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Dante rivoluzionario borghese
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E-book521 pagine7 ore

Dante rivoluzionario borghese

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In questo libro l’Autore si oppone alla visione tradizionale di un Dante che sarebbe caduto – chissà perché, proprio alla fine dell’apocalittico 1300 (mentre le strade di Firenze si insanguinavano per l’inizio della guerra civile, che proprio lui, ministro del governo in quel momento, cercherà invano di spegnere) – nella selva del peccato, e in particolare della lussuria (o dell’invidia), della superbia e della cupidigia. E che per scontare i suoi peccati decide di mettere l’universo intero in Inferno, Purgatorio e Paradiso.

L’Autore legge invece la Commedia come l’espressione e la principale testimonianza letteraria di un triplice evento epocale, di importanza fondamentale per l’evoluzione socio-politica e culturale del mondo occidentale: (1) in primo luogo, il successo iniziale, in quella Firenze che era la più rivoluzionaria delle città europee del Medio Evo, dell’emancipazione della borghesia urbana dall’aristocrazia feudale, con tutti i suoi immensi riflessi culturali e ideologici; (2) in secondo luogo, la crisi mortale della borghesia rivoluzionaria, negli anni a cavallo del XIII e XIV secolo, causata dalla schiacciante forza della Chiesa di quei tempi – e quindi, indirettamente, del feudalesimo – in Italia; crisi che porterà ben presto al trionfo delle Signorie e dei Principati, e con essi a quella nuova Italia “umanistica”, così innovativa nella cultura e nell’arte, ma così poco nuova ed “umana”, ed anzi apertamente reazionaria, nella politica; e (3) in terzo luogo, l’inizio di una visione positiva, “borghese”, dell’uomo e del mondo, l’emergere delle prime ‘eresie’ e dei movimenti riformistici della Chiesa, la risposta della Chiesa non solo in chiave repressiva, ma anche con la fine del primato del monachesimo e dell’ideologia del ‘disprezzo del mondo’, e l’istituzione innovatrice dei due ordini mendicanti predicatori, i francescani e i domenicani, che per la prima volta, all’estremo opposto dei monaci che “fuggivano dal mondo”, ora vi entravano per predicare alla gente nella loro lingua vernacolare. E tutto ciò nel contesto messianico, apocalittico e visionario del Duecento, dei profondi fermenti rinnovatori suscitati da Gioacchino da Fiore, e continuati e rinnovati dagli Spirituali francescani. Di tutto questo, Dante è potente e straordinario interprete, oltre che protagonista, impegnato fino a rischiarvi la vita. Sa di essere tale, e altro non chiede che di essere ascoltato.

LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2015
ISBN9788899565008
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    Anteprima del libro

    Dante rivoluzionario borghese - Mario Alinei

    Mario Alinei

    Dante rivoluzionario borghese

    per una lettura storica

    della commedia

    Copyright © 2015

    PM edizioni

    via XXIV Maggio, 1

    00049 Velletri (RM)

    www.pmedizioni.it

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

    Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

    ISBN 978-88-99565-00-8

    Prima edizione: settembre 2015

    Indice

    Frontespizio

    Colophon

    1.  Introduzione

    2.  L’inizio della lotta fra borghesia e feudalità in Europa e in Italia

    2.1  Premessa

    2.2  La borghesia emergente in Europa

    2.3  La borghesia emergente in Italia

    3.  La lotta della borghesia a Firenze e la militanza di Dante

    3.1  Premessa

    3.2  La lotta prima della partecipazione di Dante

    3.3  La partecipazione di Dante alla lotta

    4.  I quattro sensi della selva oscura, della via smarrita, delle tre fiere e del Veltro

    4.1  La prima terzina della Commedia

    4.2  Il rapporto fra la selva oscura dell’anti-Inferno e la divina foresta del Paradiso Terrestre

    4.3  I quattro sensi del testo poetico secondo Dante

    4.4  Una parentesi: l’epistola a Cangrande della Scala e la tesi di Bruno Nardi

    4.5  Critica dell’allegoria della selva in chiave religiosa

    4.6  Argomenti per l’interpretazione politica dell’allegoria della selva oscura

    4.7  L’allegoria delle tre fiere

    4.8  Virgilio

    4.9  L’allegoria del Veltro

    4.10  Un’ipotesi numerologica

    4.11  Conclusione

    5.  Dall’allegoria politica delle tre fiere al senso morale e al sovrasenso religioso

    5.1  Premessa

    5.2  Il rapporto fra il quadro politico e l’invidia, la superbia e l’avarizia nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso

    5.3  Invidia

    5.4  Superbia

    5.5  Avarizia/cupidigia

    5.6  Prima conclusione

    5.7  La quadruplice lettura del testo secondo Dante

    5.8  Immediata continuità fra senso letterale e senso allegorico politico; crescente discontinuità fra il senso allegorico e gli altri due sensi

    5.9  Il rapporto fra senso politico, senso morale e senso religioso: peculiarità di Dante o normalità di un periodo rivoluzionario?

    5.10  Conclusione

    6.  Lo smarrimento di Dante alla luce dei rimproveri di Beatrice, del simbolismo della processione mistica, e della profezia del DVX

    6.1  Il Paradiso Terrestre

    6.2  Gli aspetti strutturali dell’intero episodio

    6.3  L’Apocalisse evangelica e l’Apocalisse di Gioacchino da Fiore e dei Francescani spirituali

    6.4  La nuova Apocalisse di Dante

    6.5  Ricapitolando

    6.6  Il processo di Beatrice a Dante, fra i due tempi della processione mistica e prima della rivelazione

    6.7  Conclusione

    7.  Dante monarchico: rivoluzionario pentito, o rivoluzionario profeta?

    7.1  Premessa

    7.2  La sintesi del Petrocchi

    7.3  La lezione della storia sociale europea

    7.4  Dante e la scelta della Monarchia come strategia rivoluzionaria

    7.5  Le contraddittorie letture marxiste di Dante

    7.6  Il saggio di Vittorio Russo sulla Monarchia

    7.7  La Commedia

    8.  Il residuo feudale e gli altri aspetti borghesi nell’ideologia di Dante

    8.1  L’ideologia feudale nel Medio Evo

    8.2  L’ideologia borghese

    8.3  Conclusione

    9.  Conclusione

    10.  Bibliografia

    1.  Introduzione

    Lo storico è per definizione il curatore nato delle legittime ipoteche

    ernesto buonaiuti

    All’Università di Utrecht, in Olanda, dove ho insegnato per ventotto anni linguistica e letteratura italiana, il mio corso su Dante e la sua Commedia era obbligatorio per gli studenti di italiano come materia principale, ma poteva essere scelto, come materia secondaria, anche da studenti di altre materie della Facoltà di Lettere, e come tale era molto popolare. Era, infatti, sempre affollatissimo, e ancora oggi, quando torno in Olanda, incontro persone sconosciute che mi dicono con entusiasmo di avere frequentato il mio corso su Dante.

    In effetti, mi sforzavo di renderlo attuale anche per studenti stranieri, mettendo soprattutto in luce lo sfondo socio-economico e politico della Commedia, che a mio parere veniva sottovalutato, o non adeguatamente messo in luce, dai commentatori. E, per introdurlo, approfittavo del fatto che la moneta olandese — l’euro allora non esisteva — si chiamava fiorino, e veniva proprio dalla Firenze di Dante.

    Pur non essendo né un dantista, né uno storico puro, ma un linguista (specializzato, tuttavia, in semantica storica, lessicologia ed etimologia, e forse per questo consapevole dell’indissolubile rapporto fra passato e presente¹), ero convinto che avesse ragione Ernesto Buonaiuti, forse il mio primo vero maestro, quando affermava: << Lo storico è per definizione il curatore nato delle legittime ipoteche >>. Fare storia significa, in realtà, ricreare le attese del passato, e verificare se, e fino a che punto, esse siano state soddisfatte. Anche Lucien Febvre, il fondatore della scuola delle Annales, non si discostava da questo principio, quando scriveva, in termini meno ispirati ma più semplici, che la storia, per essere veramente scientifica, doveva essere in contatto diretto con la vita (Febvre 1969, 10). E questo è tanto più vero e importante per Dante, se uno storico e uomo politico di valore, e una limpida figura della nostra Resistenza, come Alessandro Passerin d’Entrèves, poteva scrivere « i problemi fondamentali che dividevano il mondo ai suoi [di Dante] giorni [...] sono in realtà stranamente affini a quelli che di nuovo ci dividono ai nostri >> (1955, 40). Ed anche recentemente, lo storico inglese Christopher Duggan ha potuto vedere nel conflitto fra Guelfi e Ghibellini una delle cause della cronica debolezza della nostra democrazia².

    Ai miei studenti, in effetti, chiedevo: se oggi uno scrittore o un poeta credente, con il sogno di cambiare il mondo e insoddisfatto sia delle istituzioni politiche che della Chiesa, decidesse di riversare in una sua opera tutta la storia contemporanea e i suoi principali protagonisti, non solo d’Italia ma di tutto il mondo, e dopo averne rievocato le imprese li giudicasse per l’eternità, distribuendoli fra Inferno, Purgatorio e Paradiso, come giudicheremmo la sua opera? Come una opera impegnata, e come tale da leggere in una chiave sostanzialmente politica, o come un’opera che si lascia interpretare in una chiave prevalentemente religiosa, se non puramente teologica? A me sembrava, allora come oggi, che la risposta fosse chiara: che la Commedia, cioè, non contenesse soltanto un altissimo messaggio riformatore, etico-politico e politico-religioso — legato soprattutto alle istanze messianiche, gioachimite e francescane spirituali, del Duecento —, ma avesse anche, e soprattutto, un valore politico moderno, di vera e propria profezia, destinata alle generazioni future che — Dante ne era certo — l’avrebbero vista realizzata. In questo modo, la partecipazione di Dante alla lotta politica, prima fra i Guelfi contro i Ghibellini, poi fra Guelfi Bianchi contro Guelfi Neri, e infine la concezione del suo nuovo programma di riforma del mondo illustrato nella Monarchia, con il suo giudizio sulla Chiesa, sull’Impero, sui Re, sui Papi e sugli altri grandi e piccoli protagonisti della storia medievale, diventavano parte integrante della nostra storia evolutiva.

    Cercavo, insomma, di rendere attuale e viva la lettura del poema; di far capire agli studenti che i personaggi e gli eventi ricordati da Dante non avevano soltanto un carattere e un ruolo locale, fini a sé stessi, comprensibili mediante uno sforzo di erudizione storica, e tutto considerato marginali per la comprensione della Commedia, ma erano, al contrario, figure ed eventi di portata europea, legati alla nostra attualità, che ci illuminano sulla nostra stessa evoluzione di uomini moderni, e che sono, naturalmente, assolutamente centrali anche per capire Dante.

    A distanza di mezzo secolo dall’inizio del mio insegnamento universitario, dopo aver letto i nuovi commenti alla Commedia pubblicati nel frattempo, e partecipato ad affollatissime, ma quasi sempre deludenti letture di Dante, ho l’impressione che la mia tesi — se posso chiamarla così — sia ancora attuale. Ed alla fine di questa mia ricerca ho finito con concludere, non senza stupore, che la Commedia, fin da quando, nel Trecento, è stata chiamata divina dal Boccaccio, è stata sottoposta, proprio dai primi Umanisti, ad un’accurata reinterpretazione in una chiave esclusivamente poetica, retorica, teologica e moraleggiante, e decisamente anti-politica, che ha inevitabilmente causato fondamentali omissioni e totali travisamenti.

    Di cosa parlo? Anzitutto, dell’omissione, fra le informazioni basilari su Dante e sulla sua opera, di quelle più significative per evidenziarne l’originario carattere rivoluzionario: la Commedia fu subito fortemente osteggiata dalla Chiesa, come vedremo più in dettaglio in seguito, e continuò ad esserlo per secoli, anche se non fu mai messa all’Indice (certamente a causa della sua enorme popolarità); tanto che le autorità ecclesiastiche ne vietarono, fino al 1791, la stampa a Roma. L’edizione del 1728, benché stampata a Roma, dovette portare l’indicazione falsa di Napoli, e inoltre fu censurata e mutilata, perché contenente passi << disdicevoli a scrittore religioso >> [cfr. Donini 1930, 69, n. 76]. La Monarchia, invece, che come libro teorico, scritto in latino, non era altrettanto popolare, fu subito, e più volte, bruciata nelle piazze, in Italia e fuori; e fu poi messa all’Indice fin dalla sua prima edizione del 1558, per rimanervi fino al 1891.

    In secondo luogo, l’interpretazione dell’allegoria iniziale della Commedia, da cui dipende, di fatto, l’interpretazione dell’intero poema: la selva, le tre fiere — la lonza, il leone e la lupa — che Dante immagina di incontrarvi all’inizio del suo viaggio. La lettura corrente è rimasta, tale e quale, quella devota, che Boccaccio e i commentatori antichi si affrettarono a diffondere, nella nuova atmosfera determinata dal trionfo della Chiesa proprio in quella lotta che aveva visto Dante protagonista sconfitto, fra oppositori e sostenitori del potere temporale della Chiesa: la selva e le fiere sarebbero, rispettivamente, i simboli della vita peccaminosa e del traviamento morale di Dante, e dei tre peccati della lussuria (o dell’invidia), della superbia e dell’avarizia; che poi il Veltro, simbolo indiscusso dell’Impero, caccerà dal mondo.

    Si ignora, così, la flagrante contraddizione fra il presunto significato religioso della selva e delle tre fiere, da un lato, e l’apparizione liberatrice di Virgilio, poeta pagano, e la profezia del Veltro, Principe laico, dall’altro. Si può davvero credere che Dante si illudesse che Virgilio e un Imperatore avrebbero salvato Dante e gli uomini dal peccato? Come non accorgersi, invece, che anche la selva e le tre fiere hanno un evidentissimo significato allegorico politico? Tanto più che gli argomenti per dimostrarlo, come vedremo, sono a portata di chiunque si provi a cercarli — per citare la principale fonte di dati di prima mano — nei sei volumi della Storia di Firenze e nei quattro delle Forschungen di Robert Davidsohn? E che Dante, nel Convivio, aveva dettato le regole precise per leggere il suo poema, ed aveva chiaramente distinto il senso allegorico sia da quello morale che da quello anagogico, cioè teologico?

    Ho quindi continuato a pensare che le mie riflessioni su Dante e sulla Commedia, nonostante il passare degli anni, non avessero perso il loro valore, per modesto che esso fosse. Che valesse la pena di far sapere, a un pubblico più vasto, che si può leggere la Commedia diversamente dall’ingenuo e trascinante entusiasmo di Benigni o della eloquenza di altri noti lettori, che però non si discostano di un passo dalla chiave di lettura tradizionale.

    Mi sono poi anche convinto, nel frattempo, e proprio nel mio campo professionale — la linguistica storica — che in pochi campi scientifici il ristagno, e la resistenza alle ondate del mutamento, in qualunque senso esse siano, possono essere così forti come nella ricerca umanistica. C’è infatti, negli studi umanistici, e forse solo in quelli, una fortissima tendenza alla reificazione dell’oggetto di studi. Per cui non si studia più una realtà, nata da un contesto reale e da esseri umani reali, con problemi reali, ma un complesso di opinioni dotte ed erudite, staccate dal mondo, su una determinata cosa, che giganteggia e ci domina perché non la vediamo più come realtà, ma come un fenomeno alieno, anche se ci illudiamo che attraverso la sua trasformazione in cosa siamo noi a dominarla³.

    A questo si aggiunga l’influenza dell’ideologia, che naturalmente non può non allungare le sue mani su un bottino così prezioso come la divina Commedia, che Dante non chiamò mai divina, ma che noi continuiamo a chiamare così, anche nelle edizioni scolastiche (esempio unico, in tutta la storia della letteratura mondiale, di modifica arbitraria del presumibile titolo originario di un’opera, e torto tanto più grande in quanto l’autore dell’opera e del suo titolo è uno dei più grandi geni dell’umanità). E una volta divinizzato, come può diventare, il povero Dante, di nuovo uomo?

    Insomma, se ho deciso di pubblicare questo libro — nonostante i difetti e le lacune di cui sono, ahimè, perfettamente cosciente —, è per contrastare la visione stereotipata di un Dante caduto — chissà perché, proprio nel 1300 (mentre le strade di Firenze si insanguinavano per l’inizio della guerra civile, che proprio lui, ministro del governo proprio in quel momento, avrebbe invano cercato di spegnere) — nella selva del peccato, e in particolare della lussuria (o dell’invidia), della superbia e della cupidigia. E che per scontare i suoi peccati decide di mettere l’universo intero in Inferno, Purgatorio e Paradiso.

    Anziché secondo questo infelice cliché, la Commedia di Dante dovrebbe essere letta, a mio avviso, come l’espressione e la principale testimonianza letteraria di un triplice evento epocale, di importanza fondamentale per l’evoluzione socio-politica e culturale del mondo occidentale, oltre che per la comprensione dei problemi, anche attuali, dell’Italia: 1) in primo luogo, il successo iniziale, in quella Firenze che era la più rivoluzionaria delle città europee del Medio Evo, dell’emancipazione della borghesia urbana dall’aristocrazia feudale, con tutti i suoi immensi riflessi culturali e ideologici, ancora oggi vitali; 2) in secondo luogo, la crisi mortale della borghesia rivoluzionaria, negli anni a cavallo del XIII e XIV secolo, causata dalla schiacciante forza della Chiesa di quei tempi — e quindi, indirettamente, del feudalesimo — in Italia; crisi che porterà ben presto al trionfo delle Signorie e dei Principati, e con essi a quella nuova Italia umanistica, così innovativa nella cultura e nell’arte, ma così poco nuova ed umana, ed anzi apertamente reazionaria, nella politica; 3) infine, in terzo luogo, l’inizio di una visione positiva, borghese, dell’uomo e del mondo, l’emergere delle prime ‘eresie’ e dei movimenti riformistici della Chiesa, la risposta della Chiesa non solo in chiave repressiva, ma anche con la fine del primato del monachesimo e dell’ideologia del ‘disprezzo del mondo’, e l’istituzione innovatrice dei due ordini mendicanti predicatori, i francescani e i domenicani, che per la prima volta, all’estremo opposto dei monaci che fuggivano dal mondo, ora vi entravano per predicare alla gente nella loro lingua vernacolare. E tutto ciò nel contesto messianico, apocalittico e visionario del Duecento, dei profondi fermenti rinnovatori suscitati da Gioacchino da Fiore, e continuati e rinnovati dagli Spirituali francescani. Di tutto questo, Dante è potente e straordinario interprete, oltre che protagonista, impegnato fino a rischiarvi la vita. Sa di essere tale, e altro non chiede che di essere ascoltato.

    Con questo non voglio assolutamente dire che non ci siano stati studiosi di Dante che abbiano visto la Commedia in modo diverso. Al contrario. Un grande dantista come Umberto Cosmo ha scritto: « La religione di Dante non fu un porto ove rifugiarsi dalle miserie della vita, fu, soprattutto, una forza ch’egli tentò di calare nella storia per trasformarla » (1930, 216). E ne vedremo altri, non meno significativi. E anche al di fuori dei dantisti, il già citato storico politico Alessandro Passerin d’Entrèves ha affermato: « La Divina Commedia è un poema non meno politico che religioso, e la ragione è da cercarsi in primissimo piano nella qualità peculiare della religione dantesca » (1955, 88). Eppure, nonostante queste e tante altre prese di posizione simili, nessuno studioso ha mai sentito la necessità di rivedere tutta l’opera di Dante alla luce dei grandiosi fermenti rivoluzionari del suo tempo. Tenendo anche conto che è Dante stesso, con la coerenza, lo spessore strutturale e il rigore che mostra in tutta la sua opera, e in particolare nella Commedia, a chiederci di usare la stessa misura nel ricostruire la fitta trama che lega la sua opera alla sua vita e al suo secolo, e all’immenso ruolo che la politica rivoluzionaria della borghesia ebbe in entrambi.

    Nel corso del mio lavoro, e soprattutto ogni volta che dovevo confrontarmi con l’immensità della bibliografia dantesca (immensità che spazia nel tempo, perché comincia subito dopo Dante, e non smette più di crescere; nella tematica, perché non c’è aspetto della vita e delle opere di Dante su cui non sia stato scritto tutto e il contrario di tutto; e nello spazio, perché ci sono specialisti di Dante in ogni paese del mondo occidentale, e spesso di straordinario valore), mi sono spesso chiesto se fosse legittimo scrivere qualcosa su Dante senza avervi dedicato tutta la vita. Se, nonostante i miei dubbi, ho finito col rispondere di sì, ciò è stato anche per queste considerazioni: prima di me c’era già stato Antonino Pagliaro, dantista di riconosciuto valore (cfr. la voce di Aldo Vallone in ED), ma anche lui linguista di professione, ed anche lui, se pure in un’ottica teorica diversa, specialista di semantica; dopo Pagliaro, proprio la semantica, sia teorica che applicata, ha fatto enormi progressi; con i testi e con la lingua del Duecento e di Dante avevo già una speciale familiarità, acquistata grazie al progetto lessicografico e lessicologico computerizzato, da me iniziato negli anni Sessanta, degli Spogli Elettronici dell’Italiano delle Origini e del Duecento (SEIOD) (Alinei (cur.), 1968-1978), nel cui ambito ho curato lo spoglio elettronico della Commedia (Alinei (cur.) 1971), della Vita Nova (Alinei (cur.) 1971), delle Rime (Alinei (cur.) 1972), del Convivio (Alinei (cur.) 1972) e del Fiore e Detto d’Amore (Alinei (cur.) 1973). E già negli anni Sessanta, prima ancora che esistessero i computer, avevo prodotto la prima lista di frequenza del lessico della Commedia di Dante (Alinei 1963, 1965, 1965a), mettendo l’intero testo dantesco su schede perforate.

    Venendo ora alla struttura del libro, i primi due capitoli hanno un carattere storico, e in essi ho riassunto, come meglio potevo, l’immenso quadro della nascita della borghesia nell’Europa medievale e in Italia (I capitolo), e quello altrettanto immenso e complesso della sua nascita a Firenze e della partecipazione di Dante alla lotta politica (II capitolo). Chi conosce bene questa storia, e volesse venire subito al sodo, può saltarli, e cominciare dal terzo. In cui ho riletto le prime terzine della Commedia alla luce di una più coerente interpretazione allegorica. Nel quarto ho cercato ulteriori prove della mia lettura nelle altre parti della Commedia. Nel quinto ho cercato di dimostrare che anche il pentimento di Dante, dopo che Beatrice lo ha processato e condannato nel Paradiso Terrestre — nel bel mezzo della processione mistica —, è dottrinario-politico e non ha niente a che fare con i peccati di un peccatore. Nel sesto ho cercato di dimostrare che la Monarchia di Dante non rappresenta una svolta reazionaria di Dante ma, al contrario, la sua più brillante profezia politica. Nel settimo ho cercato di riassumere gli altri aspetti borghesi, e come tali rivoluzionari, dell’opera e del pensiero di Dante. E nella Conclusione ho illustrato la mia spiegazione sulle cause del perdurare, dal Trecento fino ad oggi, della lettura della Commedia a cui ci siamo dovuti abituare.

    Come appare anche dalla Bibliografia, questo libro non vuole essere un’opera erudita. L’unico settore di studi che ho cercato di approfondire è quello storico-sociale e storico-politico; per il resto, mi sono basato soprattutto sul buon senso, sul rigore logico e metodologico acquisito in mezzo secolo di ricerca, oltre che sui più noti commenti danteschi, e su conoscenze e strumenti di lavoro che sono alla portata di tutti.

    Posso solo sperare che le mie proposte, se nella sostanza sembreranno accettabili, vengano approfondite ed elaborate, molto meglio di quanto non abbia saputo fare io, da quelli, fra gli specialisti, che come me considerino la Commedia e la Monarchia, essenzialmente, come il più totale ed argomentato atto di accusa contro la società, la classe politica e le istituzioni politiche e religiose del proprio tempo, e il più luminoso sogno di una futura società felice che siano mai stati concepiti da un poeta.


    1

    v. Alinei (1996-2000, 2009)

    2

    Corriere della Sera, 24 ottobre 2009.

    3

    Vedi ora, in risposta a questa aberrante tendenza degli studi filologici, F. Benozzo, Etnofilologia. Un’introduzione, Napoli, Liguori, 2009.

    2.  L’inizio della lotta fra borghesia e feudalità in Europa e in Italia

    2.1  Premessa

    Per meglio capire la portata degli avvenimenti rivoluzionari di cui Dante fu, allo stesso tempo, protagonista e testimone eccezionale, è utile, a mio avviso, rivisitare alcune nozioni della cultura scolastica e generale, alla luce delle conquiste della storiografia moderna, oltre che delle opere dei tanti specialisti di storia medievale, in particolare di quella socio-economica, che hanno raccontato, spesso magistralmente, questo primo capitolo della rivoluzione borghese, così importante per la nostra storia e per la nostra identità: da Henri Pirenne (1927, 1967)) a Marc Bloch (1984, 1990), Georges Duby (1966-67, 1976ab, 1976, 1977, 1980, 1984, 1985, 1988, 1991), Jacques Le Goff (1957), Jürgen Kuczynski (1957), Maurice Dobb (1958), Otto Brunner (1980) e C.H. Haskins (1972) per l’Europa, da Alfred Doren (1937) a Gino Luzzatto (1963, 1967), L.A. Kotel’nikova (1975), John K. Hyde (1977) e AA.VV. (1982, 1985, 1986) per l’Italia, da Robert Davidsohn (1896-1927, 1896-1908) ad Alfred Doren (1901, 1908), Isidoro Del Lungo (1921), Gaetano Salvemini (1960, 1972) e Nicola Ottokar (1962) per Firenze.

    Nonostante l’importanza di questa lunga e grande tradizione di ricerca, tuttavia, non si può dire che i suoi risultati abbiano raggiunto la scuola e la cultura generale: storia sociale ed economica, nel loro duplice rapporto con quella politica e con quella culturale, restano ancora lontani dall’insegnamento pubblico. Forse anche per questo la Commedia di Dante viene ancora letta in maniera superficiale, riduttiva, troppo poco storica, e troppo retorica o teologica.

    Come tutti abbiamo appreso, la storia italiana ed europea viene suddivisa in tre periodi fondamentali: Evo Antico, Medio e Moderno. La tripartizione non ha perso nulla della sua validità, ma il suo vero significato va reso esplicito — ciò che la tradizione scolastica non fa — e alla luce di questa esplicitazione vanno rivisti anche i confini fra le tre epoche.

    Tralasciando l’Evo Antico, che non ci interessa, il Medio Evo ha un nome che non ci dice assolutamente niente di sé, tranne che si trova fra l’Antico e il Moderno. Inoltre viene fatto iniziare, negativamente, con la fine dell’Impero Romano, mentre dovrebbe iniziare, positivamente, con le invasioni dei popoli germanici. E non tanto perché la conquista militare dell’Italia, della Francia e della Spagna sia di per sé un evento epocale, quanto perché con quella conquista i Germani introdussero, positivamente, un nuovo sistema socio-economico chiamato feudalesimo (da feudo, parola germanica, legata all’allevamento del bestiame e alla gestione della proprietà agricola, come spiegheremo meglio dopo), basato su un modello piramidale di trasferimento di potere, dal re ai feudatari e, in particolare, sulla sua trasmissione ereditaria: nobili si nasce, e chi non ha questa fortuna peggio per lui. Dovrebbe quindi essere chiamato, più appropriatamente, Evo Feudale, in quanto per tutta la sua durata (che, come vedremo, va ben oltre l’inizio del cosiddetto Evo Moderno), la sua classe egemone è l’aristocrazia o nobiltà, che eredita i feudi, e con essi il potere.

    Anche l’Evo Moderno ha un nome assolutamente privo di contenuto: ci fa sapere solo che è ancora il nostro, e che quindi non è ancora finito. Per di più, la tradizione scolastica lo fa iniziare con l’Umanesimo e il Rinascimento, perché questi movimenti furono i primi ad introdurre elementi fortemente innovatori nella cultura medievale. Anche qui, la storiografia critica ha detto molte cose più rilevanti. Ed è importante soffermarsi su di esse perché Dante rappresenta proprio, emblematicamente, la spinta più forte che la letteratura italiana dell’epoca abbia espresso verso il nostro tempo, pur essendo ancora profondamente radicato nel vecchio.

    Se infatti si parte dall’idea, difficilmente confutabile, che l’Evo Medio dovrebbe coincidere, in realtà, con l’Evo Feudale, diventa chiaro, allora, che il carattere specifico dell’Evo Moderno, rispetto a quello che lo precede, è dato dalla classe egemone che si è sostituita a quella feudale: quella borghese. Per cui dovrebbe essere chiamato, più appropriatamente, Evo Borghese. Una classe egemone, quella borghese, che non solo ha introdotto un nuovo tipo di economia, quella capitalista; ma ha anche stabilito un nuovo sistema di gestione del potere, basato sulla democrazia parlamentare, e quindi sul diritto di ciascun cittadino a farsi rappresentare in parlamento, affermando, allo stesso tempo, una nuova visione del mondo e dell’individuo, contrapposta a quella feudale: nobili, cioè migliori (nel senso di più bravi e quindi più ricchi) degli altri, non si nasce per diritto ereditario, ma si diventa per capacità personali. Per quanto riguarda l’inizio del cosiddetto Evo Moderno, tuttavia, Umanesimo e Rinascimento, pur essendo profondamente innovatori sul piano culturale, a livello politico restano pienamente, ed anzi si potrebbe dire supinamente — nel senso che la politica lascia completamente indifferente gli Umanisti —, nell’ambito dell’Evo Feudale. Per cui non sono affatto moderni: Dante, in realtà, lo è molto più di loro.

    Se vediamo, come si dovrebbe, l’Evo Moderno come Evo Borghese, e se diamo a questo nuovo nome il valore che dovrebbe avere, cioè di gestione politica, allora ci rendiamo conto che l’Evo Borghese, a differenza di quello Feudale — che in tutta Europa ha un inizio pressoché contemporaneo — ha un inizio differenziato in ciascun paese europeo, a seconda di quando la borghesia locale ha conquistato definitivamente il potere, e lo ha gestito attraverso la democrazia parlamentare: quindi non prima della fine del Seicento, nel primo paese europeo — l’Inghilterra — in cui, come vedremo, la rivoluzione borghese ha raggiunto definitivamente il suo obiettivo e, per la maggioranza dei paesi europei, addirittura nell’Ottocento; per non parlare di quelli europei orientali in cui questo sta avvenendo solo ora.

    Ora, se ricordiamo che il processo di formazione della borghesia europea e della sua emancipazione dal feudalesimo medievale si manifesta in tutta Europa a partire dai secoli XI e XII, ci rendiamo conto che ci sono voluti non meno di cinque secoli, dal XII al XVII, perché la borghesia, da classe emergente, ma ancora dominata dal potere feudale, diventasse per la prima volta, e solo in un singolo paese europeo, classe dominante a tutti gli effetti. E se, come vedremo, Dante non solo ha previsto questa vittoria, ma ha anche individuato le condizioni per il suo raggiungimento, sarebbe allora giusto chiamarlo profeta.

    Su tutto questo ci soffermeremo nei prossimi capitoli. Ciò che ora è utile capire è che nella storia, anche contemporanea, ci può essere una profonda divergenza fra la linea di sviluppo strettamente economica, sociopolitica e istituzionale, e quella ideologica e culturale: la prima è legata alla effettiva gestione del potere da parte di una nuova classe egemone, la seconda alle anticipazioni ideologiche e culturali della nuova classe, nel suo periodo emergente.

    Come tutti sappiamo, anche il Medio Evo viene suddiviso, tradizionalmente, in Alto e Basso Medio Evo: una suddivisione, anche questa, puramente cronologica, e priva di contenuti espliciti, dato che si limita a distinguere un primo periodo, più antico (alto) da un secondo, meno antico (basso). Ma che diventa molto più chiara se viene anch’essa rapportata alla fondamentale differenza fra il primo periodo, in cui il feudalesimo è l’unico ed esclusivo protagonista, e il secondo, ormai già profondamente influenzato, se non dominato, dalla borghesia emergente. I grandi poeti ed artisti italiani del Duecento e del Trecento — cioè del Basso Medio Evo — in realtà sono già una potente espressione di interessi e di valori dell’Evo Borghese. Dante, per di più, non solo esprime, in modo geniale, fondamentali esigenze autenticamente borghesi, ma partecipa anche, in prima persona, e rischiando la vita, alla lotta politica per la conquista del potere della borghesia a Firenze, diventandone uno dei principali protagonisti.

    Ecco perché, per apprezzare veramente sia la novità rivoluzionaria di Dante, sia le forme tradizionali che egli dà alla sua visione, è necessario tenere presente che la sua morte, nel 1321, avviene più di tre secoli prima della conquista definitiva del potere, da parte della prima borghesia europea, e quasi sei secoli prima che questo avvenga nel suo paese, l’Italia.

    Vedremo fra poco come l’Italia, in questo vasto quadro europeo delle prime lotte della borghesia per la conquista del potere, conquisti un posto di primo piano e, in alcuni settori, di assoluto primato. E, nel prossimo capitolo, vedremo anche come Firenze diventi il centro mondiale di quello che è stato chiamato proto-capitalismo. Ma prima di addentrarci nel contesto italiano e fiorentino che ci permetterà poi di collegarci a Dante e alla sua posizione politica, prima di Guelfo, poi di Guelfo Bianco, e infine di Ghibellino assolutamente sui generis, dobbiamo ancora insistere su un punto fondamentale: quando ci trasferiamo dal livello di un’opposizione socio-economica fra capitalismo e feudalesimo, fra borghesia e nobiltà, a quello di un’opposizione culturale, questa prende la forma di un contrasto fra una concezione della vita aristocratica, basata sui "diritti di un potere ereditario", trasmesso senza merito da una generazione all’altra, da individui privilegiati per nascita, e che si presenta quindi come un potere eterno; e una concezione della vita borghese, basata sui "diritti dell’individuo" di realizzarsi liberamente attraverso le proprie capacità personali, e quindi sul riconoscimento del merito individuale. Un’opposizione, quindi, fra privilegio ereditario e merito personale, fra nobiltà di sangue e nobiltà d’animo, fra tirannia e libertà, fra potere aristocratico e autoritario di pochi fortunati, nati nobili, e come tale sancito per sempre da una legge che non conosce discussione o modifica, e un potere democratico, ottenuto, invece, attraverso la discussione, rinnovabile di volta in volta, in "parlamenti" (luoghi ed occasioni per parlare) da parte di rappresentanti democraticamente eletti dalla base sociale.

    In tutte queste e in molte altre questioni, come vedremo, Dante prende una posizione autenticamente rivoluzionaria, che però, proprio perché autentica per il concreto contesto storico in cui avviene, non è né estremistica né velleitaria, e sarà quindi anche incline a conservare quanto, del feudalesimo, doveva e poteva essere salvato. Troppo spesso, nel parlare, seguendo una tradizione di pensiero sostanzialmente acritico, di un Dante reazionario, isolando certe sue posizioni dal contesto globale, ci si dimentica che qualunque rivoluzione, nella storia umana, ha sempre adottato quanto di buono il vecchio sistema aveva lasciato.

    Cominceremo quindi con il riassumere, a grandi linee, il formidabile sviluppo della borghesia nell’alveo della società feudale.

    2.2  La borghesia emergente in Europa

    2.2.1  Decorso plurisecolare e multiforme della rivoluzione borghese

    Anche se la borghesia, come classe rivoluzionaria, ha ovunque in Europa lo stesso programma socio-economico, cioè la sostituzione del feudalesimo agrario con il capitalismo industriale e finanziario e il libero commercio, per realizzarlo deve conquistare il potere politico. E, come abbiamo anticipato, in ogni paese europeo questo obiettivo viene raggiunto in tempi diversi, a seconda delle forze presenti in campo. Sul piano economico, industria, finanza e libero commercio si affermano ben presto in Europa, e in particolare a Firenze, la cui moneta, il fiorino, diventa, come è stato detto, il dollaro medievale e i cui banchieri ed industriali conquistano il mondo. Ma senza potere politico completo, e un mercato sufficientemente ampio (esigenza che più tardi darà corpo territoriale alle diverse nazioni europee), il capitalismo non avrebbe mai potuto decollare veramente. Lo scarto cronologico fra i secoli XI e XII delle origini e quelli, molto più tardi, della conquista del potere, è dovuto alla maggiore o minore forza degli ostacoli politici che la borghesia di ogni paese europeo ha incontrato in questa sua lotta esclusivamente politica.

    Non tutti sanno che il primo episodio non durevole, ma estremamente significativo, di uno stato borghese europeo, basato su una democrazia parlamentare, è stato quello della Republiek der Zeven Verenigde Nederlanden (Repubblica dei Sette Paesi Bassi Uniti), nata nel 1588. Repubblica che segnò l’inizio di quella che gli Olandesi chiamano la loro Età dell’Oro, corrispondente all’incirca a tutto il Seicento: l’epoca in cui l’Olanda, con il suo gulden florijn (fiorino d’oro: di origine ovviamente fiorentina), il suo commercio, la sua flotta, la sua grande cultura umanistica, la sua straordinaria pittura, la sua scienza e le sue università, arrivò a dominare il mondo. Ma questo trionfo durò solo un secolo (ed in questo è paragonabile a quello, ancora più breve, di quella che si potrebbe chiamare l’ Età dell’Oro della Firenze duecentesca): perché la Repubblica, proprio per le contraddizioni che essa aveva creato, sia al proprio interno che in un’Europa ancora feudale e monarchica, poco più di due secoli dopo, all’inizio dell’Ottocento, divenne la solida Monarchia costituzionale che è ancora oggi.

    È importante notare, fin da ora, l’esistenza e l’importanza di questi trionfi transitori o, per così dire, di queste fughe in avanti della storia, in cui l’evoluzione sociale da un lato mostra in anticipo i suoi traguardi massimali, dall’altro rivela quali restrizioni è opportuno rispettare, nel contesto dell’epoca, per il raggiungimento di obiettivi meno ambiziosi, ma alla lunga più adeguati. L’Europa del XVI-XVII secolo, chiaramente, non era ancora matura per una Repubblica borghese. E questo è confermato anche dal primo paese europeo che abbia realizzato, in modo definitivo, uno stato borghese a democrazia parlamentare: l’Inghilterra. Anche qui, infatti, la cosiddetta Glorious Revolution del 1688, esattamente un secolo dopo la nascita della Repubblica Nederlandese, pose fine alla monarchia assoluta e diede inizio a quello stato borghese che fu chiamato United Kingdom of England (Regno Unito d’Inghilterra), una monarchia costituzionale, con un parlamento formato da due camere rappresentative, quella dei Commons, i Comuni medievali, parenti stretti dei più antichi Comuni italiani e francesi medievali perfino nel nome, e quella dei Lords, i vecchi Signori feudali, non completamente esautorati, ma tenuti ora sotto controllo dai più potenti Commons borghesi.

    Anche qui, tuttavia, mezzo secolo prima, c’era stata la fuga in avanti, con il breve episodio rivoluzionario repubblicano di Oliver Cromwell, del 1640, che si era concluso, quasi anticipando la Rivoluzione francese, con la decapitazione del re.

    La Rivoluzione inglese, anche se l’equiparazione del voto di un intero Comune a quello di un singolo Signore aristocratico — vigente fino a non molti anni fa — può sembrare, tre secoli e mezzo dopo, non proprio gloriosa, ha creato, con la sua originale costituzione democratica e monarchica, la piattaforma politica dalla quale la borghesia inglese si è lanciata alla conquista delle risorse e dei mercati mondiali, realizzando quell’Impero Britannico dove, fino a pochi decenni fa, non tramontava mai il sole. E, come tutti sappiamo, l’egemonia britannica è durata fino all’inizio di quella americana, quando nel mondo soffiava ormai, questa volta definitivamente, il vento del nuovo repubblicanesimo, nato dalla dichiarazione di Indipendenza statunitense del 1776, e rafforzato dalla Rivoluzione francese del 1789.

    E dobbiamo all’egemonia economica e culturale inglese (molto prima che a quella americana) l’enorme influenza dell’inglese sulle lingue europee e mondiali, così come dobbiamo all’egemonia economica e culturale fiorentina sull’Italia medievale e rinascimentale se il fiorentino è diventato lingua nazionale; e non, come affermano i nostri manuali, tuttora dominati dalla retorica umanistica, a Dante, Petrarca e Boccaccio, che sono invece la conseguenza, e non la causa, di quel successo (che sarebbe come dire che la lingua inglese oggi domina il mondo grazie a Shakespeare.

    E poi c’è stata la Rivoluzione francese. Che, anche se rappresenta lo sbocco logico e completo delle esigenze di libertà della borghesia matura, dal punto di vista della storia d’Europa, e più specificamente della borghesia europea, non ha quel ruolo quasi esclusivo che i manuali di storia italiani le attribuiscono, come elemento di rottura del feudalesimo. Ovviamente, essa è più vicina a noi — non solo cronologicamente e geograficamente, ma anche e soprattutto per le immediate ripercussioni politiche e culturali che ha avuto sul nostro Paese —, ma è avvenuta un secolo dopo quella inglese, e due secoli dopo il pur grandioso esperimento olandese.

    Ci sono dunque voluti non meno di cinque secoli, dal XII al XVII, perché la borghesia, da classe emergente ma ancora dominata dal potere feudale, diventasse per la prima volta, in un singolo paese europeo, classe dominante a tutti gli effetti.

    Per le stesse ragioni storiche è bene ricordare, dall’altra parte della barricata, che il feudalesimo, come sistema di potere, è restato in vigore, con variazioni irrilevanti, in molti paesi europei, fino all’Ottocento: In Italia Settentrionale, per esempio, fino alla Rivoluzione Francese e, nel nostro Mezzogiorno, fino all’inizio dell’800. E i suoi residui sono ancora visibili in tutto il nostro Paese.

    Quando dunque parleremo di lotta per la conquista del potere da parte della borghesia medievale italiana, e più in particolare di quella della Repubblica fiorentina, il dato di fatto dal quale dovremo partire, per giudicare correttamente eventi e protagonisti, non è soltanto che si tratta di una lotta iniziale, ma di una lotta che sappiamo già perdente e che ha, anche per quanto riguarda il suo anelito repubblicano, tutte le caratteristiche di una fuga in avanti.¹ Perché mentre in Inghilterra e in Olanda la lotta della borghesia continua in modo progressivo e lineare fino al successo finale, che si realizza nell’alveo di una monarchia finalmente domata, in paesi come l’Italia, la Francia, il Belgio e la Germania, per non parlare dell’Europa orientale, essa di fatto abortisce, e si conclude con la restaurazione del potere feudale più totale, tipico delle Monarchie assolute, e in Italia delle Signorie e dei Principati. In Italia, in particolare, dopo la prima, possente e straordinaria esplosione rivoluzionaria dei Comuni del Nord, la profonda, ed altrettanto straordinaria crisi che subentra, all’alba del Trecento, continuerà, sostanzialmente, fino al Risorgimento. Il fatto che, come vedremo, in Italia settentrionale, in Toscana e in particolare a Firenze, così come anche nelle Fiandre, questa lotta abbia acquistato caratteri di vera e propria rivoluzione armata, con la creazione di eserciti popolari, scontri

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