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Mise en abyme
Mise en abyme
Mise en abyme
E-book146 pagine2 ore

Mise en abyme

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Info su questo ebook

Alda Ferrato in giovane età ha pubblicato un unico libro, di modesto successo, ma in seguito la sua vena creativa si è inaridita e la sua vita è un triste fallimento. Lasciata dal marito, disoccupata, alla soglia dei quarant'anni torna alla casa natale, a sopravvivere con la pensione della madre vedova e qualche lavoretto saltuario. Dopo l'ennesimo manoscritto rifiutato, Alda decide che scrivcrà un romanzo solo per sé, senza curarsi dello stile, del soggetto, della trama, della costruzione dei personaggi: qualcosa che servirà soltanto per scaldarle il cuore e allontanare la mente dallo squallore dell'esistenza. Nasce cosi la storia della storia: Alba, orfana e derelitta, bussa alla porta di un castello patrizio nell'Inghilterra dell'ottocento, durante una notte buia e tempestosa. Quello che inizia come un semplice gioco liberatorio diventa a poco a poco qualcosa di sempre più importante per Alba. Più Alda si avvicina ad Alda nel tempo, più Alda si allontana dalla realtà ed evade nel modo parallelo del romanzo, fino a scomparirvi completamente.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835828198
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    Mise en abyme - Luisa Martucci

     MISE EN ABYME

    di Luisa Martucci

    Prima edizione: giugno 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 @BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio, 104 - 06073 Chiugiana

    Bertoni Editore

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Luisa Martucci

    MISE EN ABYME

    I

    Alba

    Era una notte di tregenda. Il vento sibilava e scuoteva impietoso le chiome degli alberi, ormai quasi spogli, che si dimenavano e urtavano tra loro, gemendo come anime dannate. La pioggia cadeva sferzante, gelida, formando una parete obliqua d’acqua che si abbatteva sulla brughiera, schiacciandola a terra. Il cielo era buio, a tratti illuminato dal bagliore livido dei fulmini, seguiti dal fragore dei tuoni, la cui eco rombante copriva per brevi intervalli il sibilo rabbioso del vento e lo scroscio della pioggia. Nessun essere vivente restava all’aperto, in una notte come quella, eppure un’esile figuretta, il capo chino a contrastare la furia degli elementi, i passi lenti ma ostinati nell’affrontare la salita, trasformata in una cascata dirompente, avanzava, trascinando un borsone pesante, reso ancora più greve dall’acqua che lo infradiciava. E fradici erano il mantello, il cappuccio, i capelli neri come l’ala di un corvo, le scarpe ormai quasi disfatte, il volto inondato di pioggia e di lacrime. 

    S’era lasciata alle spalle l’inferno portando con sé un indirizzo e un fagotto di vestiti e soltanto la vaga speranza di trovare un rifugio. Se Lord Walker le avesse rifiutato ospitalità, quella notte, sarebbe rimasta in balia degli elementi implacabili e di un ignoto destino. 

    La maestosa magione patrizia si stagliò per un attimo nera contro l’orizzonte, illuminata da un lampo in cima alla collina. Il breve ma intenso bagliore rivelò anche il parco, il muro di cinta e la strada sterrata che conduceva al palazzo, perché le carrozze potessero accedervi agevolmente. Alba raggiunse la strada sterrata attraversando la brughiera, inciampando nella sterpaglia che si avvinghiava alle caviglie, stremata dalla fatica. I singhiozzi le squassavano il petto, togliendole il poco fiato che le rimaneva, la paura e il dolore le stringevano il cuore in una morsa mortale. Posando i piedi sul terreno ghiaioso inciampò in un ostacolo e cadde, sbattendo la faccia nel torrente d’acqua e di fango; si rialzò con estrema difficoltà, appesantita dagli abiti intrisi d’acqua, e si rese conto che a farla inciampare era stata una suola, quasi del tutto staccata dalla tomaia, diventata inservibile. Si liberò delle scarpe e le buttò nella brughiera, affrontando il resto del cammino a piedi nudi, piegata in due per trascinare il fardello che non riusciva più a sollevare, i piedi torturati dalla ghiaia aguzza, la schiena spezzata, il respiro rantolante. 

    Raggiunse il cancello allo stremo delle forze, nella tempesta incessante. Non c’era nulla lì fuori, per farsi aprire, nessun campanello, né un batacchio, solo un’altissima barriera di sbarre acuminate come lance, rivolte verso il cielo come dita accusatrici di immani giganti. Esausta, anelante, Alba vi si aggrappò ed emise un alto, lungo grido di dolore e disperazione. «Qualcuno mi aiuti!»

    Un abbaiare di cani, prima lontano e poi sempre più prossimo. Avvicinandosi, la canea diventò assordante e ben presto numerose bestie veloci e pesanti come palle di cannone si avventarono a più riprese sul cancello, inferocite contro l’intruso, smaniose di afferrare, sbranare, divorare, annientare. Atterrita, Alba arretrò, inciampò e cadde, aumentando con il movimento e l’odore della paura la furia dei cani, che si misero a balzare in alto, come acrobati, nel tentativo di superare il cancello e azzannare la vittima designata. 

    «Chi è là?» disse una voce.

    Al suono imperioso la canea si quietò e le belve rimasero ferme e silenziose come statue di sale.

    «Cerco lord Walker» rispose Alba con un filo di voce.

    «Non accogliamo i vagabondi» fu la dura risposta.

    «La prego…»

    La figura maschile, avvolta in un nero mantello e al riparo di un vasto ombrello scuro, si voltò e prese ad allontanarsi lungo il viale, seguita dalla muta dei cani silenziosi.

    «La prego…» gridò ancora la ragazza, raccogliendo l’ultima energia della disperazione.

    «Chi è, Steven?» domandò un’altra voce maschile. 

    Nel buio della notte di tregenda si distinguevano ora nel viale due figure più nere, quella massiccia del primo, spietato uomo con l’ombrello e quella, più esile ed alta di statura, di un secondo uomo in mantello, ma senza ombrello.

    «Steven, non si lascia un cristiano all’aperto in una notte come questa, specialmente una donna» disse il secondo. «Signorino James, suo padre ha dato severe disposizioni in proposito. Niente vagabondi».

    «Mi assumo la responsabilità».

    «Come vuole, signorino».

    Alba vide lo spietato figuro allontanarsi verso il palazzo seguito dai cani, mentre il secondo uomo estraeva dalla tasca una chiave pesante ed apriva il cancello. Il bagliore di un lampo le permise di intravedere le fattezze di quest’ultimo, misericordioso salvatore: era un giovane, chiaro di capelli e di indiscutibile fascino. Si sentì raccogliere da terra e sollevare, ma gli sforzi sovrumani le avevano troppo fiaccato le forze e, tratta al sicuro, perse i sensi.

    (I capitolo del mio romanzo gotico – non pubblicabile – non recensibile - scritto solo per mio diletto)

    II

    Alda

    Rileggo il capitolo, vi apporto alcune correzioni e salvo il file nella cartella romanzi, esitando alla ricerca del titolo. La collina tempestosa? No, troppo simile a quello della Brontë, al quale peraltro mi sono ispirata. L’orfana vagabonda? Melodrammatico, ma che importa? Nessuno lo deve giudicare, tranne me. Fisso lo schermo luminoso nella stanza buia, mi stropiccio gli occhi irritati. Nella barra in basso a sinistra, accanto all’icona della posta elettronica, la comparsa del numero 1 avvisa che è arrivata un’e-mail. Scrivo La collina tempestosa nello spazio riservato al nome del file e lo chiudo. Deciderò in seguito se mantenerlo o cambiarlo. Spesso ho sentito dire che il titolo va scelto per ultimo, quando l’opera è già completa, come una specie di sigillo, ma tanto non importa, visto che nessuno leggerà né il romanzo né il titolo. Che liberazione non doversi preoccupare del parere degli altri. Rileggo il capitolo e mi sembra di sentire i commenti dei critici con la puzza sotto il naso: soggetto assurdo al limite del ridicolo, linguaggio da romanzo d’appendice superato da un secolo, stile ampolloso e melodrammatico, situazione inverosimile, impubblicabile. 

    Ma che vadano tutti a farsi fottere: questa volta scrivo solo per me, per divertirmi. Il file sarà top secret. Soltanto per uso personale. Già mi sento meglio. 

    Apro la posta e avverto un tuffo al cuore quando vedo che il mittente è un editore. Finalmente. Da mesi ho spedito il mio ultimo romanzo a diversi editori e non ho ancora ricevuto risposte. È tanta l’emozione che i piccoli caratteri mi danzano davanti agli occhi e si confondono. Sbatto le palpebre.

    Siamo spiacenti, ma il suo manoscritto non è conforme alla nostra linea editoriale.

    E poche parole di convenevoli, chiudo l’e-mail e la cancello, per eliminarla dalla coscienza, come se non fosse mai esistita. È dura non ricevere nessuna risposta, ma un rifiuto è peggio, è una conferma del fallimento, un sasso tirato addosso, un chiodo nel coperchio della bara. Sto imparando a pensare come scrivo, in stile gotico.

    Un odore mi distrae e, per quanto sia sgradevole, per un attimo il nuovo pensiero attutisce la delusione del rifiuto. È puzza di carne bruciata. Se l’è dimenticata sul fuoco un’altra volta.

    Uscendo dalla mia camera sono investita dalla puzza e dal rumore del televisore acceso, come sempre, ad alto volume. Mia madre è seduta nella sua vecchia poltrona, le gambe coperte dal plaid, immemore della pentola che sfrigola sul fornello, e sta fumando una sigaretta. L’unica luce accesa è quella dello schermo. L’oscurità della sera è entrata di soppiatto ed ha inghiottito gli oggetti familiari: il mobile componibile ad angolo degli anni ’70, il tavolo coperto da una tovaglia ricamata a punto croce, la poltrona sfondata dalla fodera sporca e le sedie imbottite con la seduta ancora protetta dallo strato di nylon protettivo ormai strappato, dopo tanti anni di uso quotidiano. 

    Corro nel cucinino, accendo la luce, spengo il gas, apro il rubinetto, riempio un bicchiere d’acqua e lo verso nella pentola. Il condimento bruciato sfrigola rabbioso ed emette una nuvola di vapore e di schizzi. Il fondo del tegame è nero, il pezzo di carne indurito e scuro.

    «Mamma, hai fatto bruciare l’arrosto!» grido, e lascio cadere la pentola rovente nel lavandino. 

    Accendo la luce anche nel tinello e mi metto in piedi davanti al televisore.

    «Mamma, hai fatto bruciare l’arrosto», ripeto.

    Lei distoglie lo sguardo dallo schermo e mi lancia un’occhiata contrariata, facendo segno con la mano di allontanarmi.

    «Togliti di lì, ché non vedo».

    «Mamma, è bruciato l’arrosto» insisto.

    «È una scena importante, non farmela perdere».

    Rassegnata, torno nel cucinino per buttare la carne nella spazzatura e raschiare la pentola.

    «Spegni la luce» mi dice.

    Ubbidisco e il tinello ritorna in penombra. Apro il frigorifero: c’è ancora del prosciutto e una confezione di Fontal. Con un po’ d’insalata e una mela la cena è servita. Almeno per oggi. Domani dovrò fare la spesa, prima di andare al call center. Il fondo della pentola è troppo incrostato per riuscire a pulirlo con la spugnetta normale. Cerco una paglietta di metallo tra i detersivi, nel mobiletto sotto il lavandino, ma non la trovo. Mi annoto mentalmente di comprare anche quella, domani al supermercato. Provo a grattare il fondo con la lama di un coltello, ma in questo modo il rivestimento di Teflon si rovinerà completamente e sarà inutilizzabile. Decidendo che ormai è rovinata comunque, butto la pentola nel sacco dei rifiuti indifferenziati. Sto attenta alla raccolta differenziata della spazzatura: è il mio piccolo contributo all’economia del pianeta. 

    Domani dovrò comprare anche un’altra pentola. 

    Mia madre sta diventando un problema. Non posso attribuire soltanto alla distrazione, o alla passione smodata per i telefilm, la sua crescente noncuranza per qualsiasi cosa, la mancata percezione del pericolo. Credo si tratti di qualcosa di peggio e probabilmente, anzi, di sicuro, peggiorerà ancora. Piccoli indizi ci sono da tempo, ma ho preferito ignorarli per non dovermi preoccupare anche di questo. L’altro giorno, per esempio, quando facevamo i conti della spesa, lei si è confusa con i numeri, come se avesse dimenticato il valore dei soldi. Ieri, invece, non riusciva a manovrare il telecomando, e schiacciava tasti a caso,

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