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Il giardino dei delitti
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E-book604 pagine8 ore

Il giardino dei delitti

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Info su questo ebook

Un grande thriller
N.1 in Inghilterra

Mentre una violenta tempesta si abbatte sulla costa scozzese, la casa di Gordon Smith precipita nel Mare del Nord. 
Ed è così che il promontorio fatiscente rivela ciò che l’uomo ha sepolto per anni nel suo giardino: resti umani. Con la tempesta ancora in corso, è troppo pericoloso recuperare i corpi e le onde stanno divorando tutte le prove. Il che significa che nessuno sa quante persone Smith abbia ucciso e quante altre ne ucciderà se non verrà trovato e fermato al più presto. I media sono a caccia di scoop, le istituzioni fanno pressioni sui vertici della polizia perché il caso venga chiuso al più presto e i pezzi grossi cercano un capro espiatorio, ma l’ex ispettore investigativo Ash Henderson non ha più nulla da perdere ed è deciso a smettere di giocare secondo le regole. Questa volta farà a modo suo. Ha un assassino da catturare, e che Dio aiuti chiunque si metta sulla sua strada.

N°1 del Sunday Times 
Un autore tradotto in tutto il mondo 
Oltre 2,5 milioni di copie vendute

«Ha disseminato la Scozia di cadaveri e serial killer. Ha evocato le paure più profonde della società. Ha firmato romanzi grondanti sangue e misteri, eppure la sua scrittura è rimasta lieve. Stuart MacBride ha la rara capacità di far rabbrividire e sorridere nella stessa pagina.» 
la Repubblica 

«Stuart MacBride è l’autore di una serie infallibile di storie criminali intrise di umorismo.» 
Corriere della Sera 

«Stuart MacBride è quanto mai abile nell’usare la penna alla stregua di un machete, nel nutrire le sue “invenzioni” di raccapricciante ferocia, nel far soffrire d’insonnia i suoi fan. Un concentrato di cattiveria narrativa.» 
Il Sole 24 Ore 

«Stuart MacBride, stella del noir europeo, si conferma un Tarantino con humour scozzese.» 
Il Venerdì
Stuart MacBride
È lo scrittore scozzese numero 1 nel Regno Unito ed è tradotto in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato i thriller Il collezionista di bambini (Premio Barry come miglior romanzo d’esordio), Il cacciatore di ossa, La porta dell’inferno, La casa delle anime morte, Il collezionista di occhi, Sangue nero, La stanza delle torture, Vicino al cadavere, Scomparso, Il cadavere nel bosco, Strade insanguinate e Appuntamento con la morte, con protagonista Logan McRae; Cartoline dall’inferno, Omicidi quasi perfetti e Il giardino dei delitti, che seguono le indagini del detective Ash Henderson; Apparenti suicidi; Il ponte dei cadaveri. MacBride ha ricevuto il prestigioso premio CWA Dagger in the Library e l’ITV Crime Thriller come rivelazione dell’anno.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2021
ISBN9788822752369
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    Anteprima del libro

    Il giardino dei delitti - Stuart MacBride

    EN2870.cover.jpglogo-EN.jpg

    2870

    La citazione «Sauf’, und würg’ dich zu Todt!» è tratta dall’opera Siegfried

    di Richard Wagner, rappresentata per la prima volta al Festival di Bayreuth,

    in Germania, il 16 agosto 1876.

    Titolo originale: The Coffinmaker’s Garden

    Copyright © Stuart MacBride 2021

    Published in the English language by

    HarperCollinsPublishers Ltd. 2021.

    Stuart MacBride asserts the moral right

    to be identified as the author of this work.

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Emanuele Boccianti

    Prima edizione ebook: giugno 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5236-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Punto a Capo, Roma

    Stuart MacBride

    Il giardino dei delitti

    marchio.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Ringraziamenti

    La tempesta si avvicina

    1

    Pensieri e preghiere

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    Buon compleanno di morte a te

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    Le cose possono sempre peggiorare

    19

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    Che i vecchi amici si debbano dimenticare?

    27

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    33

    – sauf’, und würg’ dich zu todt! –

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    42

    43

    nell’oscurità, a sanguinare…

    44

    45

    46

    47

    48

    49

    Signori, si chiude

    50

    In ricordo di Marion Chesney

    (alias M.C. Beaton)

    testa calda, forza della natura ed eccellente scrittrice

    i cui libri hanno dato gioia a milioni di persone

    compreso il sottoscritto

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o esisti-

    te, avvenimenti, società, organizzazioni e luoghi reali ha l’unico scopo di dare alla narrazione un senso di realtà e autenticità. Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi e i fatti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia, e qualunque eventuale somiglianza con fatti o persone reali è del tutto casuale. Unica eccezione è il personaggio di Jane Jopson che l’autore è stato autorizzato a romanzare e inserire nel volume. Tutti i tratti comportamentali e caratteriali a lei assegnati sono stati ideati per esigenze narrative e non comportano necessariamente una somiglianza con la persona vera.

    Ringraziamenti

    Come sempre, ho avuto molto aiuto da tanta, tanta gente durante la stesura di questo libro, perciò vorrei cogliere quest’occasione per ringraziare: il sergente Bruce Crawford, celebrità dell’Isola di Skye e dello schermo, che risponde a molte più domande stupide di quanto sarebbe lecito aspettarsi da chiunque, come pure i miei guru forensi: il professor Dave Barclay, il professor James Grieve e sua assoluta squisitezza la professoressa Sue Black; poi ci sono Julia Wisdom, Jane Johnson, Kathryn Cheshire, Jaime Frost, Ann Bissell, Linda Joyce, Anna Derkacz, Isabel Coburn, Alice Gomer, Charlie Redmayne, Roger Cazalet, Kate Elton, Hannah O’Brien, Sarah Shea, Abbie Salter, Adam Humphrey, Charlotte Cross, Ben Wright, Anne O’Brien, Marie Goldie, la DC Bishopbriggs Naughty Book Brigade e chiunque alla HarperCollins, per tutte le faccende di editoria; Phil Patterson e la squadra di Marjacq Scripts, per aver rifornito i miei numerosi gatti di cibo; Craig Robertson, Alexandra Sokoloff e tutti quelli del Bute Noir per la loro ospitalità; Allan Guthrie per essere stato ancora una volta un eccellente lettore beta.

    Tra un ringraziamento e l’altro, ce n’è uno anche per tutti i librai e i bibliotecari il cui entusiasmo e la cui dedizione ispirano ognuno di noi ad aprire nuove strade. Senza dimenticare te, che leggi questo libro! Il mondo sembra diventare ogni giorno più stupido e cattivo, ma è la gente che legge a far sì che resti un poco più sano e luminoso. È a te che rendo omaggio, amico mio.

    Com’è mia abitudine, ho tenuto i migliori per ultimi: Fiona e Grendel (con una menzione per Cipolla, Barbabietola e Cetriolino, che non sono stati granché d’aiuto ma neppure hanno interferito troppo [eccetto Barbabietola]).

    La tempesta si avvicina

    1

    "…Dopo che la New Aryan Crusade ha rivendicato la responsabilità dell’attentato. Il vicepresidente americano lo ha definito un attacco vile e ripugnante…".

    Perché la radio non dava mai buone notizie?

    Margaret affettò una croccante carota e la gettò nel calderone scuro e ribollente assieme alla carne macinata, mentre la pioggia tamburellava sulla finestra appannata della cucina.

    «Sai cosa penso, Alfie? Penso che le persone abbiano la popò nella testa».

    Nessuna reazione, il che in fondo era la norma. Una volta che Alfie si tuffava in un albo da colorare era fatta. Più facile farsi rispondere da uno gnomo da giardino.

    "…operazione in corso per salvare l’equipaggio della Ocean-Gold Harvester, arenata sugli scogli a Clachmara. Abbiamo parlato con Sophie O’Brien della Guardia costiera…".

    «Ooh, hai sentito, Alfie? Clachmara! Si parla di noi alla radio, emozionante, no?».

    Ancora niente.

    Davvero, era come essere soli. Ah, sul sito web era sembrato tutto così romantico: L’occasione irripetibile di affittare un delizioso cottage d’epoca sul mare, con arredi e decorazioni tradizionali, in una località molto ambita!. Tradotto: un tetto che ci pioveva dentro, pannelli di legno alle pareti che non vedevano una ritinteggiata dai tempi in cui Fred e Rose West ristrutturavano il loro patio, e vetri singoli alle finestre che solo a guardarli si appannavano. Come se non bastasse, il vento fischiava tra gli infissi, se non riempivi tutti gli spifferi con carta di giornale arrotolata.

    Comunque, se non altro era economico.

    Un’altra carota saltò crepitando nel mucchio pieno di forme irregolari, perché ammettiamolo, le carote a rondelle erano disgustose.

    "…condizioni estremamente difficili, ma stiamo facendo tutto il possibile".

    L’aroma accogliente e intenso di carne rosolata riempì la stanza, familiare e confortevole come un vecchio maglione. Copriva il solito odore di polvere e muffa. Teneva a bada l’oscurità.

    «Be’, magari tu no, ma io penso che sia emozionante».

    "La polizia oggi ha annunciato la scoperta del corpo di un bambino nei boschi a sud della città. I resti non sono stati ancora formalmente identificati, ma si sospetta appartengano a Lewis Talbot, il bambino di quattro anni scomparso il 14 ottobre…".

    «Povera creatura». Margaret buttò l’ultimo pezzetto di carota nel recipiente. «Ecco perché non dovresti mai salire nella macchina di uno sconosciuto, Alfie. O accettare i dolci che ti offre».

    "…terza vittima, dopo che i corpi di Oscar Harris e Andrew Brennan sono stati ritrovati nei mesi scorsi".

    «Anzi, sai che ti dico? Stai lontano dagli uomini, punto». Si massaggiò il ventre rigonfio ed esalò un sospiro amareggiato. «Se io lo avessi fatto, adesso non sarei in queste condizioni. No di certo, starei per laurearmi in antropologia forense domani, e i tuoi nonni ancora mi parlerebbero».

    Così sembri un po’ acida, Margaret. E di chi sarebbe la colpa per esserti fatta mettere incinta?

    Sigh.

    «Non ci pensare, Alfie, almeno noi due ci stiamo ancora insieme, giusto?».

    Di nuovo nulla.

    Proprio uno gnomo da giardino.

    "E ora Doug con il meteo".

    "Grazie, Colin. Meglio chiudere i boccaporti, gente, perché peggiorerà parecchio prima di migliorare, con la tempesta Trevor in arrivo dalla Scandinavia…".

    «Oh, ma che situazione di mmm…». Margaret serrò le labbra e ricacciò giù una parola che Alfie proprio non era il caso aggiungesse al suo vocabolario. Perché conoscendolo l’avrebbe ripetuta a squarciagola l’indomani all’asilo, e a lei sarebbe toccata un’altra chiacchierata con quella megera dalla faccia di budino della signora Gillespie. Secondo tentativo: «Allora, piccolo mostriciattolo mio, che ne dici di aiutare mamma a prendere un po’ di quelle patate da sotto il lavandino?».

    Si voltò, il pelapatate in mano brandito come una bacchetta magica pronta a esaudire il più grande desiderio di Alfie – almeno per quel che riguardava il purè di patate.

    E si bloccò. A bocca aperta.

    "…giù fino a questa grande area di bassa pressione che si avvicina da est…".

    «Alfie?».

    Il tavolo di legno rigato era ricoperto da un arcobaleno di pennarelli sparpagliati, e un Tyrannosaurus Rex parzialmente colorato a tinte sgargianti viola e verdi ruggiva dall’albo. Accanto, un bicchiere di latte e un biscotto. Ma la sedia di Alfie era vuota.

    «Alfie?». Margaret abbandonò il pelapatate sul piano di lavoro, pulendosi le mani sul grembiule mentre attraversava la cucina per fare capolino in corridoio. Altri pannelli di legno d’epoca. «Alfie?».

    La porta del bagno era socchiusa, ma non proveniva nessuna luce da lì. Niente, se non l’oscurità di una tempestosa sera di novembre.

    «Alfie, sei andato a fare pipì?».

    No, il bagno era vuoto.

    «Alfie?». La voce adesso era più alta, mentre correva di stanza in stanza: le due piccole da letto, la sala da pranzo – ingombra di tutte le scatole che lei ancora non si era messa a disfare – e il soggiorno col caminetto e le macchie d’umidità sul soffitto. «alfie!».

    Di nuovo in cucina.

    Tavolo. Pennarelli. Albo da colorare…

    Dov’erano gli stivaletti di gomma? Avrebbero dovuto essere accanto ai suoi, vicino alla porta sul retro, ma quelli rossi di Alfie non c’erano. Mancavano anche la sua giacca a vento gialla e il cappello da pioggia.

    Con occhi sempre più sgranati guardò la finestra appannata, il vetro singolo picchiettato dalla pioggia. L’oscurità grigia e nera che si stendeva oltre.

    Oh no.

    Spalancò la porta e carambolò fuori nel buio, perdendo una pantofola. La pioggia le frustava il viso con piccoli coltelli affilati e gelidi. «alfie!».

    Fece di corsa il giro della casa. C’era solo una manciata di lampioni ancora funzionanti, scossi dal vento ululante del Mare del Nord, la luce tremula sotto l’acquazzone che proiettava il suo bagliore giallo e malato sull’asfalto crepato.

    Una decina di metri dopo la casa i lampioni si interrompevano, lasciando ogni cosa da lì in poi – non che ci fosse molto – ammantata di buio. Come a nascondere la fine del mondo.

    «alfie!».

    In mezzo alla strada si voltò, prese un gran respiro e mise le mani a megafono. «alfie!».

    Un momento… C’era un rumore. Qualcosa che si nascondeva nella tempesta urlante. Un ululato metallico. Un whomp-whomp-whomp aspro e staccato, come un miagolio meccanico. Poi una luce brillante e intensa si accese in lontananza portando con sé occhi ammiccanti rossi e verdi, quando un elicottero scavalcò le colline, con i motori che gemevano e il ronzio delle eliche sempre più forte. Più nitido.

    E Alfie adorava gli elicotteri.

    «alfie!».

    Margaret arrancò superando le case deserte per avvicinarsi al rumore, chinandosi per passare sotto la striscia di nastro con la scritta non oltrepassare che faceva frrrrrr nel vento. Una recinzione metallica provvisoria, alta due metri e mezzo, attraversava la strada separando l’ultima casa abitabile su ciascun lato da quelle inabitabili al di là. Uno scolorito cartello imbullonato alla catena avvertiva: attenzione! zona soggetta a erosione costiera – non entrare – pericolo di morte.

    Non si erano disturbati con la manutenzione della recinzione, era evidente. Si erano limitati a spostarla di una casa più in là ogni volta che l’abitazione di qualche povero disgraziato scompariva nel Mare del Nord. Probabile che fosse tempestata di buchi grandi abbastanza da permettere a un ragazzino di cinque anni di passarci attraverso.

    Sollevò una parte della recinzione facendola uscire dal suo basamento di cemento, spostandola quel tanto consentito dalla catena che la assicurava al segmento successivo, quindi si infilò tra i freddi montanti di metallo e scivolò nell’oscurità che si stendeva oltre. «alfie!».

    Sopra di lei l’elicottero ruotò e la luce del suo faro saettò sull’erba fradicia. Un barlume giallo interruppe l’oscurità – alfie! – poi il fascio luminoso si spostò e il bambino fu nuovamente inghiottito dall’ombra.

    Margaret avanzò nel vento, barcollando sotto la corrente discendente dell’elicottero. Si spostò dall’asfalto rovinato sul giardino di chissà chi, da tempo abbandonato. A tastoni seguì quella che probabilmente era una staccionata, si issò per scavalcarla e sentì uno strappo al vestito. Alla fine di quella manovra aveva perso anche l’altra pantofola.

    «alfie?».

    Era fermo in piedi sul ciglio della scogliera e guardava l’acqua sotto di lui.

    Oh Dio.

    La scogliera. Proprio quella cui si riferivano i cartelli di avvertimento.

    E se fosse crollata sotto i suoi piedi?

    E se lui fosse stato abbastanza leggero, ma lei fosse stata troppo pesante e nel cercare di salvarlo avesse fatto crollare tutto in mare?

    Si avvicinò lentamente, i piedi nudi che scivolavano tra l’erba bagnata, le braccia tese verso il figlio. Tentò di nascondere il tremore nella voce, di seppellirlo dentro di sé. «Forza, piccolo, vieni da mamma. Va tutto bene, va tutto bene. Vieni da mamma».

    Alfie voltò la testa senza girarsi e le rivolse un sorriso sdentato, mentre con un dito indicava il velivolo rosso e bianco che martellava l’aria sopra di loro. «Elicocchero!».

    «Per favore vieni da mamma, Alfie. Avanti, ce la puoi fare». Un altro passo, sempre più vicina a lui.

    Il ditino di Alfie puntò verso il basso. «Barca!».

    Lei cadde in ginocchio e si mise a gattonare verso il figlio.

    Quant’è vero Iddio, se fosse riuscita a riportare Alfie a casa sano e salvo non avrebbe più evitato le chiamate di sua madre. Avrebbe smesso di bere. Avrebbe fatto volontariato per i senza tetto, o per una banca solidale o qualcosa del genere.

    Più vicino.

    Alfie si infilò il dito in bocca.

    Avrebbe perfino smesso di chiamare Gary segaiolo scopa-bariste inadempiente, se solo avesse riportato alfie a casa sano e salvo.

    Con le punte delle dita riuscì a lambire l’orlo della giacca a vento giallo fluo e sollevò il bambino da terra, prendendolo tra le braccia. Rimase lì un attimo, in ginocchio, a stringerlo forte, respirando l’odore di gomma dell’impermeabile. «Non farlo mai più!».

    «Guarda, mamma, una barca e un elicocchero!».

    «Torniamo a casa». Con un braccio lo cinse da sotto e lo prese su, si alzò in piedi e si voltò.

    L’elicottero della Guardia costiera brillava sopra di loro, il faro che puntava dritto su un vecchio peschereccio, lungo all’incirca quanto un autobus a due piani ma largo il doppio. L’imbarcazione sembrava quasi incinta quanto lei. Da quel lato la livrea della Ocean-Gold Harvester era immacolata, ma l’altra fiancata era stata spinta contro gli scogli grigi e marroni che torreggiavano sopra il natante. Uno dei boma giaceva contorto sul ponte, e l’altro svettava verso il mare, ancora fissato a un groviglio di reti da pesca, mentre le onde sbattevano la barca contro la parete di terra e roccia.

    Cinque uomini erano raggruppati vicino alla timoneria, tutti nei loro giubbotti di salvataggio arancione fosforescente, le mani strette alle ringhiere, e fissavano l’elicottero mentre uno di loro veniva issato su con una fune.

    La barca scivolò dentro un canale tra gli scogli, lo scafo che grattava la parete di roccia, e poi l’onda successiva la scaraventò nuovamente contro il promontorio.

    «Voglio vedere, voglio vedere!».

    «No, Alfie, dobbiamo andare a casa prima…».

    Un rombo lugubre sovrastò il rumore del vento, della pioggia e il ronzio delle pale dell’elicottero.

    Troppo tardi.

    La scogliera stava cedendo.

    Margaret deglutì. Si premette la testa di Alfie contro il petto. «Chiudi gli occhi, tesoro. Mamma ti vuole bene!».

    E poi il promontorio venne giù, il fragore della roccia che si schiantava crebbe fino a diventare un urlo assordante e un’enorme parete di terra e pietra si curvò in avanti per abbattersi sulla Ocean-Gold Harvester. Seppellendola. Facendo schizzare in aria uno spruzzo gigantesco quando spinse la nave schiacciata sotto le onde ribollenti, trascinando chiunque con sé.

    Cinque uomini morti in un istante…

    In alto l’elicottero vacillò, come se cercasse di non perdere l’equilibrio.

    E Margaret restò a guardare. Non il cumulo di macerie dove un momento prima c’erano una barca e cinque uomini, ma la parete della scogliera, congelata nella luce del faro. Il suolo ora esposto era più chiaro rispetto alla superficie rocciosa, e questo rese più facile distinguere quel che affiorava.

    Ossa.

    Dozzine di ossa.

    Ossa umane.

    Pensieri e preghiere

    2

    Dannate buche.

    La macchina le prendeva una dopo l’altra, sollevava l’acqua che schizzava contro i parafanghi mentre i tergicristalli scricchiolavano avanti e indietro, impegnati in un duello impossibile contro la pioggia battente. I lampioni proiettavano lividi aloni nell’acquazzone che poco o nulla potevano contro l’oscurità. Ce n’era una mezza dozzina, superati i quali più niente, se non la distesa rabbiosa e nerissima del Mare del Nord.

    Mi aggrappai alla maniglia sopra lo sportello del passeggero quando la minuscola jeep Suzuki sobbalzò sull’ennesima buca. «Ma le stai prendendo di mira?».

    Alice si incurvò sul volante e socchiuse gli occhi per vedere meglio oltre il vetro segnato da archi nerastri. «Dovrebbe essere qui da qualche parte…». Si era intabarrata in un giaccone nero imbottito, e un paio di guanti senza dita color arcobaleno spuntavano dalle maniche troppo lunghe. I capelli ricci castani erano raccolti sulla nuca in uno chignon, che rimbalzava al ritmo delle peripezie della jeep alle prese con le buche.

    Un sobbalzo, una sbandata, un tonfo.

    «Senti, non fa niente se non le prendi proprio tutte».

    «È quella laggiù?». Liberò una mano quel tanto che bastava per indicare un’altra casa bifamiliare dagli sgradevoli toni beige e marrone. L’unica cosa che la distingueva dalle abitazioni vicine erano le luci tutte accese, oltre a una Fiat Panda color verde moccio parcheggiata fuori.

    «Resto dell’idea che sia uno spreco di tempo».

    «Ma noi…».

    «Dovremmo catturare un assassino di bambini, non cazzeggiare appresso a un improbabile caso buono al massimo per la Squadra Spostati». Stiracchiai la gamba destra, ruotai la caviglia e la feci schioccare. Sempre così quando cambiava il tempo: il tessuto cicatriziale si metteva a pulsare per tutto il piede, come se un aguzzino mi stesse infilando un ferro rovente tra le ossa. «A che serve avere agenti in uniforme se non puoi lasciare a loro tutti i lavori senza senso?».

    Alice parcheggiò dietro la Panda. Spense il motore. Restò seduta mentre la tempesta faceva ballare la jeep sugli ammortizzatori. «È solo temporaneo». Scrollò le spalle. «E poi, o questo o bisogna attendere l’autopsia, e io proprio non me la sento di stare a guardare un altro ragazzino mentre viene eviscerato».

    Non aveva tutti i torti.

    «Ash?», mi fece guardandomi con la coda dell’occhio. «Hai pensato a quel che vuoi fare domani? Sai, visto che è…».

    «Possiamo non parlarne adesso?»

    «È del tutto normale sentirsi…».

    «Sto bene». Era una bugia. «E abbiamo un lavoro da fare». Slacciai la cintura di sicurezza e mi voltai verso il sedile posteriore. Una grattatina alla pelliccia tra le orecchie di Henry. «Tu fa’ la guardia alla jeep, okay?». Mi guardò con la bocca aperta, la linguetta rosa che penzolava di fuori, il naso nero e scintillante come una caramella gommosa. «Mordi chiunque cerchi di rubarla».

    Alice emise un brontolio. «Smettila di cambiare discorso. Domani è…».

    «Non interrompere, sto attivando il Sistema di Difesa Veicolare Canino Scozzese». La testa di Henry rimediò un’altra carezza e il suo ghigno si fece ancora più ampio. «Chi è il piccolo mostro feroce, eh? Eccolo qui, sei proprio tu, oh ».

    «Però…».

    «Per essere una psicologa criminale sei davvero pessima, quando si tratta di riconoscere i sottili segnali dell’interlocutore, non credi?».

    Un sorriso luminoso. «Ah, li riconosco eccome, è solo che scelgo di ignorarli, adesso. Per il tuo bene».

    «Ma che fortuna». Afferrai il mio bastone da passeggio da sotto il cruscotto. «Forza, svolgiamo il nostro dovere civico e poi andiamo a farci una pizza».

    Il vento provò a strapparmi la portiera di mano quando la aprii, e aghi di pioggia mi tempestarono il viso.

    Alice scese dall’altro lato, la testa sepolta nel cappuccio a periscopio del giaccone. «Per una volta potremmo infilare le gambe sotto un tavolo, invece del solito takeaway?»

    «Abbiamo un omicida di bambini da catturare, ricordi?». Ci inoltrammo sul vialetto pieno di pozzanghere fino alla porta d’ingresso, dove una piccola tettoia di legno offriva un riparo quasi inesistente dalla pioggia.

    Una delle grondaie laterali era rotta e lasciava scrosciare una cascatella sull’intonaco sudicio.

    La sua voce assunse una nota di acuta disperazione. «È che sono stufa di mangiare cose che escono da scatole di cartone unto. O da tubi di plastica».

    «Smetti di lamentarti e suona il campanello».

    Lo fece, spingendo il bottone finché un acuto drrrrrrrinnnnnnnng risuonò all’altro lato della porta rovinata. «Non ricordo più che aspetto hanno piatti e posate».

    «Penso che dovremmo fare un’altra visita a Steven Kirk. Lo preleviamo e gli scuotiamo la dentatura finché non ne cade fuori qualcosa».

    «E poi non è che sia proprio roba salutare, giusto? Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo preso un’insalata?»

    «Non ci casco con quel suo discorsetto stavo badando a mia madre moribonda, a quell’ora. Pedofilo una volta, pedofilo tutta la vita».

    «O dei broccoli!». Alice emise una specie di pigolio lamentevole dall’interno del cappuccio. «Ho voglia di broccoli».

    «Non che lui non potrebbe…».

    La porta si spalancò e un tipo dall’aria bisunta con i capelli castani che gli ricadevano sul viso, un vestito da quattro soldi e la barba rossiccia mi guardò in cagnesco. «Ve la siete presa comoda». Uno dei suoi occhi non puntava esattamente nella stessa direzione dell’altro, come se fosse un po’ strabico.

    «Agente investigativo Watt. È bello vedere che la sua smagliante personalità non l’ha abbandonata».

    L’uomo emise un grugnito, girò sui tacchi e attraversò il corridoio. Da dietro sulla sua nuca si vedeva una chiazza di calvizie grande quanto un palmo, con tanto di spessa cicatrice a U e pelle infossata tutt’intorno, come se gli avessero asportato una sezione del cranio. «Mother è in cucina».

    Alice mi seguì dentro casa e abbassò la zip della giacca imbottita, rivelando un nuovo esemplare della sua collezione di top a strisce bianche e nere; le sue minuscole Converse rosse scricchiolavano sul linoleum umido mentre entravamo in una stanza intrisa di vapore e immersa nel confortevole aroma di carne e patate.

    Una donna molto incinta sedeva al tavolo, aveva un bambino piccolo sulle ginocchia intento a colorare un triceratopo in orribili sfumature pulce e turchese.

    Mother ci dava l’ampia schiena, i crespi capelli rossicci sparsi sulle spalle della sua felpa nera da poliziotto. Si tirò su le maniche rivelando due grossi avambracci pallidi coperti di tatuaggi di rose e cardi. «Ed è sicura che non fossero ossa di animali o quant’altro?».

    La donna incinta alzò gli occhi al cielo. «Avrei dovuto laurearmi domani in antropologia forense, solo che ho bevuto troppo prosecco alla mia festa di compleanno ed eccoci qui». Indicò il ventre gonfio. «Conosco l’anatomia umana, e quelle ossa erano senz’altro umane».

    Il vice commissario Watt si schiarì la voce. «Spiacente, capo, sono arrivati quelli della liru». Pronunciò liru come se fosse l’abbreviazione di una malattia venerea.

    La donna si voltò a guardarci con un sopracciglio alzato. «Bene, bene, bene, ma guarda se questo non è Ash Henderson. Tornato tra i vivi?».

    Salutai con un cenno. «Ispettrice. Conosci la dottoressa McDonald?».

    Alice si fece avanti sgambettando come un cocker eccitato, la mano tesa. «In realtà non ci siamo presentate, ispettrice Malcolmson, ma la prego, mi chiami Alice. Ho sentito molto parlare di lei, è un piacere. E non si preoccupi, non siamo qui per toglierle il caso, siamo venuti solo perché lei ha detto che le serviva il nostro aiuto, be’, magari non il nostro aiuto ma quello di Ash, e io sono venuta con lui perché non riesce a guidare bene per via del piede eccetera». Il tutto sciorinato senza prendere fiato, alla velocità di un mitra. «E mi stavo chiedendo il perché del suo soprannome, perché la chiamano Mother; è per il suo ascendente educativo, che so essere uno stereotipo sociale repressivo imposto alla psiche femminile dalle forze oppressive del patriarcato dittatoriale, una cosa tipo oh, le donne sono così tenere e accudenti, ovvio che non possano competere con gli uomini, anche se a volte è davvero così, intendo la cosa dell’accudire, non la competizione, e quella è una teiera?, mi andrebbe proprio una tazza, se ne è rimasto un po’».

    Gli occhi di Mother svettarono ancora più in alto. «Fa sempre così?»

    «Più di quanto credi». Mi infilai le mani in tasca. «Ora, possiamo farla breve? Alice e io abbiamo un assassino di bam…», ma poi i miei occhi andarono al ragazzino, che mi fissava da sopra il suo dinosauro dai pessimi colori, «…un uomo cattivo da catturare».

    «Direi proprio di sì». Mother fece un cenno a Watt. «John, sii bravo e resta con la signora Compton. Il signor Henderson e io dobbiamo andare a controllare una cosa». Detto questo mi passò accanto e uscì in corridoio, dove raccattò un grosso giaccone incerato Barbour. Si fermò davanti alla porta di casa. «Non ti dispiace fare una piccola deviazione prima di metterci al lavoro, vero?». Non si disturbò ad aspettare la mia risposta. «No? Bene. Allora andiamo».

    Si tirò su il cappuccio e uscì nella tempesta ululante. Con la schiena curva per proteggersi dal vento imboccò il vialetto pieno di pozzanghere.

    Alice mi guardò, perplessa. «Credi che abbia fatto una brutta impressione, perché io credo di sì e non volevo certo…».

    «Non ha senso che ci inzuppiamo entrambi. Resta qui con l’agente Watt e la testimone. Magari, se hai fortuna, ti darà un po’ di carne e purè. Su piatti come si deve. E con le posate».

    «Sta’ attento, okay?»

    «Promesso». Il clima terribile mi avvolse stringendomi come in un pugno mentre io arrancavo dietro Mother, prima lungo il vialetto e poi sull’asfalto butterato. Faticavo a starle dietro. «Dove si va?»

    «Insomma, non possiamo mica prendere le parole di un civile per oro colato, giusto? Perfino di un civile che è quasi laureato in antropologia forense». Tirò fuori una torcia col cui fascio spazzò i giardini in lungo e in largo mentre ci avvinavamo alla fine della strada. Alzò la voce per farsi sentire sopra il vento che urlava. «Venivamo sempre qui quando ero piccola. A ogni Pasqua mamma e papà prendevano un cottage vicino alla spiaggia e noi giocavamo tra le dune e costruivamo castelli di sabbia e rincorrevamo i cani degli altri». Scavalcò una bassa staccionata e proseguì in mezzo a ciuffi di erba gialla scossi dal vento. «Ricordo che Clachmara era davvero carina, finché la parte vecchia non finì in mare. Cambiamento climatico lo chiamate voi, giusto?».

    Si fermò davanti a una fila di pannelli di recinzione incatenati. Le labbra serrate, fissò accigliata lo spazio vuoto tra due pannelli legati da una catena con lucchetto; abbassò gli occhi su di sé, poi tornò a guardare lo spazio vuoto. «Non credo che funzionerà».

    «Una donna incinta è riuscita a passarci in mezzo, ricordi?»

    «Non da qui. E poi tu hai fretta di tornare a dare la caccia al tuo cattivo ammazza-bambini, ricordi?».

    Dio santo…

    «E va bene, dammi la torcia».

    Superai la recinzione e seguii il cerchio bianco della luce che si deformava sull’erba alta, lasciando lei nell’ombra.

    «Scatta qualche foto, ci servono prove!».

    La pioggia inzuppò le gambe dei pantaloni e la stoffa fredda e bagnata mi si appiccicò alla pelle. Filtrava attraverso le spalle della giacca. Mi correva lungo il volto e dietro il collo. «Oh, sarà un lavoro veloce, ha detto lui, una cosa semplice, un po’ di allenamento, ha detto, cotta e mangiata in un lampo, ha detto».

    E andai avanti, seguendo la luce della torcia. Arrancando e inciampando in mezzo a quel che restava del giardino incolto di chissà chi, l’erba che si attorcigliava al bastone da passeggio con tentacoli pallidi e bagnati. La casa stessa era ridotta a un singolo muro esterno, il resto era stato strappato via lasciando una linea frastagliata di scogliera, col Mare del Nord che ruggiva subito dopo.

    Gesù, che posto deprimente.

    Una folata di vento mi fece indietreggiare di un paio di passi. Mi presi un altro pugno d’acqua in faccia.

    Ma chi me l’aveva fatto fare?

    Il fascio della torcia scivolò lungo il confine tra dove mi trovavo e l’oblio. A sinistra la scogliera quasi verticale aveva ceduto: una fitta pioggia di rocce e terra precipitava in quel ribollire di onde nere. Doveva essere là che era scomparso il peschereccio.

    Poveri disgraziati.

    I flutti si schiantavano contro il fianco crollato, come a volerlo strappare via con denti di schiuma.

    La sezione superiore della parete cominciava a scendere dal giardino di fronte. Qualche metro più indietro c’era la casa: un villino a un piano color grigio scadente e marrone rovinato. Sul lato più vicino al mare era stato aggiunto un garage di legno, la porta basculante a metà corsa e storta.

    Con la torcia spazzai il tratto di terra rimasto a nudo. Deboli luccichii bianchi brillarono in risposta. Eh sì, quelle sembravano proprio ossa.

    I primi scatti fatti col mio telefono furono soltanto tremolii sfocati, il flash non si avvicinava neppure a un’intensità sufficiente per illuminare alcunché, anche con l’aiuto della torcia. La ripresa video risultò appena migliore, con lo zoom al massimo e l’inquadratura malferma per via del vento che mi spingeva da dietro.

    Pareva che la nostra amica molto incinta avesse ragione: ciò che spuntava dal terreno scuro era sicuramente di origine umana. Un paio di orbite vuote mi fissavano da un teschio inclinato su un lato, senza mandibola. In quel momento un altro schianto proveniente dal Mare del Nord staccò un grosso pezzo di terra scura, portandosi appresso il teschio che rotolò e rimbalzò finendo tra le onde ruggenti.

    Alle mie spalle risuonò un lieve rombo e il giardino in cui mi trovavo perse un altro mezzo metro di fango ed erba.

    Sì, forse non era la migliore delle idee trattenersi ancora lì.

    Tornai rapido alla recinzione e la superai per arrivare alla relativa sicurezza della strada battuta dal temporale.

    Mother mi sbirciò da sotto il cappuccio. «Allora?»

    «Umane al cento per cento».

    Le sue spalle si afflosciarono. «Cazzo. Non poteva essere uno scherzo di cattivo gusto, no? O uno stupido sbaglio? Che ne so, un animale domestico seppellito?»

    «Non darti pena, lasciale lì un paio d’ore e sarà tutto scomparso in mare».

    «Sapevo che era una polpetta avvelenata non appena ci ho posato gli occhi sopra. Ma non potevo tornare a casa in anticipo come tutti gli altri? Lasciare che ci pensasse il turno di notte. No. Dovevo fare la stoica, quella zelante». Sconsolata, lasciò andare un lungo e triste sospiro. «Fattelo dire, signor Henderson, mai e poi mai rispondere al telefono dell’ufficio due minuti prima che finisca il tuo turno. Va sempre a finire che è un disastro». Altro sospiro. Poi un cenno di assenso. «Suppongo sarà meglio portare quaggiù la squadra per l’esame della scena. Patologo, procuratore, gruppi di ricerca…».

    Il vento fischiò tra le catene facendoci sbandare di lato, finché non ci spostammo frontalmente.

    «Buona fortuna, allora». Le restituii la torcia. «Ora, non è che magari potremmo passare alla vera ragione del perché sono qui, fintanto che c’è ancora qualcosa di me che non è inzuppato?»

    «Sicuro che non vuoi trattenerti per dare una mano?». Puntò la torcia sul catorcio di Panda verde davanti alla casa della quasi-antropologa incinta. «Ho dei biscotti in macchina».

    «Io ho sempre un assassino di bambini da prendere». La gente non ascoltava mai, giusto?

    «Una ragazza può sempre chiedere». Mother roteò la torcia puntandola sull’ultima casa da questa parte della recinzione, adiacente a quella dove era stato seppellito il cadavere. Bifamiliare, con le grondaie staccate e il tetto butterato dai licheni. Una vecchia Renault azzurra arrugginiva accanto al marciapiede e sul vialetto era parcheggiato un caravan lercio. Una luce alla finestra del soggiorno. «Andiamo?»

    «Ancora non capisco perché non potevi farlo senza di me».

    «Perché Helen MacNeil non mi parla. E non parla con John. E quando ho mandato un agente in uniforme a fare un tentativo, è arrivata a tanto così», disse tenendo le dita a qualche millimetro di distanza, «dal farlo piangere. In centrale dicono che tu e Helen avete dei trascorsi insieme, perciò forse con te parlerebbe. Che ne so, magari è il tuo fascino esorbitante».

    Stronza sarcastica.

    E poi il tipo di trascorsi che io e Helen avevamo non erano esattamente del tipo buono.

    Seguii Mother fino alla casa. Il caravan fungeva da riparo per il vento e gemeva sulle sospensioni ogni volta che la tempesta lo spingeva di lato.

    Si attaccò al campanello per qualche secondo poi si chinò e gridò attraverso la fessura per le lettere. «Helen? Helen, sono Flora, puoi venire alla porta per favore?».

    Nessuna risposta.

    Riprovò. «Helen? Mi senti?»

    «Possiamo smetterla con tutte queste cerimonie?». Battei la porta con il manico del bastone, tre colpi belli forti. Inspirai a fondo. «helen macneil, polizia! apri oppure butto giù a calci questa maledetta porta!».

    Una smorfia di disapprovazione da parte di Mother. «La diplomazia fatta persona, come al solito».

    Altri tre colpi. «non scherzo, helen, apri questa porta altrimenti è…».

    La porta si aprì di scatto e una donna di mezza età ci fissò, nera in volto. «Va bene, va bene». Gli anni non erano stati gentili con Helen MacNeil, ognuno si era inciso sul suo viso a cuore lasciando una profonda ragnatela di rughe. Non aveva perso niente della sua stazza, però: era sempre larga di spalle e spessa di bicipiti, e indossava una canottiera nera con disegnato su un pentagramma e una testa di capra. Capelli brizzolati corti e un lungo naso affilato, che si era rotto due o tre volte dall’ultima volta che ci eravamo visti.

    Chiaramente non le fece piacere che la stessi fissando. «E tu che diavolo hai da guardare?».

    Mother si avvicinò per fare un tentativo con il suo grande sorriso tutte fossette. «So che non eri entusiasta di parlare con noi prima, Helen, ma è davvero importante che…».

    «Non dicevo a te. Lui». Mi puntò il dito contro. «Il coglione col bastone». Il suo mento si sollevò. «Pensi che non sappia chi sei?».

    Annuii. «Ti trovo bene, Helen».

    Socchiuse gli occhi accentuando le rughe. «Undici anni nella maledetta prigione di Oldcastle… mi sono persa la nascita di mia nipote per colpa tua!».

    «No, Helen, ti sei persa la nascita di tua nipote perché hai spaccato la testa di Neil Stringer con un piccone. E saresti uscita dopo otto anni se non avessi accoltellato anche Ruth Anderson nella biblioteca del carcere».

    «Ehm… La stronza se lo meritava».

    «Sicuro». Feci un cenno in direzione della casa oltre la recinzione. «Hai saputo del cadavere?»

    «Presunto cadavere». Helen incrociò le grosse braccia, e i muscoli si tesero sulla pelle lentigginosa. «La cicciona, qui, ha detto che…».

    «A chi hai detto cicciona?». Mother si drizzò in tutta la sua statura, le spalle indietro e l’ampio torace in fuori. «Per tua informazione…».

    «…Non vedo cosa c’entro io con questo, e…».

    «…Perché non c’è niente che non vada nell’avere le ossa grandi! È…».

    Colpii la porta col bastone un’altra volta. «va bene, basta così! Tutte e due».

    Mother arrossì e si voltò dall’altra parte. «Cicciona, no».

    Helen scrollò le spalle. Guardò a terra e si schiarì la voce, senza dire altro.

    Meglio.

    «Non c’è niente di presunto per quel che riguarda il corpo, è un dato di fatto».

    «Comunque non capisco perché mi riguardi».

    «Con la reputazione che hai? Un cadavere salta fuori per miracolo dietro casa tua, davvero non pensavi che avremmo fatto due più due?».

    Sollevò il mento un’altra volta. «No comment».

    «Proprio come ai vecchi tempi». Indietreggiai di un passo e feci il gesto di esaminare il tetto, poi le pareti su entrambi i lati. «Questo posto ha l’aria di stare per crollarti intorno da un momento all’altro. Il crimine proprio non ha pagato, nel tuo caso, vero? Sul serio non avevano un piano pensionistico per te, quando sei uscita di prigione? Una bella stretta di mano con tanto di benefit, come ringraziamento per aver tenuto la bocca chiusa?»

    «No comment».

    «Ti hanno scaricato come un bidone di scorie radioattive, di’ la verità. E io che pensavo che la lealtà dovesse essere reciproca!».

    Il suo sguardo si indurì. «No comment».

    «Eccoti qui, mandata a uccidere Neil Stringer per ordine loro, e scommetto che non si sono presi neppure la briga di raccattarti fuori dalla prigione, quando alla fine ti hanno lasciato andare. Scommetto che non ti rispondevano al telefono. Si sono volatilizzati, come se non fossi niente per loro».

    «No. Comment!». Le due parole schizzarono fuori tra i denti serrati.

    «Bloccata qui, ad aspettare che questo buco di casa finisca in mare. Una vecchia signora inutile e senza importanza».

    Helen si irrigidì, come se fosse sul punto di menare un colpo… poi si leccò le labbra. Ammiccò e rilassò le spalle. «So quello che stai facendo».

    Mother esalò il fiato. «Mi fa piacere che qualcuno lo sappia».

    «Pensi che se esplodo mi puoi sistemare per aggressione a pubblico ufficiale. Trascinarmi dentro e incastrarmi per chiunque sia sepolto laggiù». Indicò vagamente in direzione del giardino vicino. «Be’, non sono stupida e tu puoi andare direttamente a farti fottere, con la tua stronza cicciona al seguito».

    Mother strabuzzò gli occhi. «Non c’è bisogno di essere così volgare!», disse fremendo, i pugni stretti.

    Una voce s’intromise da dietro le mie spalle.

    «Ehilà?». Era Alice, che in un attimo si infilò nello spazio vuoto tra Mother e Helen MacNeil, il cappuccio della felpa rovesciato indietro e il naso rosso come quello della renna Rudolph. Una mano reggeva il guinzaglio di Henry e l’altra era tesa all’indirizzo di Helen. «Sono la dottoressa McDonald, ma lei mi può chiamare Alice, se preferisce, perché le cose sono più facili se non stiamo tutti dietro all’etichetta, giusto? E a proposito, mi piace la sua maglietta, non sono forse i Crowley’s Ghost? Li ascoltavo sempre, c’è davvero bisogno di buon death metal, non è così? Comunque, stavo portando a spasso Henry e ho sentito parlare ad alta voce e ho pensato che forse potevo dare una mano».

    Helen MacNeil la fissò.

    Alice mi porse il guinzaglio. «Ottimo, e adesso: Ash, ispettrice Malcolmson, potreste lasciarci sole un momento io e… Helen, vero? Sì, allora, solo un minuto, se per te è okay, Helen, così ci facciamo una chiacchierata, io e te, da donna a donna, e vediamo di riuscire a trovare un modo per essere amichevoli e lavorare come una squadra, okay?». Sfoderò un gran sorriso rivolto a noi tutti. «Grandioso, forza, allora!», esclamò battendo le mani e facendosi avanti.

    La faccia di Helen si fece leggermente pallida mentre indietreggiava, quasi che un autoarticolato le stesse venendo addosso, ma Alice la seguì dentro comunque.

    Thunk, la porta si era chiusa, lasciando Mother, Henry e me fuori sotto la pioggia.

    Mother mosse i piedi e si schiarì la gola. «Sicuro che la tua amica piccina sia al sicuro là dentro? Come hai detto tu, la reputazione di Helen MacNeil non è esattamente…».

    «Intendi il crimine organizzato, lo strozzinaggio, i pestaggi, la violenza generica e il coinvolgimento in almeno tre omicidi, due dei quali non siamo riusciti ad affibbiarle?»

    «Quel genere di cose, sì».

    Scossi il capo. «Non è per Alice che mi preoccupo. Helen MacNeil non ha nessuna speranza».

    3

    «Carino qui, vero?». Alice accarezzò il bracciolo del cadente divano su cui era seduta, guardandosi intorno e sorridendo all’indirizzo di un salotto che aveva il fascino e l’accoglienza di un corpo in decomposizione.

    A completare il set, insieme a due orribili divanetti c’erano una poltrona orribile, un orribile dipinto di una bimba che teneva un palloncino, sopra una coppia di orribili cani di ceramica sulla mensola del caminetto; un’orribile carta da parati in rilievo; un orribile tappeto marrone; un grosso macchinario ginnico che occupava un terzo dello spazio. Ma a differenza di quello di ogni persona normale, le sbarre di acciaio inossidabile e i pesi non erano ricoperti di bucato steso né di polvere. Quell’affare scintillava, emanando un sentore metallico e di idrorepellente così forte che quasi copriva il sottostante tanfo di muffa.

    Dio solo sa come aveva fatto, eppure Alice era riuscita a farci entrare tutti, aveva perfino convinto Helen MacNeil a scodellare quattro tazze di tè. E anche un paio di biscotti per Henry.

    Il cucciolone se ne stava seduto ai miei piedi a sgranocchiare i suoi Hobnob, la coda che sbatteva contro il fianco della poltrona, mentre Helen si sdraiava supina su una panchina foderata di pelle nera, finché testa e spalle non furono sotto la barra metallica di un bilanciere. Con un verso sibilante lo sollevò per farlo uscire dai ganci e iniziò a pompare su e giù un carico che doveva aggirarsi sui sessanta chili.

    «Allora, Helen». Mother sorbì un sorso di tè, fece una smorfia e posò la tazza sul tavolino. «Se tu non hai niente a che fare con il corpo sepolto nel giardino accanto, allora chi?»

    «Sapete, il problema di molti è che diventano grossi in prigione, lo fanno per proteggersi». I pesi andarono su e poi di nuovo giù. «Nessuno ci prova con te se hai un bel po’ di muscoli». Altra ripetizione. «Poi escono e tutto si ammoscia».

    «Parlaci del tuo vicino di casa…». Mother controllò il bloc-notes. «Il signor Gordon Smith?».

    Un’altra salita, un’altra discesa. «No comment».

    Alice si sporse verso di lei. «Ti prego, Helen, so che non dev’essere facile, aiutare la polizia dopo tutto quel che è successo, ma se…».

    «Voi inutili cazzoni non mi avete aiutato quando la nostra Leah è scomparsa, perché ora dovrei farlo io?». Il bilanciere fece un altro giro. «Mia nipote scompare e voi segaioli non vi siete dati neanche la pena di mandare qualcuno».

    Guardai Mother, che si limitò a scrollare le spalle.

    Okay.

    Era bello sapere che la Divisione di Oldcastle fosse inutile proprio come lo era sempre stata. Verrebbe da pensare che un agente di polizia competente svolgerebbe una ricerca sul database nazionale su una persona, prima di interrogarla.

    «Quanto tempo fa è successo?».

    Helen riagganciò il bilanciere alle staffe di sostegno. «Non far finta che ti interessi. A nessuno di voi bastardi della polizia interessa mai niente».

    «Non siamo della polizia. Be’, l’ispettrice Malcolmson sì. Alice e io lavoriamo per l’Unità Laterale per le Indagini e le Revisioni, immagina un incrocio tra A-Team e csi, solo che qui ci sono degli esperti civili che tirano fuori dai guai la polizia locale quando questa manda tutto a puttane. Tipo adesso».

    Questo mi fece guadagnare uno sguardo lievemente oltraggiato da parte di Mother.

    La verità è tosta da mandare giù.

    «Quindi, quand’è che

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