

    IV. LA VITA DI CRISTO COME «BIOGRAFIA DI ME E DI TANTI ALTRI»

    1. Déplacement cristologico

    2. Composición letteraria

    3. Ermeneutica narrativa

    4. Cristologia dalla narrazione

    V. VERITÀ, GIUSTIZIA, TORNACONTO: PILATO NELLE RISCRITTURE LETTERARIE DEI VANGELI

    1. Ciò che ho scritto, ho scritto

    2. Il punto di vista letterario

    3. Filosofia del diritto

    4. Teologia politica

    VI. L’ESSERCI DELLA PAROLA: L’UMANAZIONE DI DIO NEL NOVECENTO ITALIANO

    1. Luzi, Turoldo, Perriera

    2. Pirandello tra etica e mistica

    3. Come Leopardi e Nietzsche, tra Goethe e Ignazio di Loyola

    4. Antidoto alla disumanizzazione

    VII. VIVERE DI PAROLE: IL TEATRO PER RIESPERIRE IL VANGELO

    1. Un esperimento anateistico

    2. Formulare domande nuove

    3. Uscire dallo schema

    4. Un’inedita apologia

    VIII. UN REDUCE DI GUERRA E IL FIGLIOL PRODIGO

    1. Analogia tra amor patrio e amore sponsale

    2. Appunti per comporre un de bello italico

    3. L’amara sorpresa e il sogno ingannatore

    4. Conversione e revisione

    IX. CERCANDO LA MORTE CON LA LANTERNA

    1. Emancipazione letteraria

    2. Sospensione etica e sguardo estetico

    3. La guerra è bestemmia

    4. L’eroismo è inutile spreco

    X. PROLISSITÀ DELLA MORTE E DIGNITÀ DEL MORIRE

    1. La laicità sullo sfondo

    2. Risemantizzare l’eutanasia

    3. Lo scandalo della malattia invalidante

    4. Lo spessore biografico della dimensione biologica

    XI. LA VERITÀ NEL SUO ROVESCIO

    1. Disincanto dal disincanto

    2. Pensiero meridiano

    3. Cattolica reversibilità

    4. Il rigurgito della congettura

    XII. LA BELLEZZA È L’ULTIMA PAROLA

    1. Sacro e arte oppure Chiesa e artisti?

    2. Dal recinto cultuale all’orizzonte culturale

    3. Dal sacro al santo

    4. Il magistero sull’arte: da Pio XII a oggi

    A MO’ DI CONCLUSIONE: VOLA ALTA, PAROLA, CRESCI IN PROFONDITÀ

    1. Problematico paradosso

    2. Tra chiaro e oscuro

    3. Vince la luce

    4. L’affannosa parlata del Cristo

    AUTORE

    INDICE DEI NOMI*

    CULTURA STUDIUM

    CULTURA

    Studium

    261.

    M assimo Naro

    L’altra parola

    Riscritture bibliche e questioni radicali

    Presentazione del card. José Tolentino de Mendonça

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    A mia madre,

    ricordando sempre i suoi perché?

    Ero pronto al peggio e mi sbagliai,

    ero pronto al meglio ed inciampai

    ( Zucchero Fornaciari, Quale senso)

    E il mio maestro m’insegnò com’è difficile

    trovare l’alba dentro l’imbrunire

    (Franco Battiato, Prospettiva Nevski)

    Non è sognare che aiuta a vivere,

    è vivere che deve aiutarti a sognare

    (Lo Stato Sociale, Niente di speciale)

    UNA BUSSOLA PER IL NOSTRO TEMPO: PER PRESENTARE QUESTO LIBRO

    Sbaglierebbe chi pensasse che questo brillante volume di Massimo Naro sia un libro di ermeneutica biblica e letteraria rivolto esclusivamente agli specialisti di queste discipline. Perderebbe una bella occasione chi lo relegasse troppo in fretta al solo ambito degli studi universitari e non gli riconoscesse quello che personalmente più mi ha affascinato: il fatto che questo libro costituisce effettivamente una preziosa mappa per attraversare questi nostri tempi perplessi. Perché le domande – «domande radicali» –, con cui egli si confronta non sono meri esercizi di stile o interrogativi estranei, distanti mille miglia dalla nostra realtà più prossima, che mai ci siamo posti prima d’ora. Ben al contrario, riconosciamo nelle sue «domande radicali» l’illuminazione di ciò che è alla radix dei percorsi fondamentali della nostra umanità, ascoltiamo in esse la risonanza di quelle «grandi dinastie di domande» che più intensamente ci abitano e definiscono. Proponendo una riflessione sull’«altra parola», Massimo Naro non pretende, in realtà, né di creare un’alternativa alla Parola delle Sacre Scritture come êthos (come «posto da vivere», condiviso) né di semplicemente fare un discorso a essa laterale. La coraggiosa ambizione dell’autore è invece precisamente di mostrare l’alterità (di testi, di voci, di punti di vista, di mediazioni) come uno strumento per approfondire il significato e l’incidenza che fa della Parola una dinamica di rivelazione. E intessendo sapientemente questo percorso specifico, ci aiuta a guardarne, con occhi altri, tanti altri.

    La lettura di questo volume (il cui funzionamento può essere paragonato a quello di un ludico palinsesto, dato che ogni testo rimanda sempre a un altro soggiacente) ha generato in me tre riflessioni, che qui condivido in modo molto franco.

    Innanzitutto, in collegamento con questo libro, mi piace ricordare ciò che scrisse Karl Rahner: «La Chiesa è stata condotta dal Signore della storia in una nuova epoca». Non siamo di fronte al crepuscolo del cristianesimo, come sostiene chi si affretta a definire postcristiane le nostre società. Né il potenziale creativo dell’esperienza cristiana si trova disattivato. Chi non percepisce che il luogo radicale del cristianesimo è sempre stato l’abitare il suo proprio mutamento, vuol dire che non lo ha compreso dal di dentro. Forse ciò che la nostra epoca va scoprendo, tra convulsioni, trasformazioni e incertezze, è un modo differente di essere credenti, un modo che non viene colto, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, dai dati sociologici incentrati sulla narrazione del declino, ma che la letteratura e le arti in generale sono capaci, con le loro strette maglie, di evidenziare. La letteratura è, come diceva Marcel Proust, prima di tutto uno strumento ottico: ci aiuta a vedere. Per questo è così importante che la materia di questo libro sia intesa anche come un saggio di teologia pratica, una discussione di ecclesiologia applicata, una sorta di sondaggio che consente di elaborare una diagnosi in vista dell’azione pastorale. La crisi attuale, ricorda qualcuno, non è tanto una crisi del credere quanto delle comunità di fede e della loro incapacità di dialogare con i mutamenti culturali in corso. Oggi, i percorsi dell’identità credente sono più individuali e, forse, più esigenti; la mobilità ostacola le mediazioni statiche di iniziazione e celebrazione; emergono nuovi spazi di costruzione sociale nelle vaste, e ancora sconosciute, reti dell’elettronico e del virtuale; si impongono nuovi codici di cooperazione con la realtà; quella che viene propagata non è unicamente una tecnica e un comportamento, ma una cultura e una civilizzazione che è urgente ascoltare. Lo spazio credente è in corso di riconfigurazione. Le categorie che sono servite a plasmare storicamente la geografia cristiana quale la conosciamo si trovano ora sottoposte a pressione, strette dall’urgenza di affrontare realtà nuove. Un numero crescente di cristiani vive la propria fede fuori porta, in contesti eterogenei, dove la presenza tradizionale del religioso non arriva, o arriva in un modo trasformato e rarefatto, un modo altro. In un tempo di trasformazioni accelerate, cresce il numero delle parrocchie che non figurano nelle carte topografiche. La parrocchia esprimeva un mondo di composizione sedentaria. Un solido legame comunitario offriva ad ognuno il suo posto, il suo statuto, e conferiva una chiara unità ai ritmi di vita. Ma sta emergendo una nuova epoca, e con essa la necessaria riflessione su modelli e strutture dell’evangelizzazione. Che cosa adesso ci viene detto? – è la domanda imprescindibile. Che cosa ci rivela questo terremoto culturale? Perché la grande crisi, la più acuta, non è neppure quella degli avvenimenti, decisioni e diserzioni che ci hanno portato fin qui. Un giorno dopo l’altro, viene a sovrapporsi un problema più grande: la crisi dell’interpretazione. Ovverosia la mancanza di un sapere condiviso concernente l’essenziale, ciò che ci unisce, ciò che può dare fondamento, per ciascuno in quanto individuo e per tutti in quanto comunità, ai possibili modi di reinventarci.

    Uno straordinario merito di un testo così deliberatamente polifonico come questo che Naro ci offre è, in secondo luogo, quello di insegnarci a leggere. E nella meticolosa ars legendi che va costruendo, egli ci insegna che l’atteggiamento del lettore deve essere quello che Paul Ricœur esplicitava: «Non già imporre al testo la propria capacità finita di comprendere, ma esporsi al testo e ricevere da esso un sé più vasto». L’esercizio interpretativo deve perciò apprezzare il plurale di cui il testo è fatto. Il testo è textum: tessuto, ordito, tessitura, trama, rete multipla. Tale pluralità è l’unico antidoto alle letture fondamentalistiche, univoche e violente. È il plurale del testo che fonda e stimola diversità ermeneutica, e in tal modo garantisce, contro ogni presunzione assolutista, il luogo dell’alterità. In un saggio intitolato Contro l’interpretazione (1966), Susan Sontag reclamava, invece dell’ermeneutica dominante, che impoverisce e svuota il mondo del testo per instaurare, al suo posto, un mondo spettrale di significati, quella che lei chiama una erotica della lettura, che serva amorosamente l’oggetto letterario senza sostituirsi a esso. Reputo che sia questa la direzione in cui l’opera di Massimo Naro procede.

    Questo magnifico libro ci ricorda, infine, che i credenti, radunati da una Parola che si fece carne per la salvezza della persona umana, devono essere protagonisti di quel compito fondamentale che consiste nel custodire la parola come luogo di senso e di verità, come generatore di umanità e di umanizzazione. Là dove la parola viene salvata, avviene il riscatto del divino rivelato nella storia. Questa è una missione che deve essere dei credenti, benché non esclusiva dei credenti. Scrive Primo Levi: «Là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». La parola è lo spazio in cui prende forma l’umano e in cui la differenza è costruita come relazione. Sopprimere la parola, fare violenza al linguaggio, è negare l’umanità dell’altro e dunque la nostra. I carnefici del lager che negano ai detenuti la qualifica di esseri umani per degradarli a detenuti, pezzi, numeri, sostituendo le parole con l’urlo e il pugno, degradano sé stessi a mostri inumani. Chi spegne la fraternità, spegne la parola. Chi spegne la parola, spegne in sé stesso l’umanità. Non faremo mai abbastanza per custodire la parola. Essa ci permette di accorciare le distanze trovando ciò che abbiamo in comune – e che siamo in comune – al di là della differenza che ci separa.

    Non mi resta che augurare che questo libro trovi i suoi lettori.

    José Tolentino de Mendonça

    Cardinale Archivista e Bibliotecario

    A MO’ DI PREMESSA: RISCRITTURE BIBLICHE TRA ECHI E INTERROGATIVI

    1. Le domande di senso

    Le pagine che seguono rendono conto di un percorso di ricerca su quelle che si possono considerare le domande radicali seminate nella letteratura contemporanea.

    Interrogativi «grandi», come li definì a più riprese Gesualdo Bufalino, che appartengono – per dirla con Rainer Maria Rilke – alle «grandi dinastie di domande» che «sempre e di nuovo sono state ricoperte di domande» ( Su Dio, Adelphi 2010). Romano Guardini, teologo che elaborò un’ermeneutica cristiana dell’opera di scrittori come Dante, Dostoevskij, Hölderlin, Rilke stesso, le chiamava nel 1960 «le domande dell’esistenza»: «Perché io sono colui che sono? perché mi succede quello che mi succede? perché mi è interdetto quello che mi è interdetto? perché io sono come sono? perché io semplicemente esisto invece che non esistere?» ( Accettare se stessi, Morcelliana 1992). Esse riguardano anche le situazioni critiche in cui, dentro la storia, sono messi a repentaglio alcuni valori idealmente inviolabili, come la verità, la libertà, la pace infranta dalla guerra, la giustizia e il rispetto (e già Platone scriveva, nel suo Protagora, che i due doni principali dispensati da Zeus, tramite Ermes, agli esseri umani per renderli capaci di non abusare del fuoco per loro rubato da Prometeo, erano stati appunto dík ē e aid ṓ s, giustizia e rispetto: non nómos, non la legge o l’osservanza delle leggi, bensì l’attitudine a mettersi in relazione reciproca, per progredire personalmente senza ledere il progresso altrui, pur nei risicati limiti del possibile). E, insieme a queste grandi questioni, altre ancora non meno drammatiche, persino tragiche: la malattia per esempio, quella fisica e quella morale, il dolore e la sofferenza che rispettivamente ne derivano, la morte che viene a compierne inesorabilmente le promesse o a portarne a estrema conseguenza le premesse, specialmente la morte dell’innocente per antonomasia, quella del bambino, ma anche quella dell’ammalato senza più speranza di guarire, a volte perciò presa per una ladra, a volte accolta come una liberatrice. E inoltre istanze forti al pari e anzi più della morte: soprattutto l’amore.

    Difatti grappoli di questioni fondamentali si possono rintracciare e decifrare in importanti autori come Luigi Pirandello e tanti altri scrittori contemporanei, notissimi ma pure meno noti e non per questo minori, come si suole dire talvolta semplificando e schematizzando eccessivamente. Intendendo la scrittura letteraria come una «spada a doppio taglio» ( Eb 4,12), d’altronde, si può studiare il tema delle domande radicali anche in non pochi scrittori del Novecento che hanno espresso nelle loro opere i moti della loro coscienza problematicamente agnostica eppure, se si può dirlo, laicamente credente, e al contempo in alcuni spirituali che hanno saputo testimoniare la loro personale vicenda religiosa tramite una scrittura di qualità letteraria: per fare un esempio, il siciliano Fortunato Pasqualino a rappresentare i primi e don Primo Mazzolari a rappresentare i secondi.

    In questo libro viene privilegiata una particolare direttrice della ricerca sulle domande radicali nella letteratura contemporanea, registrandole come fossero echi di quegli interrogativi alti e puntuti che si trovano già nelle Sacre Scritture, a partire dal Sal 8, in cui l’orante biblico si chiede – mentre pure lo chiede a Dio – chi sia veramente l’uomo, attraverso tutta la cosiddetta letteratura sapienziale, di cui Qoelet è il rappresentante più famoso, per giungere al libro di Giobbe, dove le disgrazie dell’uomo di Uz preannunciano quella che nella vicenda pasquale dell’Uomo di Nazaret si sarebbe rivelata anche come una misteriosa «sconfitta di Dio», per usare le parole che compongono il titolo di un breve ma denso volume di Sergio Quinzio ( La sconfitta di Dio, Adelphi 1992).

    Gli echi sapienziali nella letteratura italiana contemporanea si possono cogliere nelle opere di autori che coprono tutto il Novecento – da Clemente Rebora a Luigi Santucci, passando attraverso Guido Morselli, Cristina Campo, Bartolo Cattafi (rappresentante di un nutrito drappello di poeti siciliani vissuti prima e dopo di lui, da Virgilio La Scola ad Angelina Lanza Damiani, da Calogero Bonavia a Castrense Civello e ad altri ancora viventi), Margherita Guidacci, David Maria Turoldo, Agostino Venanzio Reali e il già ricordato Sergio Quinzio – o che, come nel caso di Mario Luzi, Divo Barsotti e Alda Merini, hanno continuato a vivere e a scrivere fino alla prima decade del XXI secolo. Non metto in fila tutti questi nomi obbedendo a un qualche criterio sistematico, ma assecondando l’impulso di zoomare almeno in ordine sparso un territorio del resto troppo vasto per essere perlustrato con una sola incursione. D’altra parte il percorso di lettura e di interpretazione dovrebbe rimontare all’Ottocento, fino a prendere le mosse da Giacomo Leopardi, che dei «poeti del dolore» – come viene definito dagli studiosi – è in Italia il capostipite. In ogni caso si tratta di autori che condividono più che la fede in Dio la pietà per l’uomo, nel cui nome essi alzano la voce per chiedere conto e ragione – all’uomo stesso e, in definitiva, a Dio – di ciò che l’opprime e lo mortifica. Proprio come Giobbe, che nel libro biblico a lui intitolato si smarca dalle teodicee che da sempre tentano pelosamente di giustificare Dio ad ogni costo di fronte ai mali da cui sono feriti gli esseri umani e arriva finalmente a teologare, cioè a chiederne tragicamente il perché a Dio stesso.

    In un’investigazione del genere deve poter emergere la corrispondenza intertestuale fra lettera biblica e produzione letteraria, senza che ci si fermi tuttavia a contare le citazioni bibliche più o meno esplicite ricorrenti negli autori presi in esame, o quelle soltanto implicite nascoste nei loro scritti, bensì decifrando ciò che del messaggio biblico di volta in volta, caso per caso, l’eco prolunga e deforma al contempo. Insomma, ciò che – negli scrittori studiati – è altro rispetto alla lettera biblica, ciò che viene rielaborato e rifigurato nel momento stesso in cui pure è recuperato e ricordato. Lo scopo è capire cosa diventa – e perciò cosa forse non è più – la preghiera del salmista, la meditazione di Qoelet, il cantico degli innamorati, il lamento di Giobbe, nei versi e nelle pagine di Leopardi e degli altri autori chiamati in causa. Si deve puntare, in definitiva, ad appurare una intertestualità non meramente filologica, capace di svelare piuttosto la continuità-nella-discontinuità tra lo spirito del messaggio biblico e la ricerca di senso di cui si sono incaricati di volta in volta gli scrittori.

    Per conseguire questo obiettivo occorre innanzitutto riflettere sul carattere letterario delle Sacre Scritture e, in particolare, sulla qualità poetica della letteratura biblico-sapienziale, perlustrando così un orizzonte vastissimo che già studiosi come Karin Schöpflin, Vincenzo Arnone, Robert Alter e Jean-Pierre Sonnet – tra gli ultimi nell’affrontare questa fatica – hanno negli anni scorsi indagato, da differenti punti di vista, con grande efficacia pur senza esaurire le possibilità esegetiche ed ermeneutiche che se ne possono ricavare. Promettente e significativa risulta, a tal riguardo, la polisemia che le parole della lingua ebraica si portano dietro e dentro come una loro dote peculiare. Se ne era accorto anche Leopardi. Nello Zibaldone il poeta di Recanati più volte sottolineava la semplicità strutturale e persino la primitività linguistica dell’ebraico, che – mancando di termini composti – non può vantare la ricchezza semantica e la raffinatezza retorica del greco e di altre lingue antiche. Nondimeno, nella Bibbia, il deficit si traduce in chance, perché le parole si forzano a dire più di ciò che esprimono in prima battuta, nascondendo sensi traslati e metaforici, stridendo tra di loro di volta in volta negli ossimori, nei merismi e nei paradossi che trapuntano le storie d’Israele, risuonando all’unisono «riso e lagrime» – per dirla come Dostoevskij nei Ricordi della casa dei morti ripreso e commentato da Santucci nel suo saggio su Poesia e preghiera nella Bibbia (Gribaudi 1979) –, come alleluia gioioso ma anche come contestazione arrabbiata nei salmi e, persino, come controverso improperio sulle labbra di Giobbe che discute di Dio con Dio: «Or dunque – concludeva Leopardi – non potendo quasi la prosa ebraica usar parola che non formicolasse di significazioni, essa doveva necessariamente riuscir poetica per la molteplicità delle idee che doveva risvegliare ciascuna parola (cosa poetichissima, come altrove ho detto)» ( Zib. 3565). Così nella Bibbia l’afasia umana, che corrisponde e anzi consegue all’indicibilità divina, viene in qualche modo guarita e addirittura guadagna dignità teologica. Ciò che non si riesce a dire, ciò che non si può dire, viene comunque udito, perché quello che è scritto, nella sua spesso disadorna semplicità, risuona di tanti diversi significati. «Se non fosse ambigua / mi piacerebbe meno la parola», viene da dire, ricordando un verso di Mariaceleste Celi. «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite», dice finanche il salmista ( Sal 61[62],12), quasi ad ammettere che nella Bibbia ha capacità poetica – riesce a rintracciare il senso, si fa scopritore di significati – non tanto chi s’industria a discettare di Dio e, al limite, chi s’accanisce a discutere con Dio quanto piuttosto chi sa ascoltarlo: «Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non insisterò; ho parlato due volte, ma non aggiungerò nulla», dice esausto ma consapevole Giobbe al cospetto di Dio, ormai nel finale del libro a lui intitolato ( Gb 40,4-5).

    Stando così le cose, la letteratura biblico-sapienziale non subisce ma, anzi, si esercita nello sforzo ermeneutico. Ha da essere compresa, certamente. Ma è pure tentativo di capire. Alla stessa stregua della letteratura gravida di domande radicali che in questo libro viene presa in considerazione. In uno dei suoi ultimi componimenti poetici, il dramma dedicato al martire Pino Puglisi ( Il fiore del dolore, Meridiana 2003), non a caso Mario Luzi fa dire al personaggio suo portavoce: «Nostro mestiere è l’interpretazione». Il poeta è, sulla scorta del salmista, o di Qoelet, o di Giobbe, non colui che teorizza ideologie, ma colui che interpreta lo svolgersi del mondo e, al limite, il dirsi e il darsi di Dio nel mondo stesso, sempre restando attento a ciò che non è ovvio, a ciò che rimane non evidente, dislocato sull’«altro lato della vita», come ha scritto Cristina Campo in una pagina de Il flauto e il tappeto (Rusconi 1971).

    Conviene quindi riflettere anche sulla letteratura contemporanea come riscrittura della Bibbia, intesa (la riscrittura) non come mera ripresa di immagini e di suggestioni bibliche, ma come rivisitazione di quelle immagini e di quelle suggestioni. Il tema, a partire dalla lezione di Northrop Frye sulla Bibbia «grande codice» della cultura occidentale, è ormai declinato da molti studiosi, anche se talvolta in direzioni divergenti. I volumi curati per la Morcelliana da Pietro Gibellini e da altri studiosi suoi collaboratori su La Bibbia nella letteratura italiana, sotto questo profilo, sono esemplari e costituiscono un importante punto di riferimento. Nel nostro caso, però, si tratta di nuovo di inseguire specialmente gli echi sapienziali, non solo in autori come Turoldo e Reali, i quali hanno tradotto in poesia italiana intere sezioni della letteratura biblico-sapienziale, i salmi in particolare Turoldo (collaborando con Gianfranco Ravasi) e il Cantico dei Cantici Reali, ma anche in autori che hanno composto nuovi salmi o nuovi cantici rivestendosi – consapevolmente o senza neppure rendersene conto – dei panni del Qoelet e di Giobbe. O persino – slittando in avanti, verso Gesù di Nazaret – mettendosi nei panni degli evangelisti, sino a proporre anche loro un «quinto evangelio» – per riecheggiare qui il titolo di un romanzo di Mario Pomilio uscito nel 1975 con i tipi Rusconi, che tra le riscritture bibliche si deve pure annoverare – nelle cui pagine incontrare ancora il Christus patiens, «gran piaga verticale» – così Santucci nel suo Volete andarvene anche voi? (Mondadori 1969) – in cui ognuno può ormai riconoscersi e riconoscere colui che assume la condizione di Giobbe e grida sulla collina del Golgota lo scoramento del salmista: «Perché mi hai abbandonato?» ( Sal 21[22]), mentre si accinge a «baciare» la morte, divenendo perciò «uomo per eccellenza», come l’ha definito Alda Merini in un verso del suo Magnificat (Frassinelli 2002).

    2. Una scrittura ibrida

    La cristiana liturgia delle ore, celebrata individualmente o comunitariamente, è costituita in gran parte dai salmi d’Israele. Cioè dalle preghiere e dai canti – componimenti ad alto tasso poetico, dalla tradizione attribuiti alla cetra di re David – che il popolo biblico innalzava ad Adonai nei vari frangenti, lieti o tristi, della sua vicenda storica.

    Innestati nella liturgia ecclesiale, i salmi sono recepiti così come erano stati pregati da Israele, ovviamente tradotti dall’ebraico nelle nostre varie lingue moderne, magari sulla scia delle traduzioni più classiche, quella greca dei settanta saggi di Alessandria e quella latina di san Girolamo e della cosiddetta Vulgata. Ciò non vuol dire che siano stati riformulati o reinventati. Semmai sono stati riletti con un nuovo timbro e, prima ancora, riuditi con rinnovata attenzione.

    L’orecchio e le labbra con cui i salmi d’Israele sono stati, nella Chiesa, lungo i secoli, riuditi e riletti, sono quelli di Cristo Gesù. Infatti, Dio si dice in un solo Verbo, che tuttavia esige di essere udito una seconda volta per essere pienamente compreso: ne era consapevole lo stesso salmista qui sopra citato, allorché ammetteva di udire due volte l’unica Parola che Dio ha e proferisce. Significa che ogni parola, allorché viene pronunciata da Dio, è l’unica Parola e perciò esprime tutto il dicibile. Se dice morte, dice anche vita. E viceversa. Se dice dolore, dice anche gioia. Per questo l’essere umano è dotato di un apparato uditivo binaurale, al fine di poter sentire all’unisono le due cose. In realtà, un tale udito stereofonico è prerogativa di Cristo Gesù. Anche l’orante cristiano sa, nella medesima prospettiva del salmista, che Cristo Gesù, Verbo umanato, non impersona un nuovo dirsi divino, o un’ulteriore rivelazione. È, piuttosto, l’unico dirsi divino che viene udito da chi finalmente può compiutamente ascoltarlo e capirlo. Egli è, al contempo, il dirsi divino che risuona in pienezza e che viene pienamente inteso. In lui, la Parola s’annuncia autenticamente sulle labbra di chi può pronunciarla con exousía ( Mt 7,29), con autorità, quindi con quella efficacia autoriale che connette ciò che vien detto e ciò che di conseguenza accade, ragione per la quale lo si ascolta con la sensazione di sentire riecheggiare il ritornello genesiaco: «E Dio disse».

    L’Ineffabile ha una sua logica, impersonata da Gesù, ho Lógos ensarchós, il Verbo incarnato. Solo lui parla bene di Dio. Ma vi riesce anche perché solo lui ascolta bene Dio. Egli è la Parola divina che veridicamente è ribadita con labbra umane purificate e che nondimeno torna ad essere veracemente udita con un orecchio umano sanato. È, altresì, l’unica Parola divina che torna ad essere udita allorché la condizione umana, assunta dallo stesso Verbo, viene corroborata dal suo di dentro e sospinta finalmente oltre le sue antiche limitazioni, guarita dalle sue intrinseche debolezze. In lui le labbra umane diventano la bocca di Dio e un timpano divino viene trapiantato nell’orecchio dell’uomo. In lui, inoltre, il dirsi divino viene udito con la corrispondente attitudine filiale, la sola che può percepirne il senso autentico. È, però, anche l’attitudine dello scriba divenuto discepolo ( Mt 13,52), che al seguito del Figlio incarnato impara a riconoscere come Padre il Dio di cui il Maestro di Nazaret gli parla. L’orante cristiano s’immedesima con lui e fa valere per sé l’avvertimento di Gesù: «Chi ha orecchi intenda» ( Mt 13,9.43). Un po’ come i due di Emmaus prima e poi gli Undici rintanati nel cenacolo, i quali intrattenendosi col Risorto comprendono finalmente quel che avevano letto prima «nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi» ( Lc 24,44).

    Lo scriba che apprende lo stile del Rabbi galileo e che, persino, ne eredita il timpano e il timbro, diviene capace di riscrivere pure i salmi. Nel Nuovo Testamento ciò avviene più di una volta, in particolare nelle pagine giovannee (si pensi al Prologo del quarto vangelo) e nell’epistolario paolino (si pensi, solo per fare un esempio, a Fil 2). Ne sortiscono inni e cantici che si accompagnano ai salmi d’Israele nella liturgia cristiana delle ore.

    Anche altri, successivamente, nel corso ormai bimillenario della storia del cristianesimo, hanno tentato di riscrivere i salmi o altre sezioni bibliche, come i già menzionati Santucci, Reali e Guidacci, o anche Ceronetti, solo per indicare qualche caso in questo mio saggio ripreso e studiato. Non sempre e non necessariamente si tratta di riscritture esplicitamente cristiane. Ma neppure queste mancano: il vescovo Antonio Staglianò, in questi ultimi anni, sta riscrivendo sub evangelii luce i salmi d’Israele. Va realizzando, infatti, un’articolata riscrittura dell’intero salterio, che equivale alla redazione di un salterio nuovo, peculiarmente cristiano. E nel salmo che denomina c15 – il primo di una serie di «salmi nuovi per lodare Agape», com’egli stesso avverte i lettori nel suo Messaggio per il Natale 2020 – illustra il metodo che ha scelto di seguire e l’ispirazione teologico-pastorale da cui si lascia guidare. Lo si può, pertanto, scegliere come una sorta di specimen dell’intera silloge dei salmi ch’egli va componendo.

    Per Staglianò è necessario scrivere «per Agape salmi nuovi»: «Con inni nuovi è giunto il tempo di pregare / elevando nuovi cantici», «perché è nuovo il volto di Dio che amate / Agape è solo amore, è sempre amore». È questo il «Nome» le cui lodi bisogna celebrare. Si tratta di ricomprendere l’impronunciabile Tetragramma espresso nel roveto ardente ( Es 3,14-15), nel Nuovo Testamento amplificato in «Colui che è ed era e viene» ( Ap 1,4) e riscritto chiamando in causa una forma inedita e inaudita d’amore, l’Agape appunto ( 1 Gv 4,8.16). Dio, in quest’orizzonte, viene inteso come l’Essere che decide di Esserci senza smettere d’Essere. E questo suo Essere l’Esserci, che come Agape disvela l’attitudine relazionale dell’essere stesso e la sua gittata storico-salvifica, sancisce addirittura la riscrittura – oltre che delle Scritture – delle antiche metafisiche e dell’ontologia classica: non è più semplicemente l’essere in quanto tale a far da fondamento d’ogni fenomeno, come i filosofi greci avevano da tempo insegnato, ma l’Agape rivelatasi in Cristo ad avvolgerci da ogni lato e a farci esistere ( 2 Cor 5,14).

    Staglianò con i suoi salmi nuovi prende sul serio la sfida teologica rappresentata da una rivelazione che è sempre e comunque ri-velamento, dandole una soluzione pastorale – potremmo anche dire sapienziale, giacché vi s’intrecciano, come scrive, «intelletto, fortezza e scienza» – che serva alla vita credente dei teologi non meno che a quella dell’intero popolo ecclesiale, per dissipare una buona volta i fraintendimenti di questo e gli equivoci di quelli. Perciò occorre lodare il Signore «con salmi adatti / alla sua definitiva rivelazione», cioè a quel suo dirsi antico e sempre nuovo in cui egli si lascia conoscere come Madre e come Padre insieme. I credenti, invitati a salmodiare di conseguenza, potranno – così – sentirsi davvero «custoditi nel grembo» e «sicuri e sereni nell’abbraccio» di questo Dio Madre e Padre, «figli benedetti in Gesù / Figlio eterno di Dio, Dio lui stesso / nostro fratello e compagno in umanità».

    Questi nuovi salmi, in realtà, non rappresentano l’unico esperimento di riscrittura biblica tentato da Staglianò. Da tempo egli, infatti, dimostra di possedere una feconda vena poetica che trova sbocco in un’abbondante produzione lirica, in cui traduce e riformula le antiche preghiere d’Israele: ben sette volumi di Sporadi poetiche, come lui stesso le chiama, e almeno altrettanti volumi di componimenti poetici occasionati dai suoi viaggi in Terra Santa, o fioriti come espressione del suo ministero episcopale, o dovuti all’evento improvviso e doloroso della scomparsa di un suo fratello.

    Le Sporadi sono alcune isolette del Mar Egeo, raggruppate in un arcipelago dai contorni irregolari, dentro cui esse sono come gettate in ordine sparso. Nelle loro vicinanze si trovano le Cicladi, che – invece – sono ben ordinate in circolo. Sporadi si dicono anche quelle stelle solitarie sparpagliate nei vasti spazi celesti, al di fuori delle costellazioni maggiori e più conosciute. Non si deve stabilire qui se Staglianò si sia ispirato alle isole o alle stelle per dar titolo alla raccolta progressiva delle sue poesie. In ogni caso si può certamente intuire che egli le considera come qualcosa che sta a margine di qualche altro arcipelago, o di qualche altra costellazione, in cui di consueto naviga e viaggia col suo pensiero, con la sua riflessione, con la sua ricerca intellettuale: il sistema ben ordinato delle sue pubblicazioni teologiche. In questo senso, il titolo scelto da Staglianò per i suoi libri poetici sembra essere un suggerimento a leggere e ad ascoltare le sue poesie facendo continuamente ricorso (o ritorno) alle sue pagine teologiche. Anzi, più che un suggerimento, è una sorta di avvertenza d’uso, del resto esplicitata in ogni libro, sia nelle introduzioni che lo stesso autore premette ai suoi versi, sia nelle postille ch’egli sempre accosta o fa seguire alle sue liriche. Tali postille rappresentano sintetiche trattazioni teologiche, argomentate più brevemente ma non meno lucidamente delle altre sue più lunghe e sistematiche fatiche teologiche. Coloro che via via hanno firmato le prefazioni alle raccolte di poesie di Staglianò, hanno apprezzato tutti concordemente questa compagnia – ma potremmo dire pure: questa tutela – che la teologia propriamente detta e intesa assicura alla poesia. E tutti loro, per la maggior parte teologi di professione, come per esempio Elmar Salmann, si sono cimentati col tema del rapporto che intercorre fra teologia e poesia, convenendo che l’autentica teologia non può non esprimersi, a un certo punto del suo percorso di maturazione, anche in buona poesia, giacché – mi permetto di aggiungere a mia volta – la verità è bella oltre che difficile. Le loro argomentazioni ad elogio del connubio fra teologia e poesia si riecheggiano a vicenda e, in fondo in fondo non sono molto dissimili da quelle in cui anche Staglianò indugia, nella premessa a Sporadi poetiche 3 (Ursini 2003), quando osserva opportunamente che «la poesia è il linguaggio proprio della trascendenza: del trascendersi dell’uomo verso Dio, del venire del Dio trascendente all’uomo»: «Per questa via, il rapporto tra poesia e teologia è strettissimo [...]. La teologia non è poesia: la poesia però attrae la teologia ricordandole l’incatturabilità ultima dell’Evento d’amore da cui essa proviene e sorge». Perciò, la stessa teologia «tende al linguaggio poetico anche perché si incammina sui sentieri del pensare alle soglie dell’Originario».

    Se qualche veloce sottolineatura posso tracciare in ciò che sulla poesia di Staglianò altri hanno già scritto, allora scelgo di rimarcare quanto rilevato da Gianfranco Ravasi nella prefazione a Terra di ogni terra madre (Pubblisfera 2007), dove il libro stesso è definito «uno scritto ibrido, pronto a incrociare poesia e riflessione teologica», in cui comunque «i due registri, quello teorico e il lirico, non si respingono ma si fondono», giacché – e questa mi pare l’affermazione più felice – il poeta è come un «innamorato che, però, non cessa di essere teologo». Un testo «ibrido», dunque, una sorta di Colapesce, che – come Renato Guttuso l’ha raffigurato in un suo famoso dipinto del 1985 – sta bene sulla terra ferma ma pure riesce a immergersi nelle profondità marine, senza cessare d’essere uomo in fondo agli abissi e senza smettere d’essere pesce quando si ritira all’asciutto. Per dire, insomma, che teologia e poesia non si giustappongono semplicemente, facendosi a turno da preambolo, ma si riecheggiano a vicenda, la teoria teologica modulandosi per una volta poeticamente e i versi suonando con timbro squisitamente teologico. Qualcosa del genere osserva a sua volta Giovanni Mazzillo nella postfazione di Sporadi poetiche 2 (Ursini 2000), giustamente facendo notare che quello di Staglianò è, nei suoi versi, un «modo poetico di fare teologia». Nondimeno lo stesso Mazzillo scrive in

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