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Studium - Marino Gentile
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E-book274 pagine4 ore

Studium - Marino Gentile

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Info su questo ebook

Una sezione monografica di grande interesse dedicata a Marino Gentile (1906-1991), filosofo e pedagogo italiano del '900, con interventi di Enrico Berti, Francesco Lioce, Massimo Naro, Gabriele De Anna, Carla Xodo, Mirca Benetton, Maria Cristina Bartolomei, Giorgio Alessandrini, Fabio Pierangeli.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2016
ISBN9788838245046
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    Anteprima del libro

    Studium - Marino Gentile - Fabio Pierangeli

    Giuseppe Dalla Torre, Elvio Ancona, Enrico Berti, Maria Cristina Bartolomei, Gabriele De Anna, Carla Xodo, Mirca Benetton, Francesco Lioce, Massimo Naro, Giorgio Alessandrini, Claudia Villa, Paolo Carusi, Fabio Pierangeli

    MARINO GENTILE

    ISBN: 9788838245046

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    VINCENZO CAPPELLETTI. La pace come finalità.

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Referendum

    Marino Gentile. A cura di Elvio Ancona

    ENRICO BERTI. Marino Gentile e il Motore immoto

    MARIA CRISTINA BARTOLOMEI. La potenza del domandare

    GABRIELE DE ANNA. Marino Gentile e la normatività dell’azione umana

    CARLA XODO E MIRCA BENETTON. Sviluppi pedagogici nel pensiero di Marino Gentile

    LETTERATURA

    GABRIEL VALLE. Le lingue della filosofia: una guida per la diaspora

    FRANCESCO LIOCE. Montale da ‘Flashes’ e dediche a Botta e risposta I

    MASSIMO NARO. Una vita di Cristo: «biografia di me e di tanti altri»

    TESTIMONIANZE

    GIORGIO ALESSANDRINI. Tardini Montini Ottaviani

    LECTURAE DANTIS VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE

    CLAUDIA VILLA. Letture Classensi 2016: Dante e i miti

    OSSERVATORIO POLITICO. A cura di Paolo Carusi

    ALDO MORO. Concezione cristiana del lavoro

    RASSEGNA BIBLIOGRAFICA - LETTERATURA

    FABIO PIERANGELI. La letteratura e l’esperienza dei luoghi

    LA NOSTRA BIBLIOTECA

    Federico Creatini

    Nunzio Bombaci

    A questo numero hanno collaborato:

    GIUSEPPE DALLA TORRE, rettore emerito, Università LUMSA, Roma.

    ELVIO ANCONA, professore aggregato di Filosofia del diritto, Università di Udine.

    ENRICO BERTI, professore emerito di Storia della filosofia, Università di Padova.

    MARIA CRISTINA BARTOLOMEI, professore associato di Filosofia della religione, Università di Milano.

    GABRIELE DE ANNA, professore di Filosofia, Università di Bamberga (Germania), e professore aggregato, Università di Udine.

    CARLA XODO, professore ordinario di Pedagogia generale e sociale, Università di Padova.

    MIRCA BENETTON, professore associato di Pedagogia generale e sociale, Università di Padova.

    FRANCESCO LIOCE, dottore di ricerca in Letteratura italiana, Università Roma Tre.

    MASSIMO NARO, professore di Teologia sistematica, Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo, e direttore del Centro Studi Cammarata per la Ricerca sul movimento cattolico, Sicilia.

    GIORGIO ALESSANDRINI, sacerdote, svolge il servizio pastorale presso la parrocchia S. Fulgenzio, Roma.

    CLAUDIA VILLA, professore ordinario di Filologia medioevale e umanistica, Università di Bergamo e Università di Pisa.

    PAOLO CARUSI, ricercatore in Storia contemporanea, Università Roma Tre.

    FABIO PIERANGELI, professore associato di Letteratura italiana, Università Tor Vergata, Roma.

    VINCENZO CAPPELLETTI. La pace come finalità.

    La guerra è decaduta da momento primario della storia. La coesistenza dei grandi soggetti geopolitici è la nuova, innegabile realtà, che si propaga dalle grandi alle medie entità statuali. È un processo che sembra lento, e invece è oltremodo veloce e ormai irreversibile. Ma l’irreversibilità chi la garantisce? La vita e la sua prerogativa sostanziale. Non si torna sui passi dell’esserci, dell’esistere. Stiamo vivendo una straordinaria vicenda, accaduta in tempo brevissimo e unica nella storia. Sono scomparsi soggetti storici primari, su scenari nazionali e su quello internazionale. Nessuno avendo la possibilità di ripristinare le guerre continentali, si assiste a conflitti che provvidamente non giungono a mettere in atto la possibilità di un terzo conflitto mondiale, dopo i due primi del secolo scorso, che pure aveva acquisito un’elevata possibilità – oseremmo aggiungere astratta, teorica – di verificarsi. Storia, quella che stiamo vivendo, di altissimo e paradossale interesse, teorizzata fino a giorni recenti, sotto l’egida del conflitto mondiale nella forma ipotetica di un’ecatombe inevitabile. La guerra, nella forma del conflitto mondiale che aveva assunto, e della distruzione che era giunta a minacciare per il cuore pulsante della civiltà, l’Europa e l’Asia, è assai più lontana di ieri. Coraggiosamente, occorre con gioia non dissimulata aprire un discorso nuovo sulla vicenda del mondo. È ancora troppo evidente il prezzo che si paga al catastrofismo degli anni Settanta e Ottanta. Pur fra contraddizioni oltremodo dolorose, l’odierno compito della coscienza umana è quello di prendere atto di un compito immane, che la vittoria della pace ha saputo conseguire. È un mondo nuovo che attende di sostituire un programma di vita alla perplessità, al terrore del ritorno su posizioni che la storia, letta con coraggiosa concretezza e sagace realismo, si rifiuta di mettere all’ordine del giorno della propria vicenda. Ci riteniamo impegnati a cercare una finalità per la pace, che abbia l’ineludibile concretezza del presente e la suggestione di un futuro al quale la vita non intende rinunciare. Perché la pace, quale finalità la sorregge, a che cosa la pace funge da premessa, escluso il banale quieto vivere? Difficile, perché non evidente e tutto da costruire, il discorso sulla coesistenza. Forse l’orizzonte si allarga, dalla Terra all’Universo. E facendo questo, attinge la sua vera e profonda suggestione spirituale, la sua autentica finalità cristiana.

    Vincenzo Cappelletti

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Referendum

    "Ad referendum...", vale a dire essere chiamati a riferire, ad esprimere il proprio parere.

    All’immediata, evidente, facile etimologia della denominazione dell’istituto, risponde un assai diffuso convincimento, secondo il quale il referendum sarebbe lo strumento più democratico nella gestione della cosa pubblica. Per questo modo di sentire, gli istituti di democrazia diretta – tra cui primeggia, appunto, il referendum – farebbero aggio su quelli di democrazia rappresentativa, nella misura in cui consentirebbero al cittadino di far valere la propria opinione senza le intermediazioni della rappresentanza politica, sempre a rischio di mancanza di fedeltà o quantomeno di debole rispondenza alle volontà dei rappresentati. La partecipazione diretta dell’elettorato alla determinazione della volontà del legislatore induce a ritenere più democratico questo sistema di partecipazione del cittadino alla vita pubblica.

    A voler essere pedanti, guardando indietro nella storia, bisognerebbe distinguere, poiché al termine rispondono esperienze diverse. Come annotava un grande costituzionalista, tra gli artefici della nostra Costituzione, Costantino Mortati, «la parola referendum era impiegata originariamente per designare l’interpellazione che i delegati eletti dovevano fare ai loro elettori quando nelle assemblee cui partecipavano sorgevano questioni che non erano comprese nel mandato imperativo conferito ai delegati stessi. Costoro, appunto perché legati alle istruzioni impartite, dovevano portare la questione "ad referendum". Cosa diversa il plebiscito, istituto che trae la sua denominazione da plebs, plebe, chiamandosi a Roma plebisciti le deliberazioni della plebe. Dunque ciò che indichiamo oggi con il termine referendario si avvicina piuttosto all’antico concetto del plebiscito: plebis-scitum, vale a dire l’ordine della plebe».

    Non è il caso di entrare in questa sede nelle distinzioni che, alla luce delle odierne esperienze democratiche, i costituzionalisti fanno tra referendum e plebiscito. È invece interessante porsi la domanda se davvero il referendum sia istituto più democratico, rispetto agli istituti di democrazia rappresentativa.

    Certamente l’istituto referendario dà la sensazione all’elettore di determinare direttamente la volontà dello Stato; di incidere concretamente nella gestione della civitas. Ed in effetti nelle moderne democrazie, fondate sul principio della sovranità popolare, il ricorso a codesto istituto costituisce un momento di riappropriazione da parte del popolo sovrano delle proprie attribuzioni e di esercizio diretto dei propri poteri.

    Ma, ripetesi, è per questo più democratico?

    Il dubbio è quantomeno legittimo. In realtà sono molte le ragioni che inducono a ritenere, viceversa, più democratici gli istituti rappresentativi, tra cui un paio mi sembrano particolarmente rilevanti.

    La prima riguarda i profili tecnici dei due sistemi, con le conseguenze che producono e le possibilità che permettono. Il referendum non ammette che un sì od un no; al massimo consente l’astensione, per significare una posizione terza, differente, rispetto alle due sole risposte possibili. Gli istituti di democrazia rappresentativa, invece, consentono il confronto, l’approfondimento delle diverse tesi, l’avvicinamento degli estremi, che possono nel dialogo – anche serrato, anche polemico – portare a soluzioni di compromesso, maggiormente condivise, più soddisfacenti per tutti o quantomeno per una più ampia cerchia di cittadini. Il referendum sembra rispondere più alla logica dello ius quia iussum, del diritto che è tale perché comandato, che quindi può correre il pericolo di avvicinarsi a quella che talora viene detta la tirannia della maggioranza; la partecipazione per rappresentanza sembra rispondere maggiormente alla logica dello ius quia iustum, del diritto che è tale perché giusto, nella misura in cui – come teorizzarono i canonisti dell’età di mezzo – dall’apporto dialogico e dialettico dei più dovrebbe risultare più agevole l’avvicinamento alla recta ratio, dunque il perseguimento di ciò che è giusto.

    La seconda ragione attiene piuttosto alla pratica fattibilità. L’istituto referendario può essere utilmente utilizzato nella misura in cui si tratti di grandi scelte, di quesiti chiari e di questioni non tecnicamente complesse, di interrogativi nei quali non possa esserci che una risposta positiva o negativa. Si tratta in particolare di questioni che davvero interessano tutti, perché, come ha insegnato il diritto romano, "quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet": quello che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti.

    Viceversa è da pensare nel caso in cui le questioni da decidere siano molto tecniche, complesse, riguardanti solo alcuni settori della società, implicanti peculiari conoscenze e particolari approfondimenti, non prestandosi di conseguenza ad un interpello generale, ad una risposta sempre consapevole. Il ricorso al referendum richiede evidentemente luoghi dove possa svolgersi un’attività di discernimento dei pro e dei contro; azioni di informazione e formazione dirette ad illuminare la coscienza dell’elettore per delle scelte razionali; momenti di confronto tra le due diverse opzioni, con illuminazione sulle conseguenze dell’una e dell’altra scelta. Da questo punto di vista una forte presenza di formazioni sociali, a cominciare dai partiti e dai sindacati, ma anche di altre aggregazioni, dove l’individuo possa trovare approfondimenti e schiarimenti, è un presupposto indispensabile per un fruttuoso ricorso all’istituto di democrazia diretta.

    Lontano da idee ottocentesche materiate d’utopia, alimentate talora, ancora oggi, da racconti su villaggi elvetici in cui gli elettori esprimono lo ius activae civitatis per alzata di mano nella piazza del paese, l’istituto del referendum può essere utile in una moderna democrazia se vi si fa ricorso raramente; in particolare se si utilizza laddove rimanga il dubbio, su questioni generali e che toccano i grandi principi, che il Paese legale non rifletta il sentire del Paese reale.

    Una conferma di quanto detto sin qui viene dalla storia. Questa in particolare si premura di dimostrare che l’istituto referendario può essere addirittura pericoloso per la democrazia, permettendo o favorendo svolte autoritarie. Basti pensare alle note vicende che segnarono la storia politica della Francia nel 1851 e che portarono alla fine della Seconda Repubblica. Fu, infatti, grazie ad un referendum che il presidente Luigi Napoleone Bonaparte pose fine alla forma repubblicana dello Stato, proclamandosi imperatore dei francesi col nome di Napoleone III.

    La Costituzione italiana, come noto, prevede due forme di referendum.

    La prima, meramente abrogativa di leggi o atti aventi valore di legge, è contemplata nell’art. 75. Si tratta di un istituto che ha trovato attuazione tardiva nella storia repubblicana, e precisamente nel caso del referendum sulla legge sul divorzio, svoltosi nel 1974. Da allora, specie sotto la spinta di una sistematica strategia dei radicali, il ricorso all’istituto si è vieppiù sviluppato, abbracciando tematiche non sempre rientranti nei logici e giusti limiti sopra accennati. Difatti, accanto alle grandi questioni valoriali, che giustamente coinvolgono tutti e nelle quali una risposta secca in senso favorevole o contrario è possibile, come nel caso del divorzio, dell’aborto, della procreazione medicalmente assistita, si sono toccate questioni assai tecniche, difficilmente discernibili da parte della generalità dei votanti, spesso riguardanti solo categorie o porzioni della cittadinanza (si pensi solo all’ultimo, del 17 aprile scorso, riguardante la proroga delle concessioni di estrazioni di idrocarburi entro le 12 miglia marine).

    Dal 1974 si sono celebrati 67 referendum abrogativi: una enormità, che ha portato ad una disaffezione dell’elettorato chiamato alle urne. Ma vi è stato di più, nel senso che talora la funzione di verifica tra Paese legale e Paese legale del referendum è stata completamente disattesa: si pensi alla consultazione del 12-13 giugno 2005, promossa dai radicali, sulla legge relativa alla procreazione medicalmente assistita, miseramente fallita per non raggiungimento del quorum (andò a votare solo un quarto degli aventi diritto). Ma il risultato del referendum, che nell’astensione indicava chiaramente il sentire del corpo sociale, non impedì a Parlamento e magistratura di stravolgere completamente – nei principi ispiratori e nelle norme – la legge n. 40 del 2004.

    La Costituzione prevede poi una ulteriore fattispecie referendaria. Essa è contenuta nell’art. 138, relativo alle leggi di revisione della Costituzione e alle altre leggi costituzionali, le quali «sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». La disposizione precisa che in questo caso «la legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi».

    La previsione si inserisce nel processo di formazione delle leggi in questione, che come noto è un procedimento aggravato, cioè più complesso di quello previsto per la formazione delle leggi ordinarie. Questo procedimento aggravato, che rende rigida la nostra Carta fondamentale, si giustifica per evitare quanto accadde in vigenza dello Statuto Albertino, costituzione flessibile, che con l’avvento del fascismo poté essere modificato in senso illiberale con il ricorso alla semplice legge ordinaria.

    Si deve osservare che questo giustissimo strumento di tutela della Carta, diretto a perseguire il massimo avvicinamento al principio del quod omnes tangit e ad evitare che la casa comune possa essere modificata da una piccola maggioranza, o addirittura da una minoranza, è stato indebolito in maniera significativa, ancorché sottesa e poco avvertita, con il passaggio del sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, avvenuto con legge ordinaria. L’art. 138 Cost., infatti, è stato scritto pensando ad un sistema elettorale proporzionale, non maggioritario, che rendeva di conseguenza più arduo il raggiungimento delle maggioranze previste per l’approvazione delle modifiche costituzionali da parte delle Camere. Ma ora non è più così, e la storia recente dimostra come sia stato più agevole, alla destra o alla sinistra, trovare le maggioranze parlamentari richieste per modificare la Carta. Insomma: con la modifica del sistema elettorale la Costituzione è un po’ meno rigida.

    Ora ci attende una nuova chiamata referendaria, proprio ex art. 138, per approvare o respingere le sostanziose modifiche apportate dalle due Camere in una quarantina di articoli.

    Non è intento di questo scritto entrare in valutazioni sugli aspetti positivi e negativi dei singoli punti riformati, né tantomeno dare indicazioni di voto. Del resto negli ultimi mesi le questioni sono state sufficientemente approfondite, in svariate sedi, da consentire a ciascuno un voto cosciente e responsabile.

    Qui interessa piuttosto qualche considerazione a margine.

    Una prima riguarda l’impianto della nostra Costituzione, che con una insopportabile e melensa retorica è stata detta la più bella del mondo. Certamente si tratta di un testo di particolare pregio, soprattutto nella prima parte, che è quella poi dei valori, dei principi, dei diritti fondamentali, in cui si riflette tra l’altro tutta la storia, la cultura, l’animus degli italiani. Diverso il caso della seconda parte, strumentale rispetto alla prima, nella quale le preoccupazioni di evitare un ripetersi dell’esperienza fascista hanno portato alla configurazione di un esecutivo debole rispetto ad un legislativo più forte. La tradizione italiana, specie nella c.d. Prima Repubblica, di Governi dalla brevissima vita ne è inoppugnabile cartina di tornasole.

    Un’altra considerazione riguarda precisamente l’utilizzo dell’istituto referendario per modifiche costituzionali relative alla seconda parte della Carta, quella relativa all’Ordinamento della Repubblica; utilizzo peraltro previsto dalla norma generale di cui al ricordato art. 138. Perché non c’è dubbio che per il comune elettore, per quello che si suole chiamare l’uomo della strada, che non ha specifiche competenze politico-giuridiche, dire se la soppressione del Senato sia preferibile o meno alla sua riduzione nelle forme contemplate dalla c.d. Riforma Boschi risulta assai più arduo che dire sì o no al divorzio o all’aborto. D’altra parte la casa comune, sui mutamenti della quale tutti debbono esprimersi, è definita precipuamente dai valori e dai principi contenuti nella prima parte del testo costituzionale: i diritti e le libertà fondamentali, l’eguaglianza, la solidarietà, l’uomo e le formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, la pace, l’istruzione e l’assistenza per tutti, e via dicendo.

    La realtà è che anche le Costituzioni non possunt claudicare, non possono zoppicare; fuor di metafora, o sono rigide o sono flessibili. E la rigidità della nostra Carta è una garanzia per la quale val la pena di indurre quel famoso uomo della strada ad informarsi e ad addentrarsi anche, talora, nelle tecnicalità del diritto. Del resto, siamo proprio certi che l’ordinamento e le regole contenute nella seconda parte della Costituzione, siano del tutto neutre rispetto ai valori della prima?; che modifiche di quelle non possano riflettersi, più o meno incisivamente, sui secondi?

    Giuseppe Dalla Torre

    Marino Gentile. A cura di Elvio Ancona

    Marino Gentile (1906-1991) occupa sicuramente un posto importante nella storia della filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare.

    La sua concezione della filosofia come problematicità pura si dimostra infatti quale dice di essere, veramente classica, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può non essere considerata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed attuale.

    Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica classica, Marino Gentile, proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione idealistico-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro quale principio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una posizione originale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Ugo Spirito, anche dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue varie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Gustavo Bontadini. Le sue opere più significative, in particolare Come si pone il problema metafisico (Padova 1955), Breve trattato di filosofia (Padova 1974) e Trattato di filosofia (Napoli 1987), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo.

    La fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il domandare tutto che è un tutto domandare è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio metodo, che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione.

    Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a vagliare la profondità speculativa, a cominciare dai saggi qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni studiosi che lo hanno, direttamente o indirettamente, conosciuto.

    Questa stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei contributi che presentiamo, essendo ravvisabile quale principio animatore, ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno

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