Da lontano sembra vero
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Anteprima del libro
Da lontano sembra vero - Catherine Cipolat
Catherine Cipolat, Da lontano sembra vero
1à edizione LandscapeBooks, marzo 2015
Collana Portrait n° 1
© Catherine Cipolat 2015
ISBN 978-88-99403-00-3
In copertina: Testa (Delphine)
di Lynn Yaw Boling
© Lynn Yaw Boling 2015
Progetto grafico Il Quadrotto
Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB
Catherine Cipolat
Da lontano sembra vero
Prefazione
Qualcuno ha detto che il romanzo è una storia mentre il racconto è uno stato d’animo. Altri che il romanzo sta al racconto come una lunga relazione sta all’avventura di una notte. In ogni caso, pur appartenendo alla comune famiglia della narrazione, è evidente che queste due forme letterarie sono cose distinte: il racconto non è un romanzo accorciato e chi, anche nelle scuole di scrittura, consiglia agli esordienti di cominciare dai racconti prima di passare ai romanzi è vittima di un grossolano equivoco.
Molti artisti, da Raymond Carver ad Alice Munro, hanno dimostrato quanto e più di mille trattati che la short story ha un altissimo valore letterario. Da lontano sembra vero è però un esemplare di come la forma-racconto permetta di arrivare a delle profondità inaspettate, e dimostra ancora una volta quanto sia sfortunato il panorama editoriale italiano, in cui i racconti sono esclusi dal mercato che conta, a meno che non siano opera di autori già noti.
Da lontano sembra vero raccoglie nove racconti più uno (quello che dà il titolo al libro) apparentemente slegati l’uno dall’altro ma che hanno un legame trasparente e fortissimo. Che si tratti di Caro Vincent
, in cui Catherine Cipolat immagina una storia alternativa per uno dei capolavori di Van Gogh, o di Felix, vestito di bianco
in cui una relazione ci viene riportata attraverso frammenti di mail, sms e dialoghi, c’è sempre una presenza sottile che travalica anche lo stile e la ricercatezza linguistica dell’autrice. È qualcosa che solo i veri narratori hanno, e che – senza voler trovare termini aulici – si può semplicemente definire avere qualcosa da raccontare
.
Già, perché non basta uno spunto, un messaggio, un tema, un bel vocabolario a fare un buon racconto. Serve altro: serve la materia di cui è fatta la realtà. Ed è esattamente ciò che non manca mai in questi racconti, anche quando è una realtà allucinata come in Scarsa visibilità
, o inaspettatamente cruda come in Saturnino gratta e vinci
o in Toc toc
, in cui si affronta con rara lievità un tema quanto mai scabroso e che in altre mani sarebbe diventato voyeuristico e squallido. Oppure è una realtà che assume una sua forma compiuta grazie a una sola parola, come in Chiamarsi Gabriele
, dove basta un semmai
a costruire un mondo. Insomma, una cosa è certa: in poche righe i personaggi e le storie di questi racconti rimangono dentro, più che se avessero occupato centinaia di pagine. Ed è quanto di meglio si possa chiedere a uno scrittore.
Guido Del Duca
Direttore editoriale Landscape Books
Da lontano sembra vero
Sono nata in città dove i fondali sono dipinti a pennellate veloci. Da lontano sembrano veri. Gli alberi sono di cartapesta. Gli animali di peluche, le auto di latta, i passanti di piombo, la neve è d’ovatta, la pioggia disidratata. Di notte, mentre suonano i carillon delle macchine rubate, il cielo rimane acceso: si intravedono i ladri con la calza in testa e gli stupratori in fuga. E quasi nessuno ha paura. Tutto torna. Le uova o sono di cioccolato o le trovi nascoste nel giardino la mattina di Pasqua, pure decorate. I bambini – è vero – nascono nella pancia della mamma che è come un contenitore di plastica con il pollo cotto pronto dentro, al massimo, nella versione favolosa, una scatola foderata di velluto.
Poi un giorno sono andata in vacanza in una fattoria. La figlia del contadino mungeva le mucche nella stalla e ho voluto a ogni costo aiutarla. Mi ha ceduto il suo sgabello spiegandomi con quale tono autoritario dovevo redarguire l’animale nel caso si fosse ribellato e avesse usato la coda per mandare via me o le mosche. E già questo mi aveva inquietata; mi era sfuggito che quel grosso giocattolo meccanico bianco e nero potesse avere opinioni ostili. Mi sono seduta, ho sistemato il secchio e preso le mammelle tra le dita così come mi era stato spiegato. Credevo fermamente fossero di plastica. Tolsi subito le mani. Ecco l’orrore: sentirle calde, rugose e vive e lo schizzo di latte tiepido, quasi oleoso, sul braccio.
Come quando mi chiesero, in un’altra circostanza, di aiutare a spennare un piccione che doveva finire ripieno e arrosto. L’ho preso come se niente fosse tra le mani, ho strappato con disinvoltura i primi ciuffi di penne e poi mi è sembrato che palpitasse e con terrore e anche ribrezzo ho lasciato cadere quel corpicino sul pavimento. Fortuna che il caucciù rimbalza.
Caro Vincent,
Tu non lo sai, o forse sai tutto, era gennaio quando sono morto, soltanto pochi mesi dopo di te. È l’ultimo viaggio, non so quanto duri ma conto sulla gioia di riabbracciarti al più presto, come si ricongiungono due sillabe divise da un tratto che le disunisce. Pur sapendo che ormai sei immune da ogni passione, anche se sorrido e sospetto che per te non sia possibile liberartene del tutto, tengo a raccontarti gli ultimi eventi sopraggiunti nel breve tempo trascorso tra la tua morte e la mia.
Il dottor Rey, una domenica mattina, è rimasto a lungo a dondolarsi sulla sedia, fumando il sigaro e forse riflettendo. Accarezzava il pizzetto con la punta delle dita e fissava il cielo dove non c’era né rondine né nuvola. Infine si è alzato, ha calzato le pantofole, attraversato la casa, poi il giardino, girando attorno alla cuccia del cane che abbaiava con un guaito strozzato per come tirava sulla catena fino a volerla spezzare, ed è entrato nel pollaio.
Il gallo è rimasto indifferente, mentre le galline, dallo spavento, volavano ovunque spargendo nell’aria penne nere e bianche, ma Rey non le ha considerate. Si è fermato davanti alla parete orientata a nord, quella più esposta alle intemperie. Un assemblaggio di materiali disparati, assi di legno quasi marcio, reti arrugginite legate con il filo di ferro, qualche mattone screpolato e un pannello di tela, fissato con grossi chiodi l’inverno di due anni fa. Ricordi… quando ha fatto così freddo e la neve è caduta per tutto il mese di febbraio. Tu non avevi più legna per scaldarti e i colori gelavano nei tubi. Incastrato lì per chiudere il buco da dove di notte erano entrate le volpi affamate e avevano divorato i pulcini e quasi tutte le galline, una strage.